domenica 30 maggio 2010

I Servizi alla mafia - Nando Dalla Chiesa


Come spesso accade in questo paese, la verità appare improvvisamente afferrabile quindici, vent’anni dopo. Squarci, lampi di verità. E la speranza di farcela, che stavolta non sia “come le altre”. C’è da giurarci, però, che anche stavolta faranno di tutto perché quei lampi restino tali. I timori di nuovi scoppi criminali volti a intimidire o ricattare o inquinare, sono per questo tutt’altro che campati per aria.
Ma non c’è da affettare alcuno stupore o alcuna offesa incredulità davanti agli scenari che si profilano.
La presenza dei servizi segreti e delle zone d’ombra del potere nelle vicende di mafia è un fatto storico acclarato. E da anni chi non è né vuole essere cieco è costretto a confrontarsi con scampoli inquietanti di verità. Nelle quali l’odore dei Servizi, ma non solo il loro, si riconosce da lontano. La cassaforte svuotata, la notte del delitto, nella casa del prefetto Dalla Chiesa, chiusa anche ai parenti. Il tritolo dell’Addaura e quel rinvio di Falcone alle “menti raffinatissime”, come a indicare una regia esterna a Cosa Nostra. L’assassinio dell’agente Agostino e i suoi misteri. La vicenda di via D’Amelio e il terribile groviglio di piste e di interessi che le è lievitato intorno con gli anni. Le inchieste di Caltanissetta e di Firenze che lambiscono poteri economici di primissimo livello, da Gardini a Berlusconi. Il celebre “papello” di Riina e l’altrettanto celebre trattativa, condotta mentre frana la prima Repubblica. La mediazione di Vito Ciancimino con le testimonianze del figlio Massimo, che scoperchiano le relazioni tra suo padre (agli arresti domiciliari) e Bernardo Provenzano o quel “signor Franco”, uomo delle istituzioni, finalmente individuato in foto accanto a personaggi di governo.
Tutto questo abbiamo davanti, e questa matassa dobbiamo sbrogliare con precisione e senza pregiudizi, perché questa è materia sulla quale non si può sbagliare, né per eccesso né per difetto.
Ma, appunto, bisogna dotarsi di una bussola capace di offrire punti di riferimento certi. Il primo è che la mafia è, in Italia, parte costitutiva del sistema di potere.
Sgradevole all’olfatto, da non portare ai matrimoni (anche se qualcuno ce la porta), ma sempre presente. Il secondo è che la mafia non prende ordini da nessuno.
La mafia fa e chiede favori. Agisce cioè da interlocutore dei differenti soggetti, illegali e legali, che compongono il circuito del potere. Sta in una zona di libero scambio che il nostro ordinamento non dovrebbe tollerare ma tollera. Perché, e questo è il terzo punto fermo, il sistema istituzionale e politico italiano prevede organicamente al proprio interno un alto tasso di illegalità, assolutamente anomalo nel contesto occidentale.
Se questi tre punti fermi sono veri, allora non c’è da rincorrere un’“entità”, un soggetto unico, magari una cupola strutturata, per capire che cosa è accaduto. Bisogna pazientemente e intelligentemente comporre gli scambi possibili e il gioco degli interlocutori possibili. Vagliare chi e perché avrebbe potuto desiderare o decidere una cosa; chi e perché avrebbe potuto avvantaggiarsi – e fino a che punto –, almeno nelle intenzioni, di una particolare scelta criminale. Senza farsi prendere dalla fantascienza ma sapendo che a volte la mafia, e il rapporto mafia-stato, è fantascienza.
E sapendo che lo scambio col diavolo è nella nostra democrazia un metodo.
Non monopolio di questo o quell’altro politico, ma una costante che si trasmette nelle generazioni.
Una cosa abbiamo dunque il dovere di fare. Di aspettare gli esiti del lavoro della magistratura, certo. Ma di non aspettare la conclusione dei processi di terzo grado, se verranno, per sforzarci di dare agli italiani la ricostruzione più attendibile (non “più gradevole”) di quanto è accaduto. Le stragi le ha fatte la mafia. Ma le hanno volute e coperte anche altri: interlocutori stretti, protagonisti della zona di libero scambio. A quei nomi stiamo arrivando.
Quei nomi cercheranno di salvarsi, in tutti i modi.


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