sabato 22 agosto 2009

La Storia della Sicilia contemporanea inizia con la spedizione dei Mille e l'annessione al neonato Regno d'Italia (1860) fino ad oggi.

La sera del 5 maggio 1860, dallo scoglio di Quarto (Genova), partiva la spedizione dei Mille, comandata dal generale Giuseppe Garibaldi, sui vaporetti Lombardo e Piemonte.
La mattina dell'
11 maggio i vaporetti della spedizione sbarcavano nel porto di Marsala, non incontrando alcuna resistenza borbonica. Il 14 maggio 1860 Giuseppe Garibaldi si proclama a Salemi dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II di Savoia.
I Mille di
Garibaldi, affiancati da 500 "picciotti" (galeotti ricercati dal governo borbonico), sconfissero le truppe borboniche nella battaglia di Calatafimi (15 maggio). Intanto a Palermo scoppiava una violenta rivolta, dando così la possibilità a Garibaldi di conquistare facilmente la città, sbaragliando i battaglioni borbonici che combattevano contro i patrioti siciliani sia nel centro abitato che dalle navi ancorate al porto di Palermo.
Il
20 luglio i Mille sconfiggono definitivamente i Borboni nella battaglia di Milazzo e, nei giorni successivi, ottengono la resa di Messina, avendo così il passaggio aperto per continuare le battaglie contro il Regno delle Due Sicilie nel continente. La Sicilia invece è stata conquistata per intero ed è pronta per l'annessione al Piemonte.

Il plebiscito e l'unione al Regno d'Italia.

Il 21 ottobre 1860 nel Regno delle Due Sicilie si svolse il plebiscito per decidere l'annessione al Piemonte. In Sicilia, su 2.232.000 abitanti, gli iscritti alle liste elettorali erano circa 575.000. Si presentarono a votare in 432.720 (il 75,2 % degli aventi diritto), di cui 432.053 si dichiararono favorevoli e 667 contrari. La virtuale unanimità ottenuta dai favorevoli all'annessione, che venne peraltro riscontrata in tutti i plebisciti svolti nei vari stati preunitari, non ha mancato di sollevare forti dubbi sulla genuinità e sulla correttezza delle operazioni elettorali. Nel caso della Sicilia, inoltre, in tanti si erano illusi di una totale autonomia di governo basandosi sul fatto che nel primo periodo Garibaldi aveva proclamato la sua "dittatura" sulla regione occupata.

Prime delusioni.

Le classi più povere, i braccianti e i contadini avevano sperato che il nuovo ordinamento avrebbe assicurato la distribuzione delle terre dei latifondi e dei feudi della chiesa; ma i più si ritennero ingannati quando si resero conto che non sarebbe stata effettuata alcuna riforma agraria.
Il Conte
Camillo Benso di Cavour, che avera fretta di definire l'atto di annessione nel timore di un intervento militare delle potenze amiche dei Borboni, scavalcando Garibaldi e le sue promesse, estese alla regione le leggi e i regolamenti in vigore nel Regno di Sardegna. Venne ignorato del tutto il fatto che la Sicilia godesse già di leggi speciali e di una certa forma di autonomia sotto i Borboni, ottenute anche a seguito di precedenti rivolte popolari, e furono trascurate le spinte autonomistiche che la Sicilia aveva sempre manifestato nei confronti dei poteri centrali succedutisi negli anni.
Tutto ciò provocò in poche settimane il passaggio dall’entusiasmo ad una vera e propria forma di ostilità per tutto ciò che sapeva di "
piemontese". Non fu certo una buona mossa neanche quella di inviare funzionari e amministratori del nord Italia in Sicilia con la motivazione che c’era troppa corruzione e clientelismo. Il loro modo di pensare era diverso da quello degli isolani e questo aggravava le incomprensioni.
Oltre alla mancata distribuzione delle terre, promessa da
Giuseppe Garibaldi, vennero introdotte nuove pesanti imposte come quella sul sale, sul macinato [1](che colpiva prodotti basilari per l'alimentazione delle classi inferiori come il pane e la pasta) [2] e venne attuato il sevizio militare obbligatorio. In un mondo contadino, in cui il numero di braccia era quello che faceva la quantità di raccolto, togliere alle famiglie soggetti giovani e in pieno vigore per il lungo servizio militare riduceva molte di queste alla disperazione. Il fatto era aggravato dalla mentalità locale che vedeva come disonorevole per la donna lavorare i campi o fare la spesa. Inoltre i renitenti e i disertori, dandosi alla macchia, finivano con l'ingrossare le file della malavita.

Il brigantaggio e lo sviluppo della mafia.

La nuova struttura amministrativa della regione e la creazione di ben quattro nuovi organismi di polizia lungi dal rivelarsi positivi misero le premesse per la rapida perdita del controllo del territorio, ben conosciuto dalla vecchia polizia borbonica ma spesso incomprensibile ai nuovi funzionari del nord Italia, e favorirono il dilagare della corruzione, degli intrallazzi e della guerra tra bande criminali. È in questo periodo che compare in maniera evidente il termine mafia. Nel 1863 ottiene un grande successo una commedia dal titolo "I mafiusi di la Vicaria", ambientata nella prigione di Palermo.
La
mafia, da alcuni chiamata anche "maffia" (che tuttavia secondo il Correnti è un termine più toscano che siciliano[3]) esisteva già da tempo; secondo alcuni dalla dominazione araba, secondo altri dal periodo spagnolo e dell'Inquisizione e, secondo altri studiosi, addirittura dal periodo della dominazione romana per il controllo del "granaio di Roma" e dei suoi schiavi. Nel 1868, la parola "Mafia" veniva definita non come criminalità organizzata, ma precisamente ad un atteggiamento arrogante, spocchioso, insolente.
Ora che la
mafia si "ufficializza" come sistema di difesa dei proprietari terrieri contro i furti, o come sistema dei campieri-gabellotti per intimidire gli stessi proprietari, diventa piano piano anche il mezzo mediante il quale le autorità piemontesi, impotenti a governare il territorio, tengono a freno ogni velleità di rivolta mettendo a capo dei municipi i "capi-rais" o personaggi indicati da questi.
Il nuovo ceto politico capisce che gli conviene fare patti di mutuo interesse con il
mafioso locale. Questi amministra la sua giustizia, anche sommaria, risolvendo problemi che l’amministrazione venuta dal nord Italia non riesce neanche ad inquadrare; sopperisce, col suo paternalismo interessato, a risolvere problemi che lo Stato invece accentua e, agli occhi del popolano più misero, risulta quindi più efficiente e "giusto".
È forse questa l'origine della sfiducia verso lo Stato, che appare lontano e vessatorio.
I notabili locali e le nuove classi dirigenti si adattarono presto alle nuove regole, divennero presto convinti fautori, per proprio tornaconto, dell'annessione al
Regno piemontese, alcuni anche per mantenere i vecchi privilegi.
Perfino la tardiva distribuzione delle terre del
latifondo e dei feudi ecclesiastici, iniziata nel 1861, a gente troppo misera, che finiva con l'indebitarsi per acquistare le sementi ed era costretta a svendere le terre stesse per debiti, sortì solo l'effetto di riformare i latifondi con nuovi proprietari ed acquirenti e, per giunta, a prezzi stracciati.
Il romanzo "
Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, "I Viceré" di Federico de Roberto e i romanzi di Giovanni Verga illustrano bene tutto ciò.

Continua su: http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_Sicilia_dall%27Unit%C3%A0_d%27Italia

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