martedì 31 maggio 2011

Milano, capro espiatorio Moratti La signora se ne va da sola. - di Thomas Mackinson


Dai big del partito a Gabriele Albertini, gli "amici" del Pdl si dileguano e la Lega prende le distanze: "Nei mercati c'eravamo solo noi". L'ex sindaco non si sbilancia sul futuro, ma non chiude a "nuovi ambiti di responsabilità"

Pisapia le ha rubato anche l’ultima scena. MentreLetizia Moratti pronunciava il suo addio alla città le telecamere si sono girate improvvisamente su di lui. Negli stessi minuti, ai microfoni di Sky,Giuliano Pisapia faceva la prima esternazione da sindaco. Sono le 17.30 quando un obiettivo impietoso sancisce l’ideale passaggio di consegne tra vincitore e sconfitto, divisi da ben 67mila voti. La partita si chiude con un 55,1% e un 44,89%. Una batosta per Letizia Moratti. Una bocciatura senza appello per il Pdl. Una “sberla”, come l’ha definita il ministro degli Interni Roberto Maroni.

Un colpo così violento che ci vorrà un’ora e mezza prima che Letizia si materializzi in via Montebello, sede del suo comitato elettorale, per le dichiarazioni di rito. Scende dall’auto sfoggiando un sorriso tiratissimo. Le si fa incontro una militante che l’ha attesa, paziente, per ore. Un abbraccio, la voce tremula che ringrazia. Centinaia di flash. Gli ultimi per Letizia Moratti. Lei prende posto e inizia a recitare una breve dichiarazione scritta su un foglio. “Ho telefonato a Pisapia per congratularmi e garantire la mia disponibilità per un rapido passaggio di consegne e per una collaborazione futura”, scandisce. Su sei righe protocollari di dichiarazione una rivela subito il tentativo di mettere le mani avanti e difendersi dal processo dei suoi stessi alleati: “Metterò il mio capitale di fiducia a disposizione delle forze moderate di questo Paese e di questa città per rafforzare la coalizione intorno a temi fondanti come la famiglia, la libertà, la tolleranza e la legalità”. Come dire: vi siete divisi, mi avete lasciata sola. Vero. Sui toni esasperati della campagna elettorale e sul valore nazionale del risultato no comment: “Lascio queste valutazioni agli opinionisti politici”, dice. Seguono i ringraziamenti e nessuna risposta ai cronisti che la incalzano.

Non una parola sul suo futuro e sui tanti temi sospesi tra la sua mano che lascia e quella di Pisapia che prende. A chi le chiede se resterà commissario Expo, ad esempio, risponde: “Le valutazioni le farò nei prossimi giorni con la coalizione e nelle sedi opportune. Ci sono profili diversi che appartengono anche ad ambiti di responsabilità diverse”. Cosa significhi, nessuno lo sa. Certo Expo resta uno dei temi caldi del passaggio di consegne, con il ministro Giulio Tremonti che ha fatto chiaramente intendere che potrebbe congelare i fondi statali (“Con Pisapia l’Expo se ne va via”). Da sciogliere il tema dell’acquisto dei terreni e del loro utilizzo dopo il 2015. Per aria il destino di Ecopass. In bilico il nuovo piano regolatore approvato a soli tre mesi dal voto. Incerta la quotazione di Sea programmata in autunno. Su questi temi si misurerà la tenuta della coalizione di Pisapia. Domani. Perché ieri è stato il giorno del commiato della Moratti.

Un addio quasi in punta di piedi il suo, dopo una campagna elettorale dai toni a dir poco aggressivi. Lo stesso comitato elettorale ieri si è trasformato nella plastica metafora della sua solitudine. Da queste parti non si è visto nessuno del Pdl. Non uno che commentasse la disfatta. Tacciono i big locali Maurizio Lupi, Luigi Casero, Mariastella Gelmini, Roberto Formigoni e Mario Mantovani. Sembra lontana anni luce la foto di gruppo scattata alla vigilia del voto dalla terrazza di Letizia per dare un segnale di coesione. Un espediente inutile.

