lunedì 21 marzo 2011

La santa alleanza dei “no war” - di Francesco Persili

Pacifisti e bastian contrari. Da Sgarbi a Di Pietro, passando per Feltri, tutti quelli che l’Italia in guerra contro il Colonnello è meglio di no.

C’è chi dice no, senza se e con qualche “ma anche”. Il fronte contrario all’intervento Nato in Libia mette insieme i nemici di ieri, Sgarbi e Di Pietro, la Lega neutralista alla tedesca e la sinistra radicale. Pacifisti di rito antagonista e bastian contrari di professione saltano sulla carovana del dissenso, comandante in capo Vittorio Feltri, che su Libero ha dato la linea: «Con tutti i guai che abbiamo ci mancava solo la guerra al beduino».
L’ex direttore del Giornale scava nei «rischi altissimi» di un conflitto in cui si fatica a distinguere «buoni e cattivi», e sembra, addirittura, indossare l’eskimo per dire di un «Occidente che interviene a corrente alternata contro i despoti». Certo, pone domande non retoriche sul dopo Gheddafi mentre plaude alla Merkel, come, del resto, fanno anche leghisti che sottoscrivono l’astensione di Frau Angela sulla decisione dell’Onu, «non ponderata al cento per cento». Il Carroccio si (ri)allinea a Berlino, dopo le polemiche che qualche anno fa accompagnarono l’intemerata, dalle colonne della Padania, dell’attuale presidente della commissione esteri di Montecitorio, Stefano Stefani, contro i tedeschi «biondi, iper-nazionalisti, stereotipati, ubriachi di tronfie certezze» invasori delle spiagge italiane.
Nessun effetto Turigliatto sulla maggioranza, la Lega tiene il punto e una strategia non interventista politica estera. Fin dai tempi della guerra in Kosovo, le camicie verdi hanno mostrato di preferire la via dell’appeasement e di un disimpegno militare italiano dalle zone calde: Libano e Afghanistan. «Bossi, poi, assomiglia un po’ a Gheddafi», ha scherzato, alle Invasioni barbariche, Vittorio Sgarbi. Il sindaco di Salemi ha invitato il governo a non concedere le nostre basi militari agli americani: «Gheddafi uccide il suo popolo ma gli americani chi uccideranno? Massacreranno il popolo libico anche loro».
L’estetizzante critico d’arte ha ricordato il volo su Tripoli, la violazione dell’embargo aereo, la missione umanitaria in stile dannunziano, lo stupor mundi tra le rovine di Leptis Magna, e poi, sotto la tenda, con il Colonnello e la mamma Rina, a concionare di incontro di civiltà, politica, libertà e diritti umani. Lo stesso afflato ideale che ispirò un’altra beffa libertaria: la violazione dello spazio aereo in Iraq per protestare contro le sanzioni Onu che infliggevano patimenti alla popolazione. Sgarbi prende le distanze dalla cultura a stelle e strisce («Noi abbiamo avuto Beccaria e Manzoni, loro hanno ancora la pena di morte») e avendo visto da vicino «la miseria e la povertà» della Libia mostra di avere scarsa fiducia su una transizione democratica: «Il popolo si ribella perché presume che il prossimo governo sia meglio, credono che arriverà un salvatore che non ha la faccia di Gheddafi. Non ci sarà la democrazia ma un altro gruppo di potere altrettanto criminale».
Mota quietare, sì ma come? Il carattere equi-vicino che ha caratterizzato la politica italiana nel Mediterraneo, fin dai tempi di Moro e Andreotti, consiglia prudenza. «Saremo i primi a pagare con gli sbarchi», ammonisce Sgarbi, che dice no alla “no fly zone” e ai raid aerei. «Avremo tutto da perdere e nessun vantaggio». Anche se la pace – come ha detto Napolitano – oggi significa andare incontro alle popolazioni perseguitate, l’invito a sostenere il risorgimento del popolo libico fa i conti con la posizione di non belligeranza di Sgarbi e Lega e l’intransigenza del pacifismo barricadero.
Dal Pdci-Federazione della sinistra Oliviero Diliberto tuona: «Siamo in guerra con la Libia, in sfregio alla Costituzione italiana», mentre il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero teme «una escalation militare che trasformi la Libia in un nuovo Afghanistan». Sceglie la navigazione ferma l’Idv che chiede l’annullamento del Trattato di amicizia Italia-Libia, ma è contro «la presenza attiva» di militari armati. Stefano Pedica, capogruppo commissione Esteri del Senato, spiega che l’astensione vuol dire «non esportare la guerra, né partecipare a un intervento che non abbia scopi militari, in nome dell’articolo 11 della Costituzione». Anche il segretario della Cgil, Susanna Camusso, infila il passaggio stretto della «necessità di fermare il genocidio, senza però usare strumenti di guerra».
Un’azione sì, ma senza l’uso della forza. Lo spettro del “ma anche” si allunga anche sul leader di Sel Vendola: «Impedire la macelleria civile ma vigilare con cautela perché l’opzione militare non si trasformi in qualcosa d’altro». Ecco, allora, che la soluzione per impedire il massacro ed evitare il pantano può essere l’intervento«limitato e chirurgico», con molti se e altrettanti ma. Pacifisti critici? Diversamente interventisti, via
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