martedì 31 agosto 2010

Processo breve targato Pd. - Bruno Tinti




Ma è possibile che il Pd, quando si parla di giustizia e di cosiddette riforme, non ne imbrocchi una che è una?
Riforma delle intercettazioni: il progetto Mastella (dal nome del ministro piazzato dal Pd – non da B&C – sulla poltrona di via Arenula) riscosse l’applauso di tutti i delinquenti del Paese e in particolare di quelli che sedevano in Parlamento. Processo breve: il copyright di questo balordo salvacondotto ai malfattori più ricchi e sofisticati (un processo per rapina, omicidio o traffico di droga è sempre “breve”, quelli lunghi sono i processi per frode fiscale, corruzione, insider trading, falso in bilancio e così via) appartiene di diritto al Partito democratico che nel 2004 presentò un disegno di legge sulla stessa materia. Sicché oggi dà un po’ fastidio dover riconoscere che il ministro Alfano non ha tutti i torti quando si lamenta di tutte le critiche che piovono sul “suo” processo breve da parte di chi, tutto sommato, ne aveva proposto uno più o meno uguale.

È per questo che qualcuno dovrebbe spiegare al Pd che accanirsi sull’unica norma ragionevole contenuta nel progetto Alfano non è molto intelligente. Dice dunque il Pd che non va bene che la nuova legge si applichi ai processi già in corso, per reati commessi prima del 2 maggio 2006 e puniti con pena inferiore a 10 anni: norma fatta apposta per impedire il
processo Mills ed evitare che B. venga ufficialmente dichiarato colpevole di corruzione.
Naturalmente nessuno si sogna di contestare che questo sia l’unico scopo di questa legge, ripescata alla vigilia della dichiarazione di incostituzionalità del ponte tibetano, il legittimo impedimento che sempre lo stesso scopo aveva, impedire che B. venisse dichiarato colpevole etc etc. Ma il punto è che, se B. non ci fosse (però, come sarebbe bello!), questa norma sarebbe l’unica ragionevole tra quelle che compongono il
disegno di legge Alfano. Che senso ha celebrare processi per reati che si prescriveranno con certezza prima che sia possibile arrivare al processo d’appello? E che senso ha celebrarli quando la pena che dovrebbe essere presumibilmente inflitta sarebbe vanificata dall’indulto, provvedimento scellerato approvato da tutti i partiti (al solito non dall’IdV), che grida vendetta ma che, ormai, lì sta e nessuno può eliminarne gli effetti?

Se le molte teste competenti di diritto che militano nel Partito democratico venissero consultate prima di stabilire le strategie dell’opposizione in materia di giustizia, sarebbe agevole contestare al ministro Alfano che, sì, è vero, anche il Pds (allora si chiamava così) aveva progettato un processo breve; ma che questo era molto diverso dalla
scappatoia pro B. su cui ora la maggioranza ricatta il Paese: fiducia o elezioni.
Si potrebbe ricordare al ministro e ai cittadini (le cose basta spiegarle in maniera chiara) che in quel disegno di legge si imponevano
tempi certi per celebrare i processi ma che non si calcolavano le interruzioni del processo dovute alle richieste di rinvio per impedimento dell’imputato o del difensore e nemmeno quelle rese necessarie dalle rogatorie internazionali (durano anni e il giudice italiano non ha nessun modo per sollecitarle), dalla mancata presentazione dei testimoni e dalla necessità di rintracciarli e farli accompagnare in aula. Insomma si potrebbe ricordare che il progetto del Pdssanzionava con la morte del processo (e le conseguenti responsabilità disciplinari) l’inerzia del giudice, la sua incapacità organizzativa, l’eventuale pigrizia; ma che teneva conto delle interruzioni, inevitabili in ognidibattimento, per assumere le prove necessarie per decidere.

Ma c'è di più. Il Pd potrebbe ricordare che il suo rigoroso progetto fu, all’epoca, snaturato dalla destra, che pretese, per concedere il suo appoggio al disegno di legge, che le interruzioni eventualmente necessarie per l’acquisizione delle prove non fossero incluse tra le cause legittime di
sospensione del processo. Per dire, se l’imputato offriva al pubblico ufficiale da lui corrotto un bel soggiorno alle Barbados, così questi si rendeva irreperibile e non si presentava a testimoniare, il tempo necessario per accertare dove quello era finito e per costringerlo a venire in aula non interrompeva i termini per la morte del processo. L’accordo, per la verità scellerato, fu concluso; ma il progetto non ebbe seguito per la caduta del governo.

Tutto questo dimostra alcune cose molto preoccupanti, perfino più del processo morto su cui si giocano le sorti della legislatura:
1) Oggi l’opposizione è così poco efficace nella critica al salvacondotto di B. perché evidentemente ha la
coda di paglia;
2) l’aspirazione del Pd a un dialogo costruttivo per riforme condivise viene da lontano;
3) i disastrosi risultati di questo metodo non hanno insegnato niente.


da Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2010



Spatuzza e l'ultima tentazione dei Graviano.

di Anna Petrozzi - 30 agosto 2010


La notizia che Gaspare Spatuzza abbia indicato il presidente del Senato Renato Schifani come uno dei personaggi di raccordo tra i fratelli Graviano e Marcello Dell’Utri spunta proprio mentre i suoi avvocati presentano il
ricorso al Tar per la mancata assegnazione del programma di protezione.