Chiuse le urne si sono subito rotte le righe. Perfino l’ex sindaco Gabriele Albertini, chiamato all’ultimo in città in un disperato tentativo di salvataggio, è già tornato al Parlamento europeo. Gli unici a parlare forte e chiaro sono i leghisti. Proprio non riescono a contenere la rabbia per aver perso Milano. Il processo alla Moratti in camicia verde è immediato e cruento. Affonda il coltelloMatteo Salvini, spogliato all’ultimo dal ruolo di vicesindaco in pectore: “I milanesi – dice – si sono infastiditi nell’ascoltare temi che non interessano la città come le Br, i giudici, i ladri d’auto”. Ogni riferimento non è affatto casuale. Lo scontro sale di livello in poche ore. Ignazio La Russa accusa la Lega di aver fatto mancare i voti. A stretto giro incassa una dura replica di Umberto Bossi: “Per strada e nei mercati c’eravamo solo noi”. Lo scricchiolio tra alleati a Milano è già diventato boato a Roma.



Milano e Napoli, volano De Magistris e Pisapia Berlusconi: “Milanesi preghino Dio ora”


Alla fine il marchio della sconfitta lo metteBerlusconi in persona, parlando dalla Romania: “Abbiamo perso, è evidente”. La giustificazione è pronta: “Guardando caso per caso, la sconfitta non ha niente a che vedere con il governo”. Il premier assicura che l’esecutivo andrà avanti, contro tutto e contro tutti, “con l’accordo di Bossi”. E non risparmia la battutaccia nel giorno della sconfitta peggiore: “Ora i milanesi devono pregare il buon Dio che non gli succeda qualcosa di negativo”. Quanto a Napoli, dice il Cavaliere, gli elettori “si pentiranno tutti moltissimo”.

Il premier si spezza ma non si piega, insomma, mentre tutto attorno lo scenario racconta un cappotto completo su tutta la linea. Persa Milano per mano del “comunista” Pisapia. Tracollo a Napoli, dove De Magistris prende percentuali bulgare che neanche il Bassolino dei tempi d’oro. E poi Cagliari, che finisce nelle mani dell’altro comunista protagonista di queste amministrative,Massimo Zedda (60%). Via a cadere le città già perse al primo turno: Torino, Bologna. E infineTrieste, che torna nelle mani del centrosinistra. Basterebbero queste sei città per disegnare quel famigerato vento di cambiamento che trascina il centrodestra fuori dalle città che contano. Ma c’è di più, molto di più, andando a guardare nei centri piccoli e medi.

Il centrodestra tiene solo a Varese, dove il leghista Attilio Fontana porta a casa una vittoria sofferta. Il resto è ancora tinto dai colori del centrosinistra: Gallarate, dove la Lega sostiene di fatto il Pd, Novara, Rimini, Pordenone, Grosseto e Crotone. Mentre al centrodestra vanno Cosenza, Iglesias e Rovigo. Per quanto riguarda le province, vanno al centrosinistra quelle di Mantova, Pavia e Macerata. Mentre il centrodestra si prende Vercelli e Reggio Calabria.

Spremuti i dati elettorali, il succo politico è evidente. E Berlusconi lo sa bene. Tracollo, ad essere pietosi, disarmo totale, per dirla tutta. Il primo a farne le spese (unico nel suo genere) è il coordinatore del Pdl Sandro Bondi, che immediatamente rassegna le sue dimissioni. Per il resto è un diluvio di necessità di “riflettere”. Da Quagliariello ad Alemanno, da Frattini alla stessaMoratti, parte in realtà la resa dei conti dentro il partito. Il ministro degli esteri chiede di sperimentare il modello delle primarie nel partito. Ma a parte lui, con i big che tacciono sono i pesci più piccoli che sondano il terreno per capire chi e cosa sarà investito dal terremoto politico. Sisma che potrebbe scatenarsi già oggi, quando il premier di ritorno da Bucarest riunirà l’ufficio di presidenza del Pdl. I nodi hanno nomi e cognomi: Mantovani, che da coordinatore lombardo non ha brillato, Scajola, deciso a dare battaglia. E poi Beccalossi, che al Tg4 ha criticato il premier sulle case abusive. E poi i sempre meno responsabili, ancora in attesa delle promesse poltrone. La lib-dem Melchiorre che lascia il posto da sottosegretario. Ogni nome, negli incubi del premier diventa una possibile corrente da disinnescare.

