martedì 30 novembre 2010

L'ultima guerra di Mario Monicelli. - di Andrea Scanzi



Si getta nel vuoto una delle ultime coscienze italiane.

E' appena finito un giorno terribile. Una delle ultime coscienze critiche di questo paese se n'è andata. Per sua stessa mano.
Mario Monicelli si è ucciso. Diranno che non doveva. Si chiederanno come possa uccidersi un uomo di 95 anni. Scriveranno che il suicidio è peccato. Come se uno, anche da morto, debba beccarsi gli strali del bigottismo più palloso. Quello che ha sbertucciato per una vita intera. Diranno anche che un uomo di 95 anni non si piange. Che la morte fa parte della vita (sempre originali, i coccodrilli). E invece no. Questa è una morte che fa più male di quella di un bambino. Perché Monicelli era un bambino. E non era un bambino come gli altri.
E' vero, non faceva più grandi film. Poteva permetterselo: uno che gira
La grande guerra, ad sola, può anche smettere di pensare. E lui non aveva mai smesso. Non solo nei Soliti Ignoti.
Non so se l'avrebbe preso come complimento - non credo -, ma le sue cose migliori ultimamente erano le interviste. Neanche sei mesi fa, aveva raccontato in due minuti lo schifo dell'Italia contemporanea. Uno dei momenti più alti mai visti nel piccolo schermo. A
Raiperunanotte, mentre in studio c'era un quasi cantante che si metteva i baffi finti e col suo inutile narcisismo faceva capire - per contrasto - quanta differenza passi tra gli Artisti di ieri e i Furbastri di oggi (sì, parlo di Morgan).
Riguardatevi quei due, tre minuti. Quelli in cui Monicelli parla di noi, degli italiani: è il nostro autoritratto. Quello che non ci piace guardare, perché siamo brutti e stupidi. Ignoranti e pavidi. E lui ce lo ricordava. Nei film, nelle interviste. In ogni cosa che diceva e pensava.
Era vivo, Monicelli. Anche troppo. Andava in tivù e amava dire che faceva ancora sesso. Che la morte non gli aveva mai fatto paura. Che Dio non l'aveva mai visto, quindi non c'era motivo di temerlo.
Era così vivo che ha deciso di scegliersela, la morte. Non meno di suo padre. Dall'alto, come Primo Levi. In controtempo, come Cesare Pavese. Uno schiaffo alla stasi italica, come Luigi Tenco.
Un'ultima inquadratura geniale, irriverente. Quasi come una commedia. Un lancio nel vuoto ad anticipare una trama scontata. A sporcare la retorica che non avrebbe sopportato. A dare inchiostro ai soliti bacchettoni. A riderne, chissà dove. Se esiste un Dove.
E' un anno implodente. Se ne vanno tutti. Quasi che il pensiero fosse da noi un bagaglio fuori luogo. Quasi che l'Italia non se li meritasse.
Mario Monicelli ha vissuto come ha voluto e così è morto. Senza rimpianti. Con la certezza che non c'era più niente da perdersi.
Senza lui farà ancora più freddo. Freddo dentro. Circondati da politicanti schifosi, italiani medi ampiamente al di sotto della deficienza. Tutti
amici miei senza supercazzola. Tutte comparse immeritevoli di un Regista troppo arguto per scendere a patti con la banalità di un pensiero scomparso.


Ciao, Maestro. E grazie.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti/hrubrica.asp?ID_blog=241


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