Come si ricorderà il collaboratore che ha consentito la riapertura delle indagini sulla strage di via D’Amelio è il primo nella storia ad aver incassato il parere favorevole di tre procure e di vedersi comunque escluso dallo speciale trattamento per i pentiti.
La questione, quella pretestuosa, è la cavillosa interpretazione dell’assurda legge sul limite dei 180 giorni, quella vera, è che Spatuzza ha avuto la pessima idea di confermare per l’ennesima volta il collegamento tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra e questo è altamente sconsigliabile se si immagina di poter ottenere i benefici che la legge prevede, come cercare di salvare la pelle.
A quanto pare Spatuzza, per quanto sia facile da denigrare e avvilire a causa dei gravissimi delitti di cui si è macchiato, deve proprio far paura. Al momento le sue rivelazioni riguardo a Schifani non sono che indiscrezioni giornalistiche e non se ne conoscono i dettagli, ma le manovre più o meno palesi per intralciarne la collaborazione, per screditarla, per renderla il più possibile innocua sono state a largo raggio.
Per esempio, l’altra eccezione rappresentata da questo nuovo incubo per gli amici del premier dal passato quanto meno ambiguo, è che i suoi capimafia di riferimento, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, spietati boss del mandamento di Brancaccio, stragisti e per questo ergastolani, non lo hanno assalito, vituperato e rinnegato, come tradizione vuole. Anzi, gli hanno confermato l’affetto e persino il rispetto per il cammino intrapreso. Addirittura il minore, Filippo ha parlato di un “percorso di legalità”, certo, alla sua maniera, ma è un dato rilevante, considerato il soggetto.
E Giuseppe, il più potente e riverito, tanto da essere chiamato “Madre Natura”, nel corso del processo Dell’Utri, si è avvalso della facoltà di non rispondere a causa della sua condizione di detenuto in isolamento lasciando intendere che non appena si fosse ripreso avrebbe volentieri risposto ai giudici.
La lunga storia dei sottili dialoghi tra mafia e stato ci insegna che il sottaciuto è persino più eloquente di quanto detto e soprattutto che la tempistica delle risposte silenziose non è un dettaglio da sottovalutare.
I fratelli Filippo e Giuseppe Graviano hanno accettato di rispondere alle domande dei magistrati di Firenze il 28 luglio 2009, lo stesso giorno in cui effettuano l’amichevole confronto con il traditore Spatuzza, e poi mantengono una certa disponibilità anche nel mese di agosto e di settembre.
Il 4 dicembre con una tensione mediatica paragonabile solo a quella del maxi processo, quando ha deposto Buscetta, i giudici sentono il pentito. Esattamente un mese prima perviene in Cancelleria l’istanza degli avvocati di Giuseppe Graviano che chiedono di revocare l’isolamento diurno che il boss sconta dal 24 ottobre 2001. Secondo quanto prevede la legge, la “separazione coattiva” può essere prorogata ogni sei mesi per un massimo di tre anni e riapplicata in caso di eventuale commissione di ulteriore reato. Il provvedimento per Graviano sarebbe quindi dovuto terminare il 23 ottobre 2004 ma, nonostante le richieste dei legali, è stato sempre prorogato. Invece il 17 dicembre 2009, una settimana dopo che Giuseppe Graviano ha lasciato intendere di mal tollerare la sua condizione e di essere disponibile a parlare, è stato prontamente accontentato.
Invano il suo avvocato, per ben cinque anni, aveva perorato la causa, sono bastate due parole non dette in mondo visione per far passare al temibile boss, depositario di chissà quanti segreti sulle stragi del ’93 di cui è stato regista e sui mandanti ancora occulti, quella pericolosa tentazione.
E se mai gli dovesse tornare, sarebbe interessante vedere fino a quanto può alzare la posta.
Quando si dice il potere del silenzio.


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Ecco perchè a Berlusconi piace tanto Gheddafi.


Diritti umani


La Libia è considerata da più parti come un regime autoritario, a causa della precarietà dei diritti umani nel Paese.

Secondo l'Organizzazione non governativa Freedom House, nel 2009 la Libia è considerata un paese non libero (sono possibili, secondo l'ong, tre varianti: libero, parzialmente libero enon libero).

Secondo il rapporto annuale dell'Organizzazione non governativa Human Rights Watch il ministero libico della giustizia e i tribunali libici non "ricercano la giustizia e la verità".

Inoltre si registrano violazioni e discriminazioni ai danni delle tribù meridionali Tuareg e Tebu.

Lo stato libico ricorre alla pena di morte.

Il 7 giugno 2010 la Libia ha chiuso l'Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR). In Libia non è possibile chiedere asilo politico, e fino al 10 giugno l'Ufficio delle Nazioni unite sopperiva a questa mancanza. La decisione libica non è stata accompagnata da spiegazioni. Il ministro degli esteri della dittatura nordafricana ha dichiarato che l'Agenzia dell'ONU per i rifugiati svolge un'attività illecita.

Protesta a Parolario contro Dell'Utri Parte-3


Queste si che sono soddisfazioni!





lunedì 30 agosto 2010

PETER GOMEZ COMMENTA L'INTERVENTO DI BEPPE GRILLO DEL 1986




E nella sala calò il silenzio........

La verità non si può dire




Postato da un commentatore


Questi paladini dell'Europa giudaico-cristiana, questi legionari della croce, consentono a un burino beduino, a un fanfarone addobbato da pagliaccio, un imbecille strafatto d'oppio, un satrapo artefice di un regime di aguzzini, sicari e spie, un chiavacammelli in visita ufficiale e solenne per la celebrazione del trattato di amicizia italo-libico di pronunciare, nella città del papa e del vaticano, nella Roma eterna, caput mundi, un auspicio e un appello alla conversione di tutta l'Europa alla fede di maometto, di bin laden e del povero saddam.

Che dico'consentono'..gli hanno fatto autostrade.
E gli procurano anche una platea di 400 belle fiche e mignotte tutte arrapate per la grande occasione e impegnate nelle interviste a dar sfoggio, col Corano sottobraccio, della propria defilippiana demenza.

Italianiiii! Sono le vostre figlie, le vostre sorelle! (la mia no, sta a casa, se no la meno)
Già che ci siamo facciamogliene montare qualcuna dagli stalloni berberi, nel bel mezzo del carosello dell'Arma dei Carabinieri.
Magari apprezza l'illustre ospite. Gradisca, Colonnello!

