mercoledì 30 giugno 2010

Berlusconi teme l'affondo finale "Ora proveranno a colpire pure me"


Il Cavaliere è convinto che altre procure stiano preparando nuove inchieste: "Sentenza politica, i giudici giacobini assolvono Tartaglia e non Marcello". E il Pdl ora vuole cambiare il reato di concorso esterno


dal nostro inviato FRANCESCO BEI

SAN PAOLO - "Assolvono Tartaglia, uno che ha provato ad ammazzarmi, e condannano Marcello solo per aver conosciuto 30 anni fa delle persone che poi si sarebbero scoperte vicine alla mafia. Questa è la magistratura giacobina che ci ritroviamo". Il premier si trova nella suite dell'hotel Tivoli di San Paolo quando dall'Italia gli giunge la notizia della condanna di Dell'Utri. I contatti con Roma sono limitati, filtrati dal portavoce Bonaiuti, ma qualcuno che assicura di averci parlato descrive un Berlusconi "molto preoccupato" per quella che ritiene essere "l'ennesima sentenza politica" di una magistratura ostile al governo. Non a caso, la sera prima, si era premurato di rispolverare - a beneficio del gotha degli imprenditori italiani in Brasile - quella definizione di "metastasi" per i pm "politicizzati". Un'uscita preventiva in vista della sentenza di ieri, da cui tuttavia il Cavaliere si tiene ben lontano: non vuole parlare di Dell'Utri, non intende farsi trascinare nella mischia. Così, al suo rientro in albergo dopo il pranzo con il presidente Lula, si tiene alla larga dai taccuini e si rifugia di corsa nella sua stanza protetto dalla scorta e dallo staff. "Avete già fatto troppi danni ieri", sibila ai giornalisti.

E tuttavia Berlusconi, a differenza di molti nel Pdl, non ritiene affatto sventata quella "manovra politica" che attribuisce alla magistratura per scardinare il governo. È convinto che il processo a Dell'Utri sia soltanto un pezzo del domino,


ma sa che altre procure - Firenze , Palermo e Caltanissetta - hanno ancora in cottura inchieste potenzialmente devastanti per la sua immagine e per il futuro della maggioranza. La guardia resta alta, nella convinzione che "ci riproveranno". E torna quindi ad affacciarsi, nei ragionamenti di queste ore tra gli uomini che si occupano di giustizia per il premier, la vecchia idea di rimettere mano al reato di concorso esterno in associazione mafiosa. "Un reato che nel codice penale nemmeno esiste", spiegano, "inventato" dai magistrati e usato per "colpire" gli avversari politici. Lo strumento potrebbe essere una leggina ad hoc, per limitarne al massimo l'applicabilità e così sventare anche i nuovi possibili colpi delle procure.

Per ora, nel Pdl si gioisce per lo scampato pericolo, visto che la condanna per Dell'Utri avrebbe anche potuto riscrivere la storia della genesi di Forza Italia. "Diciamolo chiaramente - afferma Daniele Capezzone - dalla sentenza esce distrutta tutta la tesi di Ingroia che indicava in Marcello Dell'Utri il costruttore di un nuovo soggetto politico in accordo con la mafia". "Non a caso - aggiunge Fabrizio Cicchitto - il più deluso è il procuratore Gatto, visto che la Corte ha smontato l'idea di una sostanziale identità di interessi tra "l'entità" Forza Italia e i boss". Sono considerazioni positive, di chi si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno, ma rischiano di apparire consolatorie visto che una condanna c'è stata e pure molto pesante. Un amico personale di Dell'Utri - Amedeo Laboccetta -, dopo aver sentito tre volte al telefono "Marcello", confessa infatti il suo sconforto per "una sentenza cerchiobottista". "I magistrati - si sfoga - potevano chiudere la vicenda se solo avessero voluto e invece si sono comportati come Don Abbondio. D'altronde la pressione politica e quella mediatica era fortissima, tutti volevano una condanna. Almeno ora è chiaro che Berlusconi con la mafia non c'entra nulla: la manovra per far saltare il governo è fallita".

Non è questa però l'impressione del Cavaliere. Con i suoi uomini più in vista sotto inchiesta - da Verdini a Dell'Utri, da Brancher a Bertolaso - il premier resta convinto che i magistrati abbiamo messo nel mirino chi gli sta intorno per arrivare a lui. "La magistratura politicizzata - ha spiegato due sera fa agli italiani di San Paolo - è una spina nel fianco della nostra civiltà attuale. Ma io ho giurato che non mi farò da parte finché non l'avrò riformata". Quasi una "missione", a cui darà nuovo impulso al suo rientro a Roma dopo la lunga trasferta all'estero (prima il G8 in Canada, poi il Brasile e oggi Panama), pronto a rovesciare il tavolo se i finiani dovessero mettersi di traverso.






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