martedì 12 luglio 2011

“Iscritti indagati o condannati, ma gli ordini professionali non avviano procedimenti”. - di Eleonora Bianchini


La denuncia, fatta dal procuratore della Dna Pietro Grasso, ha provocato l'indignazione dell'ordine degli Architetti di Torino. Da qui la protesta dell'Associazione Liberi Professionisti di Palermo, la “terza gamba” della lotta al racket insieme a Libero futuro e Addio Pizzo.


Ordini professionali che non avviano procedimenti disciplinari sugli iscritti indagati e attendono le sentenze dei tribunali. Anche se le norme deontologiche sono state violate. L’accusa era stata rivolta a febbraio dal procuratore generale antimafia Piero Grasso che, nel corso di un convegno a Palermo, ha dichiarato che gli ordini non fanno la loro parte in tema di lotta alla mafia e di rispetto del codice etico. E a raccogliere la sua denuncia, a fronte dell’indignazione degli Architetti di Torino condivisa da altri ordini in tutta Italia, è stata l’Associazione Liberi Professionisti di Palermo, la “terza gamba” della lotta al racket insieme a Libero futuro e Addio pizzo.

Secondo il procuratore antimafia, infatti, gli ordini dovrebbero garantire il corretto esercizio della professione da parte degli iscritti perché il controllo deontologico è indipendente dagli esiti giudiziari. L’ordine degli architetti di Torino, però, ha scritto al procuratore generale che “un Consiglio dell’Ordine non può avviare un procedimento disciplinare a carico di un proprio iscritto – quando sia indagato per fatti di rilevanza penale, quindi anche per mafia – a prescindere dall’esito del procedimento penale, perché non ci è consentito dall’ordinamento giuridico e numerose sentenze di Cassazione lo confermano”. Un’affermazione del tutto “priva di fondamento” secondo l’associazione Liberi Professionisti, che presta il fianco al rischio di infiltrazioni criminali e violazioni deontologiche.

“La lettera di replica alle parole di Grasso, rilanciata anche dall’ordine di Palermo, è stata rintracciata online qualche giorno fa da un nostro iscritto”, spiega il portavoce dell’associazione Giorgio Colajanni. “Nel mondo delle professioni ci sono decine di condannati ma spesso non c’è azione di applicazione delle norme sulla responsabilità disciplinare”. Da notare che “la procedura penale e quella disciplinare stanno su due piani diversi. Ogni albo, a fronte di comportamenti in violazione delle norme etiche, deve effettuare accertamenti e valutazioni diverse e indipendenti da quanto possa stabilire un Tribunale”. Un concetto ribadito anche dall’assessore siciliano per la Salute Massimo Russo, secondo il quale “gli ordini professionali devono promuovere la cultura della legalità e sapere intervenire quando vi sono comportamenti che – a prescindere dal rilievo penale – mettono in crisi il decoro e la dignità della loro comunità professionale”. Il riferimento va alla vicenda di Domenico Miceli, medico siciliano condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e mai sospeso dall’Ordine, ma Colajanni ricorda anche Totò Cuffaro, il senatore condannato per associazione mafiosa e radiato dall’ordine dei medici solo dopo la condanna. Tra i casi celebri anche quello del cardiochirurgo Carlo Marcelletti accusato, tra l’altro, di truffa ai danni dello Stato e detenzione di materiale pedopornografico. Ma anche nei suoi confronti non era stata avviata alcuna azione disciplinare.

“Sappiamo che gli ordini non hanno poteri di polizia giudiziaria – precisa Colajanni – ma devono impegnarsi a raccogliere elementi in contraddittorio con l’interessato e prima di una sentenza. Preferiscono però evitare di consultare gli atti depositati nelle Procure per evitare di assumersi le proprie responsabilità. In questo modo ritroviamo centinaia di mascalzoni conclamati, condannati anche in via definitiva che continuano ad esercitare la professione indisturbati”. E non a caso, conclude il portavoce, “Grasso aveva posto l’accento sulla mafie che oggi hanno bisogno di professionisti. Infatti, secondo un’indagine della Dia di Palermo, oltre 400 sono coinvolti oggi in vicende di criminalità organizzata”.

Colajanni non sa se trincerarsi dietro alle indagini giudiziarie sia dovuto “a un eccesso di corporativismo o collusione”. In ogni caso gli Ordini devono ribadire che la sede disciplinare è diversa da quella giudiziaria e sollevare la necessità di procedimenti istruttori per acquisire fatti ed elementi. “Il nostro compito è quello di costituire un movimento collettivo per chiamare ogni iscritto alla responsabilità individuale”, conclude il portavoce. L’obiettivo è quello di raccogliere entro ottobre 1000 firme di professionisti per il manifesto contro le mafie e la corruzione. Un impegno per la legalità in cui gli Ordini sono chiamati a partecipare.




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