Oppure immoliamogliele.Vergini e martiri convertite e consacrate ad Allah.
E non rompa le palle la Fanghiglia cristiana.
I piccioli so' piccioli.Bissinissi.
Lo vedi come ci sa fare l'Uomo del fare, l'Imprenditore puro, il self merde man nazionale?
E' la politica estera delle pacche sul culo e dei lupanare.
Su cui se la intendono alla grande i due maialoni di stato.

Ad officiarla in pompa magna, a far le infamie di casa, splen-demente nel sorriso radioso, Frattini , il Grande Eunuco della Gran Loggia del Grande Oriente d'Italia.
Quello che disse alla stampa estera parlando in generale che in Italia che un 73enne fotta una 15enne non è mica reato.

E i Pera, Ferrara, La Russa, Gasparri...e tutta la schiera dei cattosionisti nostrali?
Ci ha pensato Geronzi.
"Zitti e Mosca, stronzi!"


Scritto da un commentatore su:

http://www.beppegrillo.it/2010/08/castelli_di_sab/index.html#scrivi


Lo riporto perchè mi ha colpito e ne condivido in pieno il contenuto


venerdì 27 agosto 2010

Il fronte anti-Mondadori è sul web


Parte dal web la campagna di sensibilizzazione e boicottaggio contro la casa editrice di Segrate. Grazie a una legge “ad aziendam” varata dal Parlamento, la Mondadori potrà estinguere un antico contenzioso con il fisco pagando il 5% della somma dovuta, arrivando a risparmiare 350 milioni di euro. L’animatore della campagna è Gianfranco Mascia, uno che se ci fossero gli oscar dell’antiberlusconismo, meriterebbe una menzione d’onore. Il coordinatore dei comitati BO.BI, Boicotta il biscione, ha lanciato attraverso il sito www.mondadorinograzie.org una petizione online attraverso cui sarà possibile scrivere ai propri autori preferiti che lavorano con la Mondadori di non pubblicare più per la casa editrice. Attraverso un form online sarà possibile esprimere il proprio disappunto direttamente ai vari Carlo Lucarelli, Roberto Saviano, Vittorio Zucconi e a tutta la scuderia di scrittori che, nonostante abbiano il cuore a sinistra, continuano a scrivere per l’azienda di Marina Berlusconi.
A partire da settembre la campagna dal web si sposterà nelle piazze. Il comitato ha infatti intenzione di organizzare manifestazioni e volantinaggi davanti alle librerie per sensibilizzare l’opinione pubblica a non comprare libri Mondadori.



domenica 22 agosto 2010

Bellissima!







Il David, Renzi, Bondi e il regio decreto




Polemica tra il sindaco di Firenze e il ministro della Cultura sul capolavoro...

Ma è la vicenda Mills il vero cruccio del Cavaliere.



Il premier: indispensabile approvare apposite
norme a riguardo
La sentenza prevista per marzo
UGO MAGRI
ROMA
L’unica cosa che davvero preme a Berlusconi è nascosta tra le pieghe del documento finale, sotto la voce «Giustizia». Consiste nel passaggio (soppesato parola per parola nel vertice a Palazzo Grazioli) sulla ragionevole durata dei processi. Sarà «indispensabile», sostiene il premier, «approvare apposite norme» a riguardo. Un testo c’è già, ed è quello licenziato a Palazzo Madama prima dell’estate. Se passerà così com’è pure alla Camera, il Cavaliere riuscirà a salvarsi dalla condanna che incombe sul suo capo a Milano (vicenda Mills).

Bisogna però che la legge proceda al galoppo, perché l’avvocato Ghedini prevede la sentenza in arrivo tra marzo e aprile. Ma soprattutto, dal punto di vista del premier, è necessario che nessuno modifichi la norma transitoria, cucita su misura per far saltare i suoi processi. Se Fini ci sta, e pone la sua firma sotto il processo breve, la crisi può considerarsi virtualmente conclusa. Se invece non ci sta, «alle urne perché anche se la Lega va forte io vinco uguale...».

Questa è la sostanza della giornata. Tutto il resto è stato detto (in conferenza stampa del premier) e scritto (nel documento di 10 pagine) solo in quanto un vertice era convocato, mica si poteva più disdire, il punto politico andava tenuto, e così è stato, secondo copione. L’unico vero «fuor d’opera» è la risposta che Berlusconi ha dato all’Ansa, sulle elezioni da tenersi a dicembre nel caso in cui la crisi dovesse precipitare. Passi per la tesi, enunciata all’inizio del documento, secondo cui l’ultima parola spetta al popolo e non al Capo dello Stato.

Ma perlomeno sulla data delle elezioni il Cavaliere poteva trattenersi: rientra infatti nelle prerogative del Quirinale, netta è l’invasione di campo. I collaboratori provano a giustificarlo, «in fondo Silvio che altro avrebbe potuto rispondere alla domanda?». Silenzio dal Colle, un po’ per non gettare altra benzina sul fuoco, ma soprattutto in quanto le posizioni di Napolitano sono ben note, chiare in merito all’eventuale scioglimento delle Camere, dunque «non cambiano», osserva un consigliere presidenziale, «poiché trovano fondamento nella Costituzione».

Resterà deluso chi immagina chissà quali discorsi dietro le quinte del vertice. A quanto risulta, i partecipanti hanno passato ore sul testo, chi aggiungendo una riga, chi tagliandone un’altra. Le correzioni di Tremonti sono state minime, altri ministri si sono esercitati con più passione. Il risultato finale non si discosta molto dalla bozza scritta alla vigilia da Bonaiuti, che il Cavaliere si è portato in tasca dalla Sardegna, irritatissimo per aver dovuto interrompere la sua breve vacanza. Al telefono con un vecchio amico, ieri mattina, letteralmente smoccolava.

