domenica 12 giugno 2011

Il piccolo Berlusconi di Cento: “Compravendita di consiglieri? Così facevan tutti”. - di Marco Zavagli


Al processo all'ex sindaco si apre uno spaccato di scambi di favori, poltrone, soldi. L'imputato Tuzet in tribunale spiega ai giudici: "Ero circondato da persone incapaci, e dovevo muovermi in mezzo ai ricatti"

Un sindaco sotto ricatto. Si presenta così Flavio Tuzet davanti ai giudici del tribunale di Ferrara. L’ex primo cittadino di Cento è imputato di istigazione alla corruzione e minacce. Del processo a suo carico Il Fatto Quotidiano Emilia-Romagna ha già parlato. Era la primavera del 2008 e la sua maggioranza stava scricchiolando dopo l’uscita di tre consiglieri. Di fronte allo spettro del commissariamento andò in scena una corposa “campagna acquisti”, con offerta di soldi e poltrone ai reprobi e minacce nei confronti di un consigliere dell’opposizione.

Ora tocca a lui difendersi. E a sentire le sue dichiarazioni più che un aula di giustizia sembra di spiare all’interno di un confessionale. “Ero circondato di incapaci e dovevo muovermi in mezzo ai ricatti” sospira davanti alle toghe. È solo il preludio al rosario di affari, favori, scambio di poltrone che, con un candore disarmante, sta per salmodiare.

Un episodio su tutti. All’indomani della sua elezione viene avvicinato da Paolo Matlì, oggi coordinatore comunale del Pdl, all’epoca in forza ad Alleanza nazionale, partito di riferimento anche dell’ex primo cittadino. “Mi disse dopo pochi mesi dal mio insediamento che poteva farmi cadere quando voleva, perché aveva 270mila euro a disposizione per corrompere sei consiglieri di maggioranza”. La circostanza viene confermata nel corso del dibattimento dal coimputato che parlerà dopo di lui.

Ma i soldi non erano l’unica moneta di scambio in questo feudo del centrodestra consegnato dal ballottaggio del 30 maggio al centrosinistra. “Ci sono i posti della Fondazione Patrimonio Studi, dove su cinque consiglieri tre sono di nomina politica spettante al Comune, c’è la Cmv… Si decide a chi darli, come penso facciano tutti”.

Uno di questi posti andò proprio ad Antonio Baroni uno dei consiglieri più contesi al momento del voto di fiducia del 2008 (fu lui a denunciare ai carabinieri il presunto tentativo di corruzione operato nei suoi confronti). Al processo Baroni disse che gli vennero offerti 20mila euro per far cadere Tuzet.

“Baroni mi diceva che eravamo seduti sopra una montagna d’oro e che bastava allungare la mano per prenderlo – racconta Tuzet -. In quei giorni mi confidò che era stato avvicinato per votare contro il bilancio. Aggiunse che gli offrirono 20mila euro, ma che lui ne valeva almeno 50mila. Chiese del denaro anche a me”.

Baroni non voterà contro e otterrà una poltrona alla Patrimonio studi e successivamente nel collegio della Fondazione Zanandrea. “Incarichi non di responsabilità, ma di mera visibilità” specifica l’imputato. E in effetti a quel tempo i consiglieri della Patrimonio studi non erano retribuiti. Ci penseranno loro stessi a darsi lo stipendio, deliberando una prebenda di 600 euro mensili.

Un’altra comoda poltrona finì nel curriculum di Adriano Orlandini. Stiamo parlando dell’uomo che, a capo della coalizione di centrosinistra sfidò Tuzet al ballottaggio di cinque anni fa. Insomma il capo dell’opposizione. Fu il suo voto a salvare colui che fino ad allora era il suo nemico politico numero uno. Dal successivo rimpasto gli verrà affidata la carica di presidente del consiglio comunale (“incarico retribuito con circa 1000/1500 euro al mese”), “proprio in funzione del suo aiuto” ammette Tuzet, salvo poi correggere il tiro e aggiungere che “con lui si era fatto un più ampio discorso politico per iniziare un nuovo corso”.

Cambi di casacca e manovre che non avevano lasciato indifferente l’elettorato. “Voci”, come le definiscono i testimoni, di compravendite di consiglieri giravano con insistenza a Cento. Con tanto di listino prezzi e scommesse al rialzo. Come al più classico mercato delle vacche.

