mercoledì 2 settembre 2009

La mafia come spettacolo per non parlare della mafia vera

31 agosto 2009 - di Riccardo De Gennaro.

Molte “fiction” finiscono per essere, si spera senza volerlo, una specie di propaganda di Cosa Nostra. Mafiosi superuomini, improbabili investigatori, e silenzio quasi assoluto - ma si potrebbe anche dire omertà - sui livelli alti del sistema di potere mafioso, quello vero. Anche la mafia, oggi, conosce perfet tamente l’importanza del mezzo televisi vo: se il figlio di Ciancimino dice il vero, Provenzano chiese con una lettera a Berlusconi la disponibili tà, o perlome no i favori, di una rete Mediaset. La tv è un’arma, non crea soltanto l’immagine, ma la scolpisce nelle menti dei telespet tatori, al di là di ogni oggettiva contesta zione. La grande maggioranza degli ita liani, quella che non legge libri e giorna li, si fa oggi della mafia l’idea suggerita dagli sceneggiati televisivi e dai film. È un’idea che naturalmente, fin dai tempi de “Il padrino” o de “Il giorno della ci vetta” esce sempre, volontaria mente o involontariamente, “edulco rata” dal ba gno nella natura fantastica dello sceneg giato e del film, che – per ragioni di cas setta e al contrario dei documentari e dei reportage giornali stici – non permette di rispecchiare compiutamente la verità nuda e cruda. Ora, tuttavia, con questo governo, si ha la sensazione che il rap porto ma fia-tv-cinema sia entrato in una nuova fase, diversa da quella cui appar tengono il Padrino e la Piovra. Non ci sono le prove, ma è possibile che gli uo mini della mafia riescano a influenzare direttamente i contenuti degli sceneggiati e dei film, imponendo un “filtro ideologico” al prodotto, un filtro studiato per spingere lo spettatore a identificarsi con i protagonisti di Cosa Nostra, a difenderne i valori e le scelte, a guardare al mondo della criminalità organizzata come a un fenomeno legittimo e, per certi versi, condivisibile. A Berlusconi e Dell’Utri, che prima delle ultime elezioni definirono “un eroe” il mafioso Mangano, rischiano di unirsi, ad esempio, i telespettatori della fiction televisiva “Il capo dei capi”, dedicata a Totò Riina.Se la lotta alla mafia è prima di tutto un problema culturale, l’abdicare da parte degli autori e dei registi di questi prodotti d’intrattenimento a un ruolo di spietata denuncia del fenomeno mafioso è particolarmente grave, al punto che tre magistrati, impegnati sul fronte della criminalità organizzata (Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia della procura di Palermo, Raffaele Marino di quella di Torre Annunziata) hanno sentito la necessità di prendere posizione contro questa deriva culturale con un intervento sul prossimo numero della rivista “I Duellanti”, che dedica uno “speciale” al rapporto tra film, fiction e mafia.I magistrati si chiedono: perché questi sceneggiati non rappresentano «i retroscena del potere mafioso, invece della sua dimensione più colorita e folcloristica»?È solo distrazione? È omertà? Come per i film sui nazisti, che per certi versi finiscono per esaltare la potenza del Terzo Reich, come per la trasposizione cinematografica e televisiva di “Romanzo Criminale”, che accentuando la linea estetizzante del mezzo espressivo, spinge quasi a simpatizzare per i componenti della Banda della Magliana, così i più recenti film e sceneggiati sulla mafia e sulla camorra (“Gomorra” a parte) ottengono il solo risultato di ammorbidire il problema mafioso, di renderlo accettabile, di predisporre lo spettatore a una non troppo scomoda convivenza. E in qualche caso si può parlare di vera e propria propaganda.

http://www.antimafiaduemila.com/content/view/18986/48/

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