Ovvio che fra le quattro mura si sia ragionato di numeri, e che ciascuno abbia detto la sua. Conclusione collettiva: al momento della fiducia, 10-12 deputati potranno tranquillamente aggiungersi ai 308 di cui Berlusconi già dispone sulla carta. Si tratterebbe, pare, di centristi a spasso, di cani sciolti, anche di finiani in crisi. Ma senza particolari «campagne acquisti» per non esasperare lo scontro col presidente della Camera. Contro il quale Berlusconi poteva lanciarsi alla carica, stuzzicato dai giornalisti. Invece dalla sua bocca è uscita solo qualche frase smozzicata, ardua da interpretare. E’ un silenzio che parla da sé.



Cari economisti scendete a terra.




Continua lo scambio di accuse su chi è responsabile della peggior recessione mondiale dai tempi della Grande depressione: i finanzieri che sono stati incapaci di gestire il rischio o i regolatori che non sono riusciti a fermarli. Ma una parte non indifferente della colpa spetta agli economisti di professione. Hanno rassicurato i regolatori fornendo modelli di mercati che si auto-regolavano, si auto-correggevano ed erano efficienti. Regnava sovrana l'ipotesi del mercato efficiente. Oggi l'economia è andata a rotoli insieme, si può sperare, al paradigma economico che prevaleva negli anni prima della crisi.

Per i non-economisti, è difficile capire quanto fossero strani i modelli macroeconomici dominanti. Molti di essi presupponevano che la domanda doveva essere pari all'offerta, vale a dire che non poteva esserci disoccupazione (in questo momento, tanta gente si sta godendo una dose di svago in più, e la sua infelicità è una questione che riguarda la psichiatria, non l'economia). Molti si basavano su "agenti rappresentativi", su individui presunti tutti identici, vale a dire che non potevano esserci mercati finanziari significativi (chi avrebbe prestato denaro a chi?).

Né c'era posto per l'informazione asimmetrica, la chiave di volta dell'economia moderna, ovviamente le asimmetrie si sarebbero prodotte solo se gli individui fossero stati affetti da schizofrenia acuta, un assunto incompatibile con un altro, fondamentale: erano totalmente razionali.

I cattivi modelli portano a cattive politiche, per esempio le banche centrali si sono occupate soprattutto di piccole inefficienze economiche dovute all'inflazione, senza badare a quelle ben maggiori dovute alle disfunzioni dei mercati finanziari e alle bolle dei prezzi degli asset. D'altronde i modelli dicevano che i mercati erano sempre efficienti. Fatto degno di nota, i modelli macroeconomici standard non comprendevano neppure un'analisi adeguata delle banche. Perciò nel suo famoso mea culpa, Alan Greenspan, l'ex governatore della Federal Reserve, s'è detto sorpreso dal fatto che le banche non avessero mostrato più competenza nel gestire i rischi. La vera sorpresa è stata la sua: bastava un'occhiata veloce agli incentivi perversi offerti alle banche e ai loro direttori per prevederne il comportamento miope mentre correvano rischi eccessivi.

Ai modelli standard andrebbero assegnati voti in base alla loro capacità predittiva, e in particolare nelle circostanze che contano. È meno importante disporre di previsioni più accurate in tempi normali (sapere se la crescita economica sarà del 2,4 o del 2,5%) che di una buona misura del rischio di forte recessione. Su questo punto i modelli sono falliti miseramente e la loro credibilità è stata completamente minata dalle decisioni prese dai policy-maker che li hanno usati. Questi ultimi non hanno visto arrivare la crisi, dopo che era scoppiata la bolla hanno detto che i suoi effetti erano contenuti, hanno pensato che le conseguenze sarebbero state transitorie e meno severe di come sono state in realtà.

Per fortuna, mentre quei modelli fallaci andavano per la maggiore, numerosi ricercatori si occupavano di sviluppare alternative. La teoria economica aveva già dimostrato che molte delle conclusioni centrali dei modelli standard non erano robuste, nel senso che minimi cambiamenti negli assunti facevano variare di molto le conclusioni. Asimmetrie anche piccole dell'informazione, o imperfezioni nei mercati dei rischi, indicavano che i mercati non erano affatto efficienti. E venivano contraddetti risultati famosi, come la mano invisibile di Adam Smith: quella mano era invisibile perché non c'era. Oggi sono rimasti in poche le persone pronte a sostenere che i manager delle banche, nel perseguire il proprio interesse, hanno fatto il bene dell'economia.

La politica monetaria influisce sull'economia attraverso la disponibilità del credito e i termini con i quali viene messo a disposizione di piccole e medie imprese. Per capirlo occorre analizzare le banche e le loro interazioni con il settore creditizio ombra. La divergenza fra il tasso determinato dal Tesoro e quello praticato può variare notevolmente. Con rare eccezioni, le banche centrali hanno prestato scarsa attenzione al rischio sistemico e a quelli generati dalle interconnessioni del credito. Anni prima della crisi, alcuni ricercatori hanno studiato proprio questi problemi, compresa la possibilità di bancarotte a cascata che nella crisi avrebbero avuto un ruolo così determinante. È un esempio dell'importanza di creare modelli accurati delle interazioni complesse tra gli agenti economici (famiglie, società, banche), interazioni impossibili da studiare nei modelli in cui gli agenti siano tutti uguali. È finito sotto tiro persino l'assunto sacrosanto della razionalità: esistono deviazioni sistemiche dalla razionalità e conseguenze sul comportamento economico che vanno esplorate.

È arduo cambiare paradigma perché ci sono stati troppi investimenti nei modelli sbagliati. Com'è accaduto con i tentativi tolemaici di conservare una visione geocentrica dell'universo, verranno fatti sforzi eroici per complicare e affinare quello attuale. Forse ne risulteranno modelli migliori e forse serviranno per politiche migliori, ma è molto probabile che falliranno di nuovo. Ci vuole niente di meno di un nuovo paradigma e credo che sia a portata di mano. I mattoni intellettuali ci sono, e l'Institute for new economic thinking è l'ambito nel quale un gruppo variegato di studiosi sta cercando di costruirlo. In palio, ovviamente, c'è ben più della credibilità della professione, o dei policy-maker che ne usano le idee, ma la stabilità e la prosperità delle nostre economie.