E allora il pm Nicola Porto gli chiede se ne fosse a conoscenza, di queste voci. “Giravano da sempre” ammette quasi stupito dalla domanda Tuzet: “questo è l’ambiente in cui mi sono venuto a trovare; io ho solo cercato di evitare il commissariamento del Comune, perché sarebbe stato ancora peggio per Cento”.

Le “confessioni” di questo medico prestato alla politica vanno verso la conclusione. Non prima però di spargere un po’ di fiele dietro la sua porta che si chiude. “Si andava avanti a ricatti – allarga le braccia -. E bisognava accettare. Non credo che sia una cosa tanto strana, nei Comuni è la normalità”.

Una normalità che è costata la sconfitta elettorale. Ma Tuzet non si cruccia. Anzi. “Sono contento che il Comune sia passato al centro-sinistra”.



L’ira del Cavaliere «Lo caccerei a calci». - di Alessandro De Angelis



«Questo significa giocare sporco, giocare allo sfascio. Io metto la faccia sulla riforma del fisco e quello che fa? Va dagli industriali a dire l’opposto con l’aria del professorino». Quando Silvio Berlusconi, nel suo buen retiro di Villa Certosa, legge le parole di Tremonti a Santa Margherita vede nero.
Il premier ci legge un salto di qualità: l’assalto finale del superministro per liquidare il governo. La dichiarazione di guerra è plateale: Tremonti, nel suo discorso, non ha neanche nominato quella «legge delega entro l’estate» promessa dal premier. Anzi, ha di fatto negato la possibilità di fare una riforma, recitando un «terrificante» spartito rigorista in nome della «prudenza». Per non parlare dell’annuncio dell’aumento dell’Iva alla vigilia di un voto politico, come il referendum di oggi. A telefono coi suoi il premier sbotta: «Dice l’opposto di quello che sosteniamo noi. Ormai quando parla pare di sentire Visco sulle tasse. Sta terrorizzando gli italiani. Non è gli bastato farci perdere le elezioni. Ha deciso di puntare sullo sfascio».
Limite superato, insomma. Tanto che il premier ha ipotizzato un licenziamento del titolare del Tesoro. Fosse per lui, attuerebbe subito il remake del 2004, quando costrinse «Giulio» a dimettersi. Anche perché, per dirla con un ministro di rango, «dal Capo in giù, lo caccerebbero tutti a calci nel culo». Ma le condizioni non ci sono. Troppo alto il rischio di un assalto speculativo. Troppo solido il suo asse con le banche e coi poteri che contano. Troppo stretto il legame con i grandi gruppi editoriali che - pure a sinistra - hanno smesso di criticare la sua politica economica. Elementi che non solo non rendono possibile la cacciata del superministro.
Per il premier rappresentano segnali ben più inquetanti. Pare un tarlo che corrode i pensieri Berlusconi: si sono rimessi tutti in moto per puntare a un governo di transizione guidato da Tremonti. Col protagonista che guida le operazioni. I big del Pdl, da Alfano a Verdini a Fitto ai capigruppo, ieri hanno improvvisato un gabinetto di guerra telefonico proprio per decifrare la mossa del superministro: «Giulio - questo il ragionamento - ha capito che la Lega non è più compatta su di lui. Anzi in molti gli addebitano la sconfitta elettorale. E allora lui annuncia lacrime e sangue con l’obiettivo di aizzarli tutti, e di costringere Bossi a staccare la spina al governo in vista di Pontida. Per la serie: se non si può fare nessuna riforma cambiamo quadro». Operazione spregiudicata. Che denoterebbe al tempo stesso forza ma anche disperazione. Come se Tremonti avesse deciso di giocarsi il tutto per tutto: «Non ha voti - dicono nella war room -non ha un partito, non è il capo della Lega. O ci uccide lui con una manovra di palazzo o torna a fare il professore».
Il contesto - è questo il terrore del premier - si presterebbe alla manovra. L’aria che tira sul referendum è pessima, e il raggiungimento del quorum rappresenterebbe un altro avviso di sfratto al governo. Per non parlare dello sfilacciamento della maggioranza in vista della verifica, o delle fanfare scandalistiche suonate dai giornali. E soprattutto il Cavaliere è convinto che dietro tanta spavalderia ci sia la mano del Quirinale. Sarebbe Napolitano il regista di un’operazione che mira a sostituire l’attuale con un governo che affronti l’emergenza e metta mano alla legge elettorale. Guidato, come fece Scalfaro con Dini, dal ministro del Tesoro del governo uscente: «La verità - dicono nell’inner circle del premier - è che andrebbe aperta una grande vertenza politica col Colle, ma non ne abbiamo la forza».
E c’è un motivo se ieri Berlusconi ha avuto un lungo colloquio telefonico con Maroni. Che poi ha inviato più di un messaggio a Tremonti. Il primo, è che la di rigorismo di muore: «Ci vuole coraggio - dice il titolare dell’Interno - più che prudenza. Il governo non è solo un ragioniere che deve tenere i conti in ordine. Dove noi abbiamo la possibilità di intervenire è solo nel sistema fiscale». Il secondo è che l’alternativa allo stallo sono le urne: «Per governi e maggioranze tirare a campare è devastante. Mi auguro che Berlusconi dirà nettamente queste cose nel discorso che farà al Parlamento. Se sarà così io mi sento di dire che possiamo andare avanti, altrimenti...». Il premier confida molto nello scontro in corso dentro la Lega, ormai nient’affatto compatta su Tremonti. Ed è significativo che Maroni ieri è stato l’unico esponente del governo a parlare. La sponda del partito anti-Tremonti dentro la Lega è la chiave per resistere. Per questo il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto ha invocato la necessità di una «frustata» attraverso «la riforma fiscale». Stringere Tremonti in una tenaglia è l’unico modo per bloccare la manovra di palazzo: «Un contro - dice un ministro azzurro - è Tremonti con dietro la Lega e il Quirinale. Ma se non ha più la Lega, l’operazione è stoppata».


Proteste No-Tav, indagati Beppe Grillo e il leader del movimento.


Per la procura di Torino il comico genovese avrebbe violato i sigilli dei giudici durante una protesta contro la Torino-Lione.


“E’ indagato per un atto politico di disobbedienza civile e pacifica”. Con queste parole i militanti del Movimento 5 Stelle, Vittorio Bertola, Chiara Appendino e Davide Bono hanno accolto la notizia che Beppe Grillo è indagato dalla procura di Torino per aver violato, il 5 dicembre scorso, i sigilli della casetta costruita dal movimento No Tav a Maddalena di Chiomonte, posta sotto sequestro dall’autorità giudiziaria come abusiva. “Il reato ipotizzato? Non si sa, immagino sia ingresso in baita abusiva”, ironizza Bono. Per il consigliere regionale del Piemonte, infatti, i sigilli apposti dall’autorità “erano stati tolti ben prima che arrivasse Grillo, in quella casetta saranno entrate almeno cinque o sei mila persone; quindi faranno un maxi processo con migliaia di persone indagate”. Secondo Bono, dunque, “si tenta di colpire le persone più in vista nella speranza di scoraggiare tutti gli altri; la filosofia sembra quella del ‘colpiscine uno per educarne cento’”, aggiunge, “e capisco l’atteggiamento perché immagino quante pressioni ci siano, ma non credo sia sufficiente a fermare la protesta”.

Con il comico genovese, nel registro degli indagati è finito anche Alberto Perino, leader del movimento che si oppone alla costruzione della super-linea ferroviaria che dovrebbe collegare il capoluogo piemontese a Lione, in Francia. A Perino sono contestati due episodi: aver bloccato, nel dicembre 2010, i carotaggi all’Autoporto di Susa e gli scontri con le forze dell’ordine, nella notte fra il 23 e il 24 maggio scorsi, per impedire i lavori del tunnel della Maddalena di Chiomonte.

Assieme a loro sono stati denunciati anche Loredana Bellone e Giorgio Vair, sindaco e vice sindaco di San Didero, uno dei comuni più attivi nelle proteste contro la Tav, e altri sei militanti ambientalisti e dei centri sociali torinesi. I reati contestati vanno da invasione e danneggiamento di proprietà e terreni altrui, a danneggiamento aggravato, violenza privata e resistenza a pubblico ufficiale.

“Per ora – aggiungono gli esponenti del movimento 5 Stelle – i magistrati hanno indagato solo alcune delle migliaia di persone che hanno partecipato a queste manifestazioni, scegliendole tra quelle più politicamente in vista, e questo viola il principio di uguaglianza davanti alla legge”.

