domenica 20 giugno 2010

Il Vaticano crocifigge Saramago - Paolo Flores d’Arcais



José Saramago ha lasciato l’isola di Lanzarote. La sua salma è stata trasferita in Portogallo, dove dopo la camera ardente verrà cremata. Una parte delle ceneri ritornerà nell’isola e sarà sepolta ai piedi di un ulivo. Mentre le agenzie battevano queste notizie, ne aggiungevano un’altra: al grande scrittore scomparso arrivava uno straordinario riconoscimento, l’attacco forsennato del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, talmente invasato nella pulsione dell’anatema da dare spurgo a una prosa sgangherata e sbilenca. Ma la carità cristiana, si sa, messa in mano alla Chiesa gerarchica può fare miracoli.

Gli uncini di Benedetto
Evidentemente i suoi libri devono aver colto nel vivo, se il foglio del Papa sente il bisogno di sproloquiare che “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di un semplicismo teologico sconfortante: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”. Prescindendo dalla struttura sintattica di conio prepotentemente tedesco, colpisce quella “sua mente” descritta come “uncinata”, per l’assonanza hitleriana che il lapsus evoca con gioventù assai diverse da quella del grande scrittore, a parte che in italiano “una mente uncinata da una banalizzazione” o lo scrive un genio del “pulp” o te la segnano in blu in qualsiasi ginnasio. L’autore, o traduttore, del cristiano necrologio, vuole dire che il cervello di Saramago era destabilizzato dalla banalizzazione del sacro (vulgo: che era un pazzo o un coglione) o che con tale banalizzazione, coniugata col suo materialismo libertario, destabilizzava la fede dei lettori? Perché in quest’ultimo caso sarebbe un elogio.

La teologia
Del resto “lo sconfortante semplicismo teologico” che gli viene imputato riassume solo nella splendida forma narrativa del Vangelo secondo Gesù e del più recente Caino le antinomie della teodicea delle quali, malgrado secoli di sottigliezze teologiche e alpinismo sugli specchi, i dottori della Chiesa non sono mai riusciti a venire a capo. L’“house organ” del presunto Vicario di Cristo in terra fulmina lo scrittore per essersela presa con “un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza” ma dimentica la infinita bontà e/o giustizia che è la caratteristica di Dio incompatibile con l’onnipotenza, visti gli orrori di cui è albergo il “Suo” creato, incompatibilità da cui non ci si libera con il solito richiamo al passpartout del “mistero”, anzi delle “(di Dio) prerogative per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero” . Segue il puro nonsense, razionalmente parlando, della conclusione: “Oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande”. Quanto al Vangelo secondo Gesù quello che manda fuori dai gangheri
L’Osservatore è che sia costruito utilizzando tutti i dati che la critica storica delle origini del cristianesimo considera da decenni acquisiti, da un Gesù che non si considerò mai il Cristo (eventualmente, per alcuni, al momento della croce) a una Maria di cui nulla sappiamo, se non che giudicava suo figlio “fuori di sé” (Marco, 3,21). E valorizzando tutte le contraddizioni della favola teologica realizzata nei secoli successivi, fino a Nicea e Calcedonia.

Anti-logica
Ma la logica non è il forte del quotidiano vaticano e neppure il rispetto dei fatti, visto che come botta finale rimprovera al grande scrittore che “un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perchè del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche”: esattamente quello che Saramago ha fatto, con il suo impegno inesauribile “dalla parte degli ultimi”, dei poveri, degli emarginati, che a chi pretende di predicare il Vangelo tutte le domeniche qualcosa dovrebbe pur ricordare.

(20 giugno 2010)

Leggi anche:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-mio-maestro-jose-saviano-ricorda-saramago/

http://temi.repubblica.it/micromega-online/saramago-l%e2%80%99uomo-che-chiamava-le-ingiustizie-per-nome/

Dalle intercettazioni a Pomigliano, un unico assalto alla Costituzione - Giuseppe Giulietti




Esiste un nesso tra la legge bavaglio e quello che sta accadendo a Pomigliano? Sì, esiste e consiste nel tentativo di mettere mano alla Costituzione, di rendere flessibile lo stato di diritto, di affermare una sorta di pensiero unico all'interno del quale si devono e si dovranno collocare maggioranze e opposizioni, di oggi e di domani.

Non contestiamo, e ci mancherebbe, il diritto di avere posizioni diverse sull'accordo, sul futuro dell'auto e di Pomigliano, sulla opportunità di istituire nuovi turni e persino di rendere più stringenti i controlli in materia di assenteismo, ma quello che proprio non possiamo accettare è che si voglia introdurre una sorta di sospensione del diritto di sciopero, e che su questo punto si voglia persino chiedere ai lavoratori di Pomigliano di votare sì a questa vergogna, aprendo la strada ad analoghi comportamenti in tutti i settori.

"Sarà una eccezione, non si ripeterà, sarà un caso isolato", hanno detto e ripetuto editorialisti pro-Fiat, politici di ogni schieramento, sindacalisti, lo hanno ripetuto tante volte da averci convinto che così non sarà e perché mai dovrebbe esserlo?