(Traduzione di Sylvie Coyaud)

© FINANCIAL TIMES




sabato 21 agosto 2010

21 agosto, fine delle risorse - Clara Gibellini





Stiamo per andare in rosso. Con oltre quattro mesi di anticipo rispetto alla fine del 2010, il 21 agosto l’umanità avrà già consumato tutte le risorse che la natura può fornire nel corso di un anno. Ad annunciare la data del “Earth Overshoot Day”, il giorno del superamento, in cui la terra inizia a vivere al di sopra dei propri mezzi ecologici, è il Global Footprint Network, l’organizzazione internazionale che misura l’impatto dell’esistenza sulla natura.

La scadenza corrisponde al giorno in cui esauriamo il nostro budget ecologico annuale, mettendo la terra in condizioni di produrre risorse oltre la sua naturale capacità di rinnovarle. Un prestito dagli effetti devastanti per gli equilibri del pianeta, secondo i responsabili del GFN: “dalla capacità di filtraggio dell’anidride carbonica a quella di produrre cibo, chiederemo alla terra di consumare stock di risorse aggiuntive accumulando ulteriori gas a effetto serra in atmosfera”.

A misurare il numero massimo di giorni che la biosfera può approvvigionare in un anno è il rapporto tra l’“impronta ecologica” globale – indice statistico di 150 Paesi che mette in relazione il consumo annuo di risorse ecologiche con la loro disponibilità – e la capacità della natura di rigenerarsi nel corso dello stesso arco temporale.

Un indicatore di sostenibilità che precipita di anno in anno, trascinando con sé i buoni intenti di uno stile di vita più eco-compatibile. Dai trend annuali dell’organizzazione, nel 1987, primo anno in cui fu calcolato l’“Earth Overshoot Day”, il sorpasso avvenne con soli dieci giorni di anticipo rispetto alla scadenza del 31 dicembre. Nel 1995 fu il 21 novembre mentre dieci anni dopo il pianeta andò in riserva già il 20 ottobre. Negli ultimi due anni la deadline per l’equilibrio della terra è stata anticipata di un mese – da settembre a agosto – e forse ora è davvero arrivato il momento di fermarsi. “Quando si esauriscono in nove mesi le risorse di un anno si dovrebbe essere seriamente preoccupati”, afferma
Mathis Wackernagel, presidente di Global Footprint Network. “La situazione non è meno urgente sul fronte ecologico: cambiamenti climatici, perdita di biodiversità e carenza di cibo e acqua sono tutti chiari segnali di come non potremo più continuare a consumare ‘a credito’”.

Vedi anche: I paesi creditori e debitori ecologici

http://www.footprintnetwork.org/en/index.php/GFN/page/ecological_debtors_and_creditors/



La grande beffa della sovranità popolare - Alessandro Gilioli




E così anche il Corriere, con un Ostellino in prima pagina, oggi ci spiega che la ‘volontà popolare’ impone sostanzialmente di andare subito alle urne nel caso Berlusconi non avesse più la maggioranza, con buona pace di ogni ipotesi di transizione, foss’anche solo per modificare la legge elettorale.

La tesi, se non fosse brandita da Berlusconi e dai suoi come un randello preventivo sulla testa di Napolitano, meriterebbe anche di essere presa in considerazione nel suo voler tutelare – appunto – il principio della sovranità popolare.

Peccato che tutto questo rispetto per le sacre scelte degli elettori non sia minimamente preso in considerazione quando invece si affronta il modo in cui questa sovranità è destinata a concretizzarsi in caso di ritorno immediato al voto, cioè il mitico Porcellum: creato – quello sì, e innegabilmente – da una conventicola di palazzo, in spregio alla volontà popolare e con lo scopo di vanificarla, dati i meccanismi cooptativi che prevede per la nomina dei parlamentari e i rischi connessi con il megapremio di maggioranza.

Insomma pare un po’ curioso che gli attuali crociati della ‘volontà popolare’ (pdl e lega) siano esattamente gli stessi che l’hanno mortificata brutalmente con il Porcellum; così come è ridicolo che si invochi il ritorno alle urne con questo sistema come un lavacro di democrazia quando invece il meccanismo elettorale cooptativo è proprio uno stupro alla democrazia; ed è semplicemente grottesco che si invochino le elezioni subito sulla base del ‘quindicennio bipolare’ esattamente quando il quindicennale bipolarismo si sta sfasciando: con la probabile conseguenza che se si votasse ora con questa legge (pensata appunto per due sole coalizioni contrapposte) rischieremmo di avere invece tre significativi schieramenti in corsa (centrosinistra, centrodestra e centro casiniano-finiano), con il bel risultato di consegnare la maggioranza assoluta dei seggi a chi ha preso il 35 per cento dei voti.

Alla faccia della sovranità popolare.


http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/08/18/la-grande-beffa-della-sovranita-popolare/


Indovinate di che si parla al ritorno -




Piovono rane - Alessandro Gilioli


Okay, d’accordo, è stato un agosto divertente, e il nuovo gruppo di Fini, e la casa di Montecarlo, e le interviste a Gaucci che d’estate sono perfette e sostituiscono splendidamente – come genere gionalistico trash – quelle al defunto Cossiga.

Adesso però basta divertirsi, le vacanze stanno finendo: tutti a casa coperti e allineati, che c’è da votare in fretta e furia il processo breve, visto che a dicembre la Consulta probabilmente farà saltare il legittimo impedimento.

Insomma si torna da dove ci si era lasciati, all’unico vero programma politico di legislatura, cioè l’impunità del capo – il resto sono simpatiche balle da rifilare ai gonzi dei gazebo.