Anche il portavoce dei No-Tav Perino non ha preso bene la notizia dell’avviso di garanzia. “E’ giustizia ad orologeria”, ha detto sottolineando come i fati contestati siano avvenuti più di un anno fa, ma “casualmente la denuncia viene fuori solo ora, a pochi giorni dall’avvio del cantiere di Venaus. Quasi a insinuare l’esistenza di una saldatura fra liste civiche e antagonismo”.

Le telefonate Briatore-Santanché "Silvio continua a far festini". - di PIERO COLAPRICO


E parlano anche di Geronzi e della Lei. L'imprenditore intercettato dalla Gdf nell'ambito dell'inchiesta per evasione fiscale legata alla gestione
del suo panfilo. Con la Santanché (disperata) discute dei festini organizzati da Lele Mora per il premier anche nello scorso aprile ad inchiesta Ruby aperta.

MILANO - Il sottosegretario Daniela Santanché appare disperata: "Va be', ma allora - dice - qua crolla tutto". "Qua" è il mondo di Silvio Berlusconi, il premier che continua a stupire - e non in senso positivo - persino i suoi pasdaran.
È stato l'ex manager della Formula Uno Flavio Briatore a spaventare l'amica impegnata in politica con il Pdl. Ha appena saputo che il presidente del Consiglio continua i suoi festini. "Ma sei sicuro che lui (Berlusconi) ha ripreso?", domanda sconcertata. Sì, "al cento per cento", è la risposta.

La nascita delle nuove intercettazioni
L'ultimo guaio con la giustizia è arrivato a Briatore dalla procura di Genova. La seconda sezione del nucleo operativo Gdf ha messo sotto intercettazione l'affarista, accusandolo d'evasione fiscale per la gestione del suo yacht "Force blue": sessanta metri, dodici membri d'equipaggio, batte bandiera del paradiso fiscale delle Isole Cayman e non paga le giuste tasse. I detective hanno inviato a Milano una parte delle telefonate perché riguardano i processi milanesi per il caso di Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, che da minorenne frequentò i claustrofobici bunga bunga di Arcore. Esistono sia nuovi riscontri sul kamasutra chimico nelle ville del premier. Sia nuovi indizi che sembrano confermare (in peggio) le accuse contro Emilio Fede, direttore del Tg 4, e Lele Mora, agente di spettacolo in bancarotta.

"Il suo piacere è"

"Io sono senza parole", continua Santanché, e domanda quello che ciascuno si chiede da tempo: "Ma perché?" Berlusconi insiste con i bunga bunga.
La risposta di Briatore è drammatica: "É malato, Dani! Il suo piacere è vedere queste qui, stanche, che vanno via da lui. Stanche, dicono. Oh, che poi queste qui ormai lo sanno! Dopo "due botte" cominciano a dire che sono stanche, che le ha rovinate". Va detto che questo scambio telefonico, con dettagli così privati, risale a due mesi fa. A maggio è stato però lo stesso sottosegretario per l'Attuazione del programma a definire, all'uscita dal processo Mills, a Milano, i pubblici ministeri "metastasi. Vabbè, volete un nome? Boccassini", e cioè Ilda Boccassini, che con Pietro Forno e Antonio Sangermano ha raccolto 26mila pagine d'inchiesta, accusando il premier di concussione e prostituzione minorile. Sa che la realtà è diversa.

"Lo stesso film"
Sono le 14.53 del 3 aprile, Briatore e Santanché discutono del prossimo sindaco di Cuneo, poi Briatore non resiste:
B: "Sai chi è venuto a trovarmi a Montecarlo? Lele Mora. Non bene di salute, e mi ha detto: "Tutto continua come se nulla fosse"".
S: "Roba da pazzi!".
B: "Non più lì (ad Arcore), ma nell'altra villa (...) Tutto come prima, non è cambiato un cazzo. Stessi attori (...) stesso film, proiettato in un cinema diverso (...). Come prima, più di prima. Stesso gruppo, qualche new entry, ma la base del film è uguale, il nocciolo duro, "Cento vetrine"".
S: "Ma ti rendi conto? E che cosa si può fare?".
B: "Lele è stato da me due ore, mi fa pena. Dice. "Fla, mi hanno messo in mezzo. E sono talmente nella merda che l'unico che mi può aiutare è lui (Berlusconi), sia con la televisione, sia con tutto. Faccio quello che mi dicono, faccio quello che mi chiedono". E poi quella roba di Fede! È indecente".