Il premier glissa sulla resa dei conti e preferisce parlare di “maggiore radicamento nel territorio”: ”Adesso ci vediamo e faremo quello che serve per radicare molto di più il partito sul territorio, come eravamo già intenzionati a fare”, dice ai giornalisti da Bucarest. Ma l’ipotesi, Berlusconi non lo nega, è quella di fare piazza pulita degli attuali coordinatori per fare posto al ministro della Giustizia Alfano: “Si tratta di un processo che era già avviato, un lavoro sul Popolo delle Libertà di cui mi occupo direttamente, perché vogliamo rilanciarlo alla grande”.

Non va meglio in casa della Lega. Matteo Salvini, a Milano, marca subito la distinzione: “Non siamo qui a fare i processi, ma è chiaro che il Pdl ha perso voti, e la Lega ne ha guadagnati”. Il ministro Calderoli, per parte sua, si mostra tranquillo, fedele nel solco tracciato dal premier: “Il governo andrà avanti fino alla fine della legislatura per fare le riforme. Si vince e si perde insieme”. Ma c’è da giurare che la base non sarà così netta nel distribuire le colpe, né così blanda nelle soluzioni.

Chi se la ride, nonostante i magri risultati elettorali, è il presidente della Camera. Gianfranco Finiaffida ad una nota la sua vendetta: “Avevo avvertito Berlusconi, scrive Fini, lui mi ha ripagato buttandomi fuori”. Il leader di Fli si spinge oltre: “Il governo può anche non cadere, ma il berlusconismo è finito”. E aggiunge, preoccupato per la manovra economica alle porte: “Speriamo di non essere alla vigilia di giorni più complicati”.

Ridono, e di gusto, anche nel centrosinistra, e per oggi non potrebbe essere altrimenti. Pisapia e De Magistris, certo, festeggiano. Così come fanno festa Bersani - “Abbiamo smacchiato il giaguaro”, commenta sarcastico – Bindi, Veltroni, D’Alema, i big del partito democratico di solito impegnati a distinguersi per una volta sono tutti d’accordo. Da padre storico dei democratici sorride anche Romano Prodi, che si presenta in piazza del Pantheon a Roma per festeggiare. L’avvertimento dell’unico uomo che abbia battuto Berlusconi (per due volte) è tanto chiaro quanto perentorio: “Non più di cinque minuti per festeggiare – ammonisce – poi subito mettersi al lavoro”. C’è da augurarsi che i suoi seguano il consiglio.




La magia perduta del Cavaliere. - di MARIO CALABRESI.



"E’ un leader radioattivo": il soggetto è Silvio Berlusconi, la battuta politicamente scorretta è stata pronunciata al termine del G8 da un uomo di primo piano dell’amministrazione americana che viaggiava con Barack Obama. Una battuta utile a capire il disagio di molti leader stranieri di fronte a un presidente del Consiglio che li assillava con il suo incubo dei complotti giudiziari. Una battuta che può servire oggi per comprendere la fuga degli elettori dai candidati sponsorizzati dal Cavaliere.

Il voto di ieri segnala un vento fortissimo di cambiamento che, in modo molto più incisivo che nel primo turno, ha travalicato il valore amministrativo di queste elezioni.

Un vento che ci racconta come Silvio Berlusconi abbia perso la sua sintonia con la maggioranza degli italiani, con la pancia del Paese. Il premier, fin dai tempi della nascita delle televisioni private, è sempre stato un perfetto interprete degli umori e dei desideri degli italiani: li sapeva anticipare e cavalcare con un tempismo perfetto. Berlusconi ha promesso ai cittadini, consumatori prima e elettori poi, di soddisfare ogni loro desiderio, di garantire ogni loro libertà. Oggi questo meccanismo creatore di consenso appare rotto e non per colpa di qualche inchiesta giudiziaria, ma perché il Cavaliere non è riuscito a capire cosa passa in questi giorni nella testa e nella vita degli italiani.