Certo, l’ultimo scudo potrebbe arrivare dopo che i precedenti due sono stati dichiarati contrari alla Costituzione, insomma si rischia di scoprire fra tre mesi che da due anni quello si sta salvando le chiappe in modo illegittimo, ma invece di discutere se un violatore compulsivo della Carta vada spedito immediatamente a casa, il Parlamento gli approverà la terza legge per salvarlo dai processi, e pure in fretta che il Paese ne ha urgenza.


http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/08/21/indovinate-di-che-si-parla-al-ritorno/


Il governo delle banche di Serge Halimi - 02/07/2010





Il 10 maggio 2010, rassicurati da una nuova immissione di 750 miliardi di euro nella fornace della speculazione, i detentori di titoli di Société Générale hanno guadagnato un 23,89%. Lo stesso giorno, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato che, a causa di restrizioni nel bilancio, l’incentivo di 150 euro alle famiglie in difficoltà non sarebbe stato prorogato. Così, da una crisi finanziaria all’altra, cresce la convinzione che il potere politico adegui le proprie scelte alla volontà degli azionisti. Ogni volta i rappresentanti eletti chiedono alla popolazione di votare quei partiti che i “mercati” hanno prescelto per la loro innocuità.

Il sospetto di prevaricazioni affonda poco a poco la fiducia nei proclami sul bene pubblico. Quando Obama ha rimproverato la banca Goldman Sachs per meglio giustificare le sue misure per la regolamentazione finanziaria, i repubblicani hanno subito diffuso uno spot (1) che ricorda la lista di donazioni che il presidente e i suoi amici politici hanno ricevuto dalla compagnia durante la campagna elettorale del 2008: “Democratici: 4,5 milioni di dollari. Repubblicani: 1,5 milioni di dollari. I politici attaccano l’industria finanziaria ma accettano milioni da Wall Street.”

Quando il partito conservatore inglese, fingendosi impegnato a proteggere i bilanci delle famiglie povere, si oppose all’introduzione di un prezzo minimo per le bevande alcoliche, i laburisti risposero che l’intenzione era piuttosto quella di compiacere i proprietari dei supermercati, ostili a una tale misura, dal momento che essa ha reso le bevande alcoliche un prodotto civetta per gli adolescenti, affascinati dal fatto di poter pagare la birra meno dell’acqua. Infine, quando Sarkozy eliminò la pubblicità dai canali pubblici, fu facile intuire i guadagni che la televisione privata guidata dai suoi amici Vincent Bolloré e Martin Bouygues avrebbero ottenuto da una situazione che li esime da qualunque competizione nel ricco settore della pubblicità.

Questo tipo di sospetti non sono nuovi. La gente si rassegna alle situazioni che dovrebbero causare scandalo. Si dice: “È sempre stato così.” È vero che nel 1887 il genero del presidente francese Kules Grévy usò i propri parenti all’Eliseo per poter negoziare le decorazioni ufficiali; agli inizi del secolo scorso, la Standard Oil dava ordini a diversi governatori degli Stati Uniti. E per quanto riguarda la dittatura della finanza, già nel 1924 si faceva riferimento al “plebiscito quotidiano dei detentori di buoni” – i creditori del debito pubblico -, anche chiamati “il muro di denaro”. Nonostante tutto, venivano emanate leggi per regolare il ruolo del capitale nella vita politica. Questo è capitato anche negli Stati Uniti, durante l’Era Progressista (1880-1920) e poi dopo lo scandalo Watergate, sempre in seguito a qualche agitazione politica. Il “muro di denaro” francese fu messo sotto controllo dopo la Liberazione nel 1944. Le cose possono anche essere sempre andate così, ma sono suscettibili di cambiamento.

E possono cambiare ancora ma in senso opposto. Il 30 gennaio 1976, la Corte Suprema degli Stati Uniti annullava varie disposizioni chiave votate dal Congresso che limitavano il ruolo del denaro nella politica (caso Buckley contro Valeo). I giudici sostenevano che “la libertà di espressione per contribuire al dibattito pubblico non può dipendere dalla capacità finanziaria degli individui”. In altre parole, non ci devono essere limiti alla spesa per potersi esprimere. Lo scorso gennaio, questa causa si è ampliata fino all’estremo di autorizzare le imprese a spendere quel che vogliono per favorire (o attaccare) un candidato.

Negli ultimi 20 anni, con gli antichi
apparatchiks sovietici trasformatisi in oligarchi industriali, gli impresari cinesi che occupano un ruolo distaccato in seno al Partito Comunista, i capi dell’Esecutivo, ministri e deputati europei che preparano, stile americano, la propria conversione al “settore privato”, un clero iraniano e i militari pachistani inebriati dagli affari (2), lo scivolamento verso la corruzione è diventato sistematico. Questo influisce sulla vita politica del pianeta.

Nella primavera del 1996, in conclusione di un mandato davvero mediocre, il presidente Bill Clinton preparava la campagna per la sua rielezione. Aveva bisogno di soldi. Per ottenerli, ebbe l’idea di offrire ai donatori più generosi la possibilità di passare una notte alla Casa Bianca, per esempio nella “camera di Lincoln”. Dal momento che avvicinarsi al sogno del “Grande Emancipatore” non era alla portata delle tasche più vuote né era una fantasia obbligata di quelle più piene, si misero all’asta altri piaceri. Come quello di “bere un caffè” alla Casa Bianca con il presidente degli Stati Uniti. Pertanto i potenziali grandi donatori del Partito Democratico incontrarono membri dell’esecutivo il cui lavoro era di regolare le loro attività. Il portavoce di Clinton, Lanny Davis, spiegò ingenuamente che era “un’occasione per i regolatori di imparare di più sui problemi dell’industria in questione”(3). Una di quelle “colazioni di lavoro” può essere costata decine di miliardi di dollari all’economia mondiale, favorendo la crescita del debito degli stati, e può aver provocato la perdita di decine di milioni di posti di lavoro.