Perché non dovrebbe valere per altre aziende? Perché i ministri non dovrebbero sentirsi confortati a cannoneggiare senza tregua gli articoli della Costituzione che tutelano lo sciopero e persino il principio dell’utilità sociale della preminenza del bene pubblico sull'interesse privato?

Non scherziamo, a Pomigliano si sta giocando una partita che ci riguarda tutti e spiace davvero dover constatare che giornali e giornalisti sensibili alla lotta contro il tentativo di mettere loro il bavaglio,facciano finta di non vedere e di non capire cosa stia davvero accadendo da quelle parti.

Se una simile intesa fosse stata proposta al comitato di redazione di uno dei giornali o dei tg che stanno dando in testa a chi osa esprimere il più piccolo dissenso sulla bontà della intesa con la Fiat, le urla sarebbero salite sino al cielo, gli appelli si sarebbero sprecati, ma gli operai non suscitano emozione e si possono oscurare e imbavagliare senza tanti rimpianti, tanto non potranno mai diventare i futuri proprietari dei giornali, dei tg, delle radio.

Per queste ragioni l'associazione articolo 21 ha lanciato una
raccolta di firme almeno per far sentire che esistono ancora cittadine e cittadini che non vogliono vedersi sottratti i diritti costituzionali e che odiano non solo il bavaglio che si vuole mettere a loro, ma anche quello che si vuole mettere agli altri, operai, impiegati e precari che siano.

Chi lo condividesse ci dia una mano e farlo girare e farlo firmare.

Giuseppe Giulietti

(20 giugno 2010)


Il Paese capovolto - Antonio Padellaro



20 giugno 2010
L’altro giorno, a Barcellona per presentare il Fatto, osserviamo sulle prime pagine di tutti i giornali catalani grandi foto con l’arresto di Fèlix Millet, ex direttore del Palazzo della Musica accusato di appropriazione indebita e traffico di influenza. Sembra incredibile ma nella civilissima Spagna nessun garante della privacy interviene per rampognare la stampa se pubblica immagini di illustri personaggi condotti in prigione. Quanto al traffico di influenza, (chi forte di un ruolo pubblico riceve denaro o altre utilità per esercitare il suo potere) si tratta di un reato previsto dalla Convenzione europea firmata dall’Italia nel 1999 e mai ratificata. Tornati in patria affrontiamo, come in un cupo racconto diPhilip K. Dick la realtà capovolta.

Laddove domina la legge dei disonesti abbiamo un imputato (Brancher) promosso ministro per sottrarlo al legittimo processo in forza di una delle numerose norme vergogna. Abbiamo famosi stilisti (Dolce e Gabbana) sotto inchiesta per truffa allo Stato a cui il sindaco di Milano (Moratti) concede, gratis, la sede del Comune per un party privato. Abbiamo l’avvocato di Berlusconi (Ghedini) che pretende dal ministro di Berlusconi (Alfano) un’azione disciplinare contro un pm che ha osato convocarlo. Nel Paese capovolto, sulla cosiddetta grande stampa non troverete traccia della festa gentilmente offerta da donna Letizia (sparse nelle pagine interne le notizie su Brancher e Ghedini). Solo l’Avvenire si accorge che la corruzione sta divorando il paese e che “il sospetto del conflitto d’interessi è più diffuso di quanto si pensi”. Il giornale della Cei ne ricava che “Il Paese ha la febbre”. No, cari colleghi, il Paese è in agonia.

da Il Fatto Quotidiano del 20 giugno 2010

La zona d'ombra di Schifani - Marco Lillo



20 giugno 2010
Il presidente del Senato aveva chiesto 1.750.000 euro a Travaglio, che invece dovrà risarcirne solo 16mila per la battuta sulla "muffa". La sentenza: dovere del cronista chiedere dei legami mafiosi

Non è facile trovare una
sentenza piena di soddisfazioni per il soccombente come quella emessa contro Marco Travaglio. Non tanto perchéRenato Schifani, chiedeva 1 milione e 750 mila euro e ne ha avuti “solo” 16 mila ma perché Travaglio si è visto riconoscere di avere svolto correttamente la sua funzione in una delle vertenze più dure tra Palazzo e stampa. La vicenda è nota: nel 2008 Travaglio aveva ricordato in due articoli su l’Unità e poi in televisione a Che tempo che fa e a Crozza Italia i rapporti societari di 30 anni prima tra Schifani e soggetti che – molti anni dopo le loro cointeressenze – saranno condannati per mafia. Travaglio aveva rotto il clima di pacificazione che regnava all’inizio del governo Berlusconi quando nessuno chiamava Papi il Cavaliere e da sinistra si scrivevano libri per incensare “Lo Statista” di Arcore. Subito dopo aver ricordato che la verità non risente del clima politico e non va in prescrizione era stato sommerso da una valanga di critiche e veleni. La sentenza del Tribunale di Torino suona come una promozione per lui e una condanna per buona parte della nostra categoria. Il giudice Lorenzo Audisio il primo giugno scorso ha condannato Travaglio solo per avere ironizzato sulla parabola a precipizio della presidenza del Senato. Per le battute sulla muffa e il lombrico (terminali possibili della parabola discendente) Travaglio è stato condannato a pagare 16 mila euro di danni.