In tempi di crisi, di difficoltà, di risparmi che si assottigliano e di giovani che non trovano lavoro, non si può pensare che il tema della separazione delle carriere o la riforma della Corte Costituzionale scaldino i cuori e riempiano le urne. E dire che Berlusconi lo sapeva bene: per anni ha promesso di non mettere le mani in tasca agli italiani e di abbassare le tasse, ora invece si era convinto che la maggioranza dei suoi concittadini fosse indignata come lui con la magistratura e la sinistra.

Così hanno vinto candidati nuovi e imprevedibili, candidati che sulla carta non avrebbero dovuto avere alcuna possibilità: troppo radicali, troppo di sinistra o anche troppo giovani e inesperti. Ma soprattutto hanno perso le forze di governo, perfino nelle roccaforti del Nord, dove si contava sulla tenuta di una Lega fino a pochi mesi fa in ascesa.

Come è potuto accadere? Per anni Berlusconi ha proposto una sua visione per il Paese mentre i suoi avversari hanno sempre reagito costruendo campagne contro di lui e demonizzandolo. Questa volta i ruoli si sono invertiti: a giocare contro è stato lui, da mesi assistiamo a campagne politiche e giornalistiche in cui gli avversari vengono trasformati in caricature e fatti a pezzi. Da questo punto di vista il trattamento riservato a Pisapia è da manuale, è stato dipinto come il leader degli zingari, dei rom e degli estremisti islamici, una campagna di una tale rozzezza da aver allontanato la maggioranza dei milanesi dal candidato sindaco del centrodestra. Una campagna così poco «positiva» da aver spaventato perfino i moderati, che cinque anni fa avevano garantito la vittoria a Letizia Moratti. E dire che per perdere Milano ci voleva davvero impegno: è stato fatto un capolavoro.

Si può pensare di essere credibili se si tappezza una città con manifesti che strillano: «La sinistra vuole i vigili solo per le multe, non per la sicurezza» o con la minaccia di vedere Milano trasformata in «Zingaropoli»? Era una campagna talmente grottesca da prestarsi a mille parodie che hanno spopolato su Internet. Il migliore spot per Pisapia sono state proprio le caricature fatte su di lui: i filmati e le canzoni che lo dipingevano ancora più estremista dei manifesti leghisti o berlusconiani.

L’errore finale, incomprensibile, è stato poi quello di andare dal Presidente degli Stati Uniti a parlargli dei suoi problemi giudiziari, a insultare un corpo dello Stato italiano. Pensate se il nostro premier, dopo aver chiamato i fotografi ed essersi messo in favore di telecamera, avesse strappato a Barack Obama un impegno sulla Libia per frenare il flusso di clandestini. Il suo gradimento non avrebbe che potuto giovarsene. Invece ha scelto di inseguire la sua ossessione.

Cosa succederà adesso è difficile da prevedere, certamente si è messa in moto una valanga dagli esiti imprevedibili. Potrebbe metterci un giorno, un mese o anche due anni ad arrivare a fondovalle e Berlusconi è persona resistente, tenace, capace di reinventarsi continuamente e che combatte fino all’ultimo. Ma il vero dato di ieri è l’incapacità di leggere cosa passa nella testa, nella pancia e nel cuore degli elettori. E quando un politico smarrisce questo fiuto e questa dote allora per lui suona la campana dell’ultimo giro.



Berlusconi, ergastolo alla carriera - Marco Travaglio - Passaparola.




La politica della paura è al capolinea. - di Peter Gomez



Non sappiamo come Luigi De Magistris e Giuliano Pisapia governeranno le loro città. I problemi che hanno di fronte (specialmente a Napoli) sono tali da far tremare le vene ai polsi a chiunque. Sappiamo però che questa giornata sarà ricordata a lungo. In tutta Italia le urne hanno dato un responso chiaro: davvero la maggioranza che alle camere sorregge l’esecutivo è minoranza nel Paese. Davvero la politica dell’aggressione e della paura è arrivata al capolinea. E questo, indipendentemente da quali saranno gli immediati destini del governo Berlusconi, è già un risultato.

Gli elettori hanno dato fiducia alla speranza e al cambiamento. Hanno detto chiaramente che non ne possono più del mondo alla rovescia propagandato dal premier e dai suoi media: un mondo che bolla come pazzo che tenta di far rispettare la legge e indica invece come esempio chi è amico della mafia, un mondo che premia i furbi e penalizza gli onesti, un mondo che ritiene giusto privilegiare il censo al posto del merito. Un mondo che fino a ieri – allargando le braccia compiaciuto – ha continuato a ripetere: che ci volete fare, gli italiani sono fatti così.

No, gli italiani non sono fatti così. Sono meglio. E oggi lo hanno dimostrato.

Da domani, però, è tutta un’altra storia. Chiusi i festeggiamenti, archiviata la sbornia elettorale, si ricomincia. La strada per il Paese resta in salita. Anzi è più in salita di prima. Silvio Berlusconi non ha nessuna intenzione di lasciare Palazzo Chigi. Il Pdl, è vero, è percorso da fibrillazioni di ogni tipo. La voglia di un gran consiglio che esautori l’anziano padre padrone degli azzurri cresce pure da quelle parti. Ma la prospettiva di far fuori (politicamente) il premier, per poi dover lasciare con lui le stanze dei bottoni, paralizza il centro-destra. Anche per questo i referendum di giugno sono importanti: se otterranno il quorum diventeranno una vera e propria lettera di sfratto per il Cavaliere. Saranno il segnale di come oltre quella soglia di sfiducia non si possa davvero più andare.

Una cosa però e bene affermarla con franchezza: chiudere l’era Berlusconi non basterà per fare dell’Italia una democrazia normale. Anche senza il sempre più vecchio multimiliardario brianzolo (acquisito) il nostro paese resterà in preda alle Caste, ai conflitti d’interesse e alla partitocrazia. Pensate, se oggi si votasse per le politiche, sarebbero di nuovo le segreterie dei partiti a nominare onorevoli e senatori. A Montecitorio e a Palazzo Madama ci ritroveremmo insomma la stessa pletora di gente, spesso senza arte né parte, che negli ultimi 15 anni ha felicemente contribuito al declino del Belpaese.

Per questo, se è pure giusto dare atto al Pd di aver introdotto in Italia l’istituto delle primarie, bisogna ricordare quale è il secondo dato suggerito dalle amministrative (almeno nelle piazze principali). A Milano come a Napoli hanno avuto successo due candidati che non uscivano dagli apparati dei partiti. Uno dei due, De Magistris, il più votato, ha anzi corso esplicitamente contro i partiti. Ha rifiutato gli apparentamenti. E ha stravinto.

Quella di De Magistris è una lezione che, a destra come a sinistra, merita di essere ricordata. Perché la pazienza degli elettori è tanta. Ma non è eterna. E se i partiti e i vecchi leader non cambiano, i cittadini se ne trovano di nuovi. Da soli.




Il dramma di Emilio Fede.



Sconsolato e annichilito dal sonoro sganascione rifilato al centrodestra, un cereo Emilio Fede ha offerto ai suoi telespettatori, nel suo tg4 di ieri sera, un notiziario “sui generis”.

Sin dall’anteprima Umilio dedica solo una manciata di secondi alle amministrative e ai risultati di Napoli e Milano, riservando un tempo ben maggiore ai cetrioli spagnoli.

Finzione e comicità, archetipi del tg di Fede, ricorrono costantemente durante i 53 minuti dello show: dapprima un esordio sotto tono, con il quale il direttore scomoda il povero Casini per convincersi che la sconfitta della compagine berlusconiana e leghista “non ha valenza nazionale, ma solo locale”. Poi, imbeccato dall’inviata Marina Dalcerri, che parla di “qualche bandiera rossa che dalla Galleria va verso il Duomo” mostra le immagini di una piazza Duomo rutilante e festante per la vittoria di Pisapia. Ed è una delle ospiti in studio, la senatrice Roberta Pinotti (Pd) a puntualizzare ironicamente: “Sono arancioni, direttore, le bandiere. Non rosse”.

Ma il clou della sceneggiata si registra con l’intervista a Maurizio Baruffi, portavoce di Pisapia. L’inviata Stella Carraro, dal teatro Elfo Puccini, lagna quasi istericamente di non essere stata considerata dal futuro sindaco Pisapia, che le avrebbe preferito altre testate e tg a cui rilasciare le proprie dichiarazioni. La giornalista, però, riesce a fermare Baruffi, che ha una spassosa diatriba con un Fede sempre più alterato. Il portavoce di Pisapia spiega che la scaletta programmata non prevedeva un’intervista al Tg4, ma promette che nei giorni a venire il nuovo sindaco milanese avrebbe concesso il suo tempo al nostro Umilio. “Troveremo sicuramente il modo per poter raccontare finalmente anche agli ascoltatori del Tg4 chi è Giuliano Pisapia”, afferma serafico Baruffi.

Fede si sente profondamente oltraggiato per non essere stato sfiorato tangenzialmente dall’attenzione di Pisapia e incalza con le domande: “E allora cosa prevede la scaletta del sindaco?”.Baruffi non si scompone e rifila il carico da briscola: “Festeggeremo a piazza Duomo e tutti i milanesi potranno finalmente festeggiare una campagna elettorale che è stata condotta col sorriso sulle labbra e con la cifra dell’ironia nei confronti delle menzogne e delle diffamazioni che venivano da più parti. Per fortuna non ha vinto la logica della paura, ha vinto la logica della speranza e del guardare al futuro.”

Fede non ci sta e, autodefinendosi comepiccolissimo , modestissimo, giovanissimo giornalista”, si lancia in un soliloquio comico e delirante. Baruffi replica prontamente, rifilando una nuova stoccata all’informazione al soldo di Berlusconi. Umilio difende eroicamente il suo notiziario e sbotta: “Mamma mia! Io speravo di trovare in lei una persona serena….”.

Baruffi, sempre imperturbabile, tranquillizza il povero Fede: “Assolutamente non da parte sua, direttore, che è stato sempre un esempio di grande correttezza nel mondo dell’informazione.

“Ecco, appunto!”, gongola il devastato direttore. “Questo me lo conceda, perchè quando ci sono state polemiche io mi sono sempre tirato fuori, rispettoso, come sono, dei pareri degli uni e degli altri”. Qualche minuto più tardi, si sconfina davvero nel surreale: “Io sono sempre al di sopra delle parti”.

L’effetto comico, soprattutto della palese presa in giro ad opera di Baruffi, è devastante. D’altro canto, non è la prima volta che una giornalista sguinzagliata dal fido umilio di Silvio viene snobbata spudoratamente da un esponente del centrosinistra. Già nell’ottobre del 1996, Romano Prodi, in visita a New York, rifiutò con sdegno la richiesta di un’intervista da parte di un’inviata del Tg4. “Il Tg4 no. Ne ho avuto già abbastanza“, furono le sue lapidarie parole.

La polemica prosegue, stavolta tra lo stesso Baruffi e la pidiellina ex missina Viviana Beccalossi (quella del celebre slogan coniato proprio da Silvio: “Forza Viviana! Fagliela vedere”), la quale, sfoderando la musicalità del bresciano eloquio, si cimenta in una critica spietata di “Bella Ciao”. Che, invece, “non dispiace affatto” al direttore. Outing clamoroso, spiegabile forse con il malefico effetto Pisapia.



domenica 29 maggio 2011

Marcello Lonzi



Marcello Lonzi: verità per la morte di un detenuto, articolo di Luigi Manconi

L’Unità, 25 novembre 2003

Marcello Lonzi morto tra le 19.50 e le 20.14 dell’11 luglio 2003, nel carcere delle Sughere di Livorno. Era detenuto per tentato furto (4 mesi di reclusione ancora da scontare). È stato trovato prono, vicino alle sbarre e i tentativi di rianimazione non hanno dato alcun esito. I familiari sono stati avvertiti 12 ore dopo il decesso. Nel frattempo, sul corpo di Marcello Lonzi, erano stati effettuati i primi esami autoptici. L’esito di queste analisi ha indicato in un’aritmia maligna la causa più probabile della morte. Ma ci sono troppe cose che non tornano, in questa vicenda. Sul volto del giovane l’autopsia ha riscontrato tre gravi ferite, prodottesi con tutta probabilità "simultaneamente".

Sul suo torace, una strana escoriazione a forma di "V". La relazione di consulenza tecnica medico legale, predisposta dal Tribunale di Livorno, imputa le ferite al viso alla dinamica del decesso: Marcello Lonzi sarebbe stato colto da malore e, cadendo, avrebbe violentemente picchiato il volto contro un termosifone o contro lo stipite della porta. Alla stessa origine viene ricondotta l’escoriazione sul torace, mentre altri "fatti traumatici" vengono attribuiti ai tentativi di rianimazione (come la frattura della seconda costola di sinistra in sede iuxta - cartilaginea).

Tutto regolare, dunque; tutto spiegabile, in apparenza, secondo le indagini sin qui svolte. Ma, in verità, qualcosa non torna. Sulla morte di Marcello Lonzi nasce un caso, nel quale è la determinazione della madre, Maria Cioffi, a giocare un ruolo fondamentale.

Fin dal primo istante, la donna non ha creduto all’ipotesi della morte per esclusive cause naturali; e fin dal primo istante ha cercato di documentare le voci, sempre più insistenti, che circolano all’interno del carcere, e che adombrano un’altra ricostruzione dei fatti e una diversa dinamica della morte.

Lonzi era un ragazzo sano e di costituzione robusta; le uniche alterazioni riscontrate nella sua fisiologia e giudicate, dall’autopsia del tribunale, "relativamente modeste", sono a carico dell’apparato cardiaco (riduzione del calibro di un ramo coronario); ma non sono state rilevate occlusioni che potessero portare all’infarto del miocardio.

L’ipertrofia ventricolare è, ad oggi, la causa di morte più accreditata, semplicemente perché non lascia tracce nell’organismo; semplicemente perché, non potendosi dimostrare alcuna altra patologia, se ne ipotizza una che non ha bisogno di "prove". Quanto alle ferite rinvenute sul cadavere, è la loro entità a sollevare dubbi. Una raggiunge l’osso sottostante, un’altra penetra profondamente fino a comunicare con il vestibolo. Per queste ragioni, l’avvocato della famiglia chiede se sia "compatibile la gravità e profondità di simili lesioni con una mera caduta da fermo"; e se non sia necessaria una ulteriore spinta o pressione per produrre tali conseguenze".

Nel frattempo, Maria Cioffi ha ricevuto numerose telefonate anonime, da qualcuno che - considerata la precisione nel riferire dettagli e particolari - potrebbe essere una fonte bene informata.

Le è stato detto che suo figlio, durante l’isolamento, è stato ripetutamente picchiato; e le è stato riferito di scontri con altri detenuti e con il personale penitenziario. È probabile che Marcello Lonzi non sia stato ucciso dai traumi conseguenti a questi fatti, se questi fatti si sono effettivamente verificati. Ma la stessa aritmia maligna sin qui ipotizzata potrebbe essere insorta - è un’ipotesi medica plausibile - come reazione alle eventuali percosse.

Maria Cioffi ha scritto al Ministro della Giustizia, si è rivolta ad alcuni parlamentari e allo stesso capo dello Stato: vuole la verità. E che sia convincente. C’è un giudice a Livorno? (C’è: e ha aperto un fascicolo). C’è un parlamentare che voglia andare fino in fondo?


http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/lonzi/rassegna.htm


Le foto:

http://mmedia.kataweb.it/foto/17714176/2/marcello-lonzi-le-immagini-del-cadavere



Sei mesi senza un ministro delle Politiche europee. E in Ue l’Italia perde posizioni. - di Alessio Pisanò


Ancora vuota la sedia lasciata libera da Andrea Ronchi il 15 novembre scorso. Tra i papabili per la nomina che potrebbe essere imminente c'è Franco Frattini. Ma intanto sono sempre meno gli italiani nei posti chiave dell'Unione europea. Rinaldi (Idv): "Pesa la scarsa capacità di fare squadra tra Roma e Bruxelles"

Mentre Bruxelles si attesta sempre di più come il vero centro decisionale europeo, l’Italia è senza ministro alle Politiche comunitarie da ben sei mesi. Libia, nucleare, immigrazione. Le ultime grandi crisi interne ed internazionali hanno visto l’Unione europea giocare un ruolo da protagonista: i suoi commissari sono stati definitivamente elevati al rango di super ministri. Ma in Italia da mesi non c’è nessuno a fare da collante tra Bruxelles e Roma.

Se n’è accorto Franco Frattini che, nell’ultimo Consiglio affari esteri a Bruxelles, si è auto candidato come successore di Andrea Ronchi, ministro dimissionario il 15 novembre scorso dopo l’adesione a Fli e l’uscita dal governo. Da allora il ministero alle Politiche comunitarie è rimasto vacante, tant’è che qualche settimana fa si è fatto addirittura il nome di Claudio Scajola, di ritorno dal suo esilio nella natìa Imperia dopo lo scandalo del ‘mezzanino’ con vista sul Colosseo.

“A me farebbe molto piacere”, ha confessato Frattini, già ex commissario Ue a Giustizia, libertà e sicurezza dal 2004 al 2008. Intanto Rocco Buttiglione, che non riuscì a diventare commissario per le sue affermazioni intolleranti nei confronti degli omosessuali, ammette: “Questo ministero è vacante ormai da troppo tempo. Si tratta di un posto sottovalutato, diventato ormai uno snodo cruciale per l’Italia, dato che molte cose importanti si decidono a Bruxelles”.

Adesso bisognerà vedere cosa deciderà di fare Silvio Berlusconi visto che la poltrona di ministro alle Politiche europee fa gola a molti. Certo Frattini parte con un vantaggio, ovvero sa l’inglese. Cosa non scontata a Bruxelles, dove purtroppo l’Italia sta perdendo peso anno dopo anno. “L’Italia oggi ha più funzionari europei di Gran Bretagna e Francia, al livello della Germania”, ha dichiarato Frattini qualche giorno fa. Meno male che non ha contato i posti top level, dove gli italiani sono ormai in via d’estinzione. Si pensi ai presidenti del gruppi politici al Parlamento (quasi tutti tedeschi), ai portafogli più importanti della Commissione europea (all’Energia un tedesco, al Mercato interno un francese, alla Concorrenza uno spagnolo, all’Alto rappresentante della politica estera Ue l’inglese Catherine Ashton, in una posizione che aveva fatto gola pure a Massimo D’Alema) e alle ultime nomine dei 29 capi delegazioni Ue all’estero decise lo scorso settembre: l’Italia ha dovuto accontentarsi di Albania e Uganda, mentre i tedeschi preso la Cina, gli austriaci il Giappone, e gli olandesi il Sud Africa.

Certo gli italiani di per sé non hanno responsabilità, visto il nutrito numero di chi lavora nelle istituzioni. Ragazzi e ragazze iper qualificati che hanno passato un pubblico concorso molto difficile. Ma allora qual è il problema? Secondo Niccolò Rinaldi, capo delegazione Idv al Parlamento europeo con un passato di 10 anni come Segretario generale aggiunto ed esperienze in Commissione e all’Onu, “la posizione di un italiano che lavora nelle istituzioni internazionali è molto difficile. Fa male vedere la quantità di occasioni perse dal nostro Paese. Oggi anche la Polonia sa far valere i propri interessi meglio di noi”. Secondo Rinaldi si tratta di un “complesso culturale d’inferiorità” che fa sì che “l’Italia ne esca penalizzata proprio in quei settori che dovremmo difendere”, senza pensare agli “ingenti finanziamenti che potrebbero arrivare nel nostro Paese e che invece perdiamo”. Uno dei problemi principali sembra proprio “la scarsa capacità di fare squadra” soprattutto tra Bruxelles e Roma e “la mancata scelta delle persone giuste nei posti giusti: troppo spesso si viene reclutati sulla base di conoscenze personali, semi clientelari o di fedeltà di apparato e non su criteri meritocratici”.

Adesso sarà interessante vedere con che criteri verrà reclutato il nuovo ministro alle Politiche europee, visto che fonti governative ne hanno annunciato l’imminente nomina. Intanto, proprio questa settimana, è stato celebrato il 25esimo anniversario della morte di Altiero Spinelli, padre fondatore dell’Unione europea, a cui è dedicato l’edificio principale del Parlamento europeo. Ma quelli erano altri tempi.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/05/28/sei-mesi-senza-un-ministro-delle-politiche-europee-e-in-ue-litalia-perde-posizioni/114435/