Il 13 maggio 1996 alcuni dei principali banchieri degli Stati Uniti sono stati ricevuti per 90 minuti alla Casa Bianca dai principali rappresentanti dell’Amministrazione. Insieme al presidente Clinton partecipava alla riunione anche il segretario del Tesoro, Robert Rubin, il suo aggiunto incaricato degli Affari Monetari, John Hawke e il responsabile della regolamentazione delle banche, Eugene Ludwig. Per una coincidenza sicuramente fortuita partecipava anche il tesoriere del Partito Democratico, Marvin Rosen. Secondo il portavoce di Ludwig, “i banchieri hanno discusso la legislazione futura, incluse le idee che permetterebbero di abbattere la barriera che separa le banche dalle altre istituzioni finanziarie”.

Dopo il crac del 1929, il New Deal aveva proibito alle banche di depositi di rischiare imprudentemente il denaro dei suoi clienti, perché questo obbligava in seguito lo Stato a riscattare quelle istituzioni per il timore che un loro eventuale collasso provocasse la rovina dei numerosi detentori di titoli.. Firmata dal presidente Franklin Roosevelt nel 1933, la regolamentazione ancora vigente nel 1996 (legge Glass-Steagall) dispiaceva fortemente ai banchieri, interessati a diventare parte dei beneficiari dei miracoli della “new economy”. La “colazione di lavoro” aveva come obiettivo ricordare quel dispiacere al capo dell’esecutivo statunitense proprio mentre lui cercava di ottenere un finanziamento da parte delle banche per la sua rielezione.

Alcune settimane dopo l’incontro, i dispacci delle agenzie informavano che il Dipartimento del Tesoro avrebbe inviato al Congresso un pacchetto di leggi “che metteva in discussione le norme bancarie stabilite sei decenni addietro, il che avrebbe permesso alle banche di lanciarsi ampiamente nel mercato delle assicurazioni e nel settore delle banche di affari e investimenti”. Il seguito è ben conosciuto. La deroga alla legge Glass-Steagall è stata firmata nel 1999 da un presidente Clinton rieletto tre anni prima, in parte grazie al suo bottino di guerra elettorale (4). Questa deroga ha attizzato l’orgia speculativa degli anni 2000 (sofisticazione crescente dei prodotti finanziari, come i crediti ipotecari subprime, ecc.) e ha facilitato il crac economico del settembre 2008.

In realtà, la “colazione di lavoro” del 1996 (ce ne sono state 103 dello stesso tipo nello stesso periodo alla Casa Bianca) non ha fatto altro che confermare la forza del peso che faceva inclinare la bilancia verso gli interessi della finanza. Perché è stato un Congresso a maggioranza repubblicana ad affossare la Glass-Steagall, in accordo con la sua ideologia liberale e ai voleri dei suoi mecenati; anche i congressisti repubblicani hanno ricevuto dollari dalle banche. Per quanto riguarda l’Amministrazione Clinton, con o senza “colazioni di lavoro”, non sarebbe stato possibile resistere a lungo alle preferenze di Wall Street: il suo segretario del Tesoro, Robert Rubin, aveva diretto la Goldman Sachs. Così come lo aveva fatto Henry Paulson, a carico del Tesoro statunitense durante il crac del settembre 2008. Dopo aver lasciato morire le banche Bear Stearns e Merryl Lynch – due concorrenti di Goldman Sachs – Paulson ha riscattato la American Insurance Group (AIG), un’agenzia di assicurazioni il cui crollo avrebbe colpito il suo maggior creditore: Goldman Sachs.

Perché un popolo che in maggioranza non è costituito da ricchi, accetta che i suoi rappresentanti abbiano come priorità quella di soddisfare le richieste degli industriali, degli avvocati affaristi, dei banchieri al punto che la politica finisce col consolidare i rapporti delle forze economiche invece di opporre loro la legittimità democratica? Perché quando questi stessi ricchi vengono eletti si sentono autorizzati a esibire la propria fortuna? E a proclamare che l’interesse generale richiede la soddisfazione degli interessi particolari delle classi privilegiate, le uniche col potere di fare (investire) o impedire (delocalizzare), e che pertanto è necessario sedurre (“tranquillizzare i mercati”) o contenere (la logica dello scudo fiscale)?

Queste domande ci riportano al caso dell’Italia. In questo paese, uno degli uomini più ricchi del pianeta non si è aggregato a un partito con la speranza di influenzarlo, ha invece creato il suo, Forza Italia, per difendere i suoi interessi imprenditoriali. Di fatto, il 23 novembre 2009
La Repubblica ha pubblicato la lista delle diciotto leggi che hanno favorito l’impero commerciale di Silvio Berlusconi a partire del 1994, o che gli hanno permesso di sfuggire all’azione della magistratura. Il ministro della giustizia del Costa Rica, Francisco Dall’Anase, ha avvisato quale sarà la prossima tappa. Quella che vedrà in alcuni paesi uno Stato non più solo al servizio delle banche ma anche dei gruppi criminali: “I cartelli della droga si impadroniranno dei partiti politici, finanzieranno le campagne elettorali e infine prenderanno il controllo dell’Esecutivo”. (5).

A proposito, che impatto ha avuto questa rivelazione di
La Repubblica sul risultato elettorale della destra italiana? A giudicare dall’esito delle elezioni regionali di marzo scorso, nessuno. È come se il quotidiano rilassamento della morale pubblica avesse immunizzato la popolazione rassegnata alla corruzione della vita politica. Perché indignarsi allora quando i rappresentati si impegnano continuamente a soddisfare i nuovi oligarchi o a raggiungerli sulla cima della piramide dei guadagni? “I poveri non fanno donazioni pubbliche”, diceva a ragione l’ex candidato repubblicano alla presidenza John McCain, che è diventato lobbista dell’industria finanziaria.