La "mezza" di Emilio Fede
"(Fede) non ha più parlato con il Presidente", è stato tenuto in quarantena e "sembra - rivela Briatore - che abbia comprato delle case alla Zardo, con tutti 'sti soldi. Ma pensa che deficiente". Zardo è Raffaella Zardo, presentatrice tv, amica di Fede, già coinvolta in un'inchiesta passata sulla prostituzione, presentatrice al concorso di bellezza di Sant'Alessio Siculo, dove tra le concorrenti apparve "Ruby Eyek, egiziana, sedici anni", e cioè Ruby Rubacuori. Briatore non sembra inventare: "(Mora) era in estrema difficoltà e Fede gli ha preso il cinquanta per cento dei soldi" del prestito che l'agente in crisi economica aveva ottenuto da Berlusconi.
S: "Madonna mia!"
B: "E poi (Fede) è andato a dire al presidente: "Erano i soldi che gli ho prestato". Invece non è vero, figlio di puttana"".
S: "Che gentaglia".

Perché gli investigatori sono sicuri che Briatore non stia millantando? Semplice: i due, che hanno passato insieme stagioni intere al Billionaire, si sono scambiati sms e telefonate. E "Flavietto" ha detto a Lele: "Sono atterrato a Nizza in questo momento, ti mandiamo un messaggino con l'indirizzo, fammi uscire dall'aeroporto". Briatore - come dimenticarlo? - è anche uno dei principali testimoni che la traballante difesa di Berlusconi ha chiamato in causa. Scopo? Ribadire come quelle che si tenevano ad Arcore fossero solo "cene eleganti tra persone per bene". Un bel guaio per Niccolò Ghedini e il suo staff.

"Tremonti contro Berlusconi"
Il 7 aprile, alle 19.33, Flavio Briatore e Daniela Santanché affrontano vari argomenti e cominciano dall'economia.
S: "Ieri sono andata da Geronzi. Questo casino che è successo, Della Valle contro Montezemolo". Geronzi è Cesare Geronzi, che si è appena dimesso dalla presidenze di Generali, i due sono gli imprenditori che gli hanno mosso contro.
B: "C'è anche Tremonti, che gli ha dato una mano. Come azionista Generali, Geronzi voleva fare un po' il politico, il papà della cupola, no?".
S: "Geronzi mica finisce così. E mica questi penseranno che lui sta lì, senza colpo ferire".
B. "No, no, ma ha 75 anni".
S: "Bollorè è con lui", Vincent, vicepresidente del gruppo triestino. "E non credo che Bollorè molli Geronzi".
B: "Non fidarti mai dei francesi. Quando c'è bisogno, non ci sono mai".
I due parlano di Mediobanca e di un'operazione di Della Valle e Montezemolo "con i treni" per ingraziarsi il ministro Giulio Tremonti, tanto che il sottosegretario conferma le indiscrezioni dei giornali, sempre smentite: "Di fatto, Tremonti è stato contro Berlusconi".
B: "Tremonti ha dato la spallatina finale, eh?".
S: "Senza i suoi tre voti non era così".

"Perde Berlusconi se perde Geronzi"

Il sottosegretario racconta al compaesano anche della "guerra che si scatena in Mediobanca", con Geronzi che vuole tornarci e - dice - c'è anche la partita del Corriere della Sera, eh". Briatore resta scettico: "A mio feeling, Geronzi non rientra in Mediobanca".
"Ma vuol dire che perde Berlusconi", insorge Santanché. E insiste: "Il vicepresidente di Mediobanca si chiama Marina Berlusconi".
Briatore non riesce più a tacere: "Dani, io ti dico un'altra roba. Se il presidente continua a fare che cosa fa... ".
Santanché: "Ah, non dirmi niente!".
B: "Siamo nelle mani di Dio qui, eh? Perché - continua - ieri sera, l'altra sera, ho saputo che c'era stata un'altra grande festa lì, eh?".
S: "Ma tu pensa!? E che cazzo dobbiamo fare!?".
B: "Ha ragione Veronica, è malato. Perché uno normale non fa 'ste robe qui. Adesso Lele, che gli continua a portare, a organizzare