Mentre su tutto il resto, è stato promosso a pieni voti. Sui rapporti passati con soggetti poi condannati per mafia, per il giudice “non si può dubitare dell’interesse pubblico alla conoscenza di ogni avvenimento professionale inerente Renato Schifani che, notoriamente, ricopre attualmente la seconda carica istituzionale dello Stato”. Dopo avere lodato “la correttezza dell’esposizione narrativa” il giudice passa a interessarsi del nocciolo della questione. È vero quello che Travaglio dice sui rapporti societari di Schifani? E soprattutto è lecito scriverne e parlarne in tv?

La risposta è un doppio sì. “Quanto alla verità dei fatti narrati”, scrive il giudice, “deve osservarsi che Schifani non contesta di aver partecipato alla società Sicula Brokers… e non contesta neppure che ne facessero parte all’epoca della propria partecipazione
Nino Mandalà, Benedetto D’Agostino e Giuseppe Lombardo” (i primi due arrestati per mafia una ventina di anni dopo la creazione della società nel 1978 con Schifani, il terzo amministratore delle società dei cugini Salvo). Schifani contestava a Travaglio di avere “volutamente dimenticato di ricordare gli altri soci , mai toccati da inchieste giudiziarie”. Su questo punto il giudice dà una lezione alla seconda carica dello Stato: “Le associazioni di tipo mafioso riescono a realizzare il controllo del territorio attraverso l’inserimento di propri associati, o di fiduciari, nelle attività economiche legali, così realizzando una sistematica attività di infiltrazione nel sistema imprenditoriale. Tale circostanza, – insiste il giudice –, non è solo ampiamente nota ma non è neppure ignorabile da soggetti nati e operanti da sempre in quel medesimo contesto territoriale. Conseguentemente – infierisce il giudice – a maggior ragione deve chiedersi a chi ricopre incarichi pubblici l’assenza di zone d’ombra nella propria storia professionale o, per lo meno, una rivisitazione critica di eventuali inconsapevoli contatti avvenuti in passato con soggetti oggetto di indagini giudiziarie anche successive, che ne hanno dimostrato l’inserimento (o quanto meno la contiguità) in organizzazioni criminali operanti in un territorio identificabile quale proprio bacino elettorale”. Quindi non è solo corretto ma è un obbligo per un giornalista ricordare ai lettori e ai telespettatori i vecchi rapporti societari del presidente del Senato, eletto in Sicilia. Anzi, per il giudice, sarebbe doverosa da parte del presidente una rivisitazione critica di questi rapporti, che a parte Travaglio e il Fatto, in pochi hanno chiesto. Pertanto, quando Travaglio afferma che “se uno evitasse di mettersi in affari con gente di mafia, la lotta alla mafia riuscirebbe meglio” sta compiendo “puro esercizio del diritto di critica”. Travaglio, secondo il giudice, non ha fatto nulla di male neanche a sostenere “l’indegnità di Schifani a ricoprire la seconda carica dello Stato per via delle sue passate e appurate frequentazioni (che sono un fatto)”.

Pertanto il Tribunale rigetta la domanda di Schifani sul punto e lo stesso fa per le doglianze su Crozza Italia dove Travaglio aveva espresso “un’opinione su fatti corrispondenti a verità”. Resta Che tempo che fa. Nella trasmissione di Fazio, Travaglio aveva ironizzato: “Una volta avevamo De Gasperi, Einaudi, De Nicola, Merzagora, Parri, Pertini, Nenni... cioè uno vede tutta la trafila e poi arriva e vede Schifani... mi domando chi sarà quello dopo in questa parabola a precipizio, cioè dopo c’è solo la muffa, probabilmente, il lombrico come forma di vita, dalla muffa si ricava la penicillina tra l’altro e quindi era un esempio sbagliato”. L’intervento poi proseguiva chiedendo ai politici di sinistra di “chiedere alla seconda carica dello Stato di spiegare quei rapporti con signori che sono stati poi condannati per mafia”. Il giudice non contesta “la parabola a precipizio della politica” ma ritiene “attacchi personali nei confronti dell’attore in quanto rivolte alla sua persona e non a fatti oggetto di interesse pubblico che sconfinano nella contumelia” le parole che seguono sulla muffa e il lombrico. Per il giudice “è evidente che i riferimenti alla muffa e al lombrico attengono esclusivamente all’uomo Schifani”. Pertanto Travaglio va condannato ma solo “in relazione a tale parte dell’intervento”. I difensori di Schifani sono soddisfatti perché “i giudici hanno riscontrato la diffamazione” e confermano che “l’importo del risarcimento sarà devoluto interamente in beneficenza”. Caterina Malavenda, difensore di Travaglio replica: “Pur prendendo atto della condanna per ‘abuso di satira’ esprimo soddisfazione per l’integrale accoglimento nel resto delle ragioni di Travaglio al quale è stato riconosciuto il corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica”.

da Il
Fatto Quotidiano del 20 giugno 2010