Ad un mese dalla sua uscita dalla Casa Bianca, Bill Clinton ha guadagnato tanto denaro quanto quello guadagnato in 53 anni di vita. Goldman Sachs lo ha retribuito con 650.000 dollari per quattro discorsi. Per un altro discorso, pronunciato in Francia, ha riscosso 250.000 dollari; questa volta a pagare è stato Citigroup. Nell’ultimo anno del mandato, la coppia Clinton ha dichiarato introiti per 357.000 dollari; tra il 2001 e il 2007, il totale del guadagno è stato di 109 milioni di dollari. Oggi giorno, la celebrità e i contatti acquisiti lungo una carriera politica vengono negoziati soprattutto una volta che questa carriera è terminata. I posti di amministratori nel settore privato o di assessore di banche rimpiazzano vantaggiosamente un mandato popolare che si è appena concluso. E siccome governare è prevedere..

Ma il “pantouflage” (6) non si spiega unicamente con l’esigenza di rimanere membri a vita dell’oligarchia. Le aziende private, le istituzioni finanziarie internazionali e le organizzazioni non governative collegate alle multinazionali si sono convertite, a volte più che lo Stato, in luoghi di potere e di egemonia intellettuale. In Francia, il prestigio delle finanze così come il desiderio di forgiarsi un futuro dorato hanno sviato molti iscritti della Scuola Nazionale di Amministrazione (ENA), della Scuola Normale Superiore (ENS) o della Scuola Politecnica dalla loro vocazione di servitori del bene pubblico. L’ex alunno della ENA e della ENS ed ex primo ministro Alain Juppé, ha confessato di aver sperimentato una tentazione del genere: “Tutti siamo rimasti affascinati, perfino i mezzi di comunicazione. I
golden boys erano formidabili! Quei giovani che arrivavano a Londra e davanti ai loro pc trasferivano migliaia di milioni di dollari in pochi istanti, che guadagnavano centinaia di milioni di euro ogni mese – eravamo tutti affascinati! – (...) Non sarei del tutto sincero se negassi che anche io ogni tanto mi dicevo: “accidenti, se avessi fatto questo forse oggi sarei in una situazione diversa” (7).

“Nessun pentimento” invece per Yves Galland, ex ministro del Commercio francese diventato presidente di Boeing France, un’azienda in competizione con Airbus. Nessun pentimento nemmeno per Clara Gaymard, moglie di Hervé Gaymard, ex ministro dell’Economia, Finanze e Industria: dopo essere stata una funzionaria a Bercy (sede del ministero) e in seguito ambasciatrice itinerante delegata dall’Agenzia Francese di Investimenti Internazionali, è diventata presidente di General Electric France. Coscienza tranquilla anche per Christine Albanel, che durante tre anni ha occupato il Ministero della Cultura e Comunicazione. Da aprile 2010 è ancora a carico della comunicazione... ma della France Telécom.

La metà degli ex senatori statunitensi diventano lobbisti, spesso al servizio delle aziende che avevano regolato. Lo stesso è successo con 283 ex membri della Amministrazione di Clinton e 310 ex membri della Amministrazione di Bush. Negli Stati Uniti, il volume annuale di affari di lobbying si aggira sugli 8 miliardi di dollari. Somma enorme, ma con una rendita eccezionale. Nel 2003, per esempio, l’imposta sui guadagni ottenuti all’estero da Citigroup, JP Morgan Chase, Morgan Stanley e Merril Lynch si è ridotto dal 35% al 5,25%. Prezzo dell’azione di lobbying: 8,5 milioni di dollari. Beneficio fiscale: 2 miliardi di dollari. Nome della norma in questione: “Legge per la creazione di lavori americani”(8). “Nelle società moderne – conclude Alain Minc, laureato all’ENA, assessore (ad honorem) di Sarkozy e (al soldo) di vari grandi imprenditori francesi – si può servire l’interesse generale in un posto che non sia lo Stato, come nelle aziende” (9). L’interesse generale, è tutto li.

Questa attrazione per le aziende (e le loro remunerazioni) ha causato vittime anche a sinistra. “L’alta borghesia si è rinnovata – così spiegava nel 2006 Francois Hollande, allora primo segretario del Partito Socialista francese – mentre la sinistra si assumeva delle responsabilità, nel 1981. (...) È stato l’apparato statale a proiettare il capitalismo dei suoi nuovi dirigenti. (...) Provenienti da una cultura di servizio pubblico, hanno avuto accesso allo status di nuovi ricchi e si sono rivolti ai politici che li avevano designati come fossero i loro superiori” (10). Politici che sono stati tentati di seguirli.

Settori sempre più estesi della popolazione hanno legato, a volte inconsapevolmente, il proprio destino, attraverso i fondi pensione, i fondi d’investimento, ecc., a quello della finanza. Attualmente è possibile difendere le banche e la Borsa fingendo di interessarsi al destino della vedova senza mezzi, dell’impiegato che ha comprato azioni per migliorare il suo salario o garantirsi una pensione. Nel 2004, il presidente George W. Bush ha basato la propria campagna elettorale su quella “classe di investitori”. The Wall Street Journal spiegava: “Più gli elettori sono azionisti, più appoggiano le politiche liberali associate ai repubblicani. (...) Il 58% degli statunitensi ha un investimento diretto o indiretto nei mercati finanziari, di fronte al 44% di sei anni fa. Ad ogni livello di introiti, gli investitori diretti sono più propensi a dichiararsi repubblicani che i non investitori” (11). Si capisce il sogno di Bush di privatizzare le pensioni.

“Schiavi delle finanze da due decenni, i governi si rivolgeranno contro di loro solo se esse li aggrediranno oltre la soglia di tolleranza”, questo aveva annunciato il mese scorso l’economista Frédéric Lordon (12). La portata delle misure che Germania, Francia, gli Stati Uniti e il G-20 prenderanno contro la speculazione nelle prossime settimane ci dirà se la quotidiana umiliazione che i mercati infliggono agli Stati e la collera popolare istigata dal cinismo delle banche, farà destare una qualche dignità nei governi stanchi di essere trattati come dei lacché.