lunedì 11 luglio 2011

Basta torture a chi sta morendo. - di Umberto Veronesi


Umberto Veronesi

«Anche quando siamo prossimi alla fine abbiamo il diritto di non soffrire. E porre fine al dolore di un malato è un gesto dovuto. Da medico». Umberto Veronesi interviene su una questione attualissima.

Pubblichiamo le pagine introduttive del volume "Il diritto di non soffrire. cure palliative, testamento biologico, eutanasia", di Umberto Veronesi, che l'editore Mondadori manda in questi giorni in libreria.

"Io penso che sia necessaria una nuova definizione del termine "eutanasia". Non c'è una vera differenza tra "lasciar morire" (interrompendo l'accanimento terapeutico), "aiutare a morire" (sedando il male e il dolore con dosi sempre più elevate di oppiacei) e "provocare il morire" (somministrando un farmaco o un'iniezione letali). Tutti e tre questi percorsi sfociano, infatti, nella morte. Chiesta o cercata; solo perché la sofferenza ha toccato limiti insopportabili, che sviliscono ogni dignità umana.

E' diritto dell'uomo chiedere la morte, se è stato colpito da una malattia inguaribile e irreversibile? La risposta non può essere che affermativa, perché la vita è un diritto, e non un dovere. Scegliere la morte per evitare sofferenze intollerabili fa parte dei diritti inalienabili della persona, e non si può affermare che la vita è un bene "non disponibile" da parte dell'individuo senza negare il concetto stesso di libertà, sottoponendolo a categorie morali che non possono che essere collettive, e che quindi, di fatto, cancellano l'individuo e negano la sua libera autodeterminazione.

Forse è addirittura giusto e opportuno che scompaia la parola "eutanasia", troppo carica di significati ideologici, che non possono che confondere il discorso. E' ora di porre fine agli schieramenti. Non si tratta di essere "pro vita" oppure di sostenere l'eutanasia. Si tratta di considerare lecita l'anticipazione della morte, se questa è la libera decisione di un essere umano gravemente sofferente.

__img__Non occorre una legge che permetta l'eutanasia, come in Olanda, in Belgio e in Lussemburgo. E' necessario, invece, che l'azione pietosa di anticipare la fine della vita su richiesta del malato inguaribile venga considerata una cura dovuta, e non un atto omicida da depenalizzare. Ovviamente, alla libertà di morire corrisponde specularmente la libertà di vivere. Nessuno può decidere al posto di un altro se una vita è degna di essere vissuta, e il concetto di "qualita' della vita" non può che restare strettamente soggettivo. Questo è vero se si vuole vivere, ed è vero se si vuole morire. In entrambi i casi, tutte le risorse della scienza devono essere messe a disposizione della volontà del malato, che va considerata sovrana e intangibile.

Nel primo caso, quello dell'uomo che vuol vivere nonostante le sofferenze, non deve essere lasciato nulla d'intentato per prolungargli la vita, fosse pure di un'ora soltanto. Nel secondo caso, la scienza deve trovare il coraggio di anticipare la morte decisa e desiderata, e la società civile deve abbandonare il ruolo di guardiana (per conto di chi? Di che cosa?) di una vita torturata e non più voluta. Se diciamo basta alla concezione di eutanasia così com'è stata tramandata nei secoli, diciamo basta a tutta una galassia di vicende oscure, dalle eutanasie clandestine alle interminabili sofferenze dei malati che non ottengono il "permesso" di morire.

Non esiste un'Amnesty International per queste storie di tortura e di negazione dei diritti umani. E per i casi che emergono grazie alla disperata volontà dei tormentati protagonisti, oggi non c'è una risposta di rispetto, ma solo la violenza ideologica dei pareri contrari. Ora bisogna dire: "Basta, silenzio. Diamo la pace a un uomo che ha chiesto di morire. Restituiamo quest'uomo a se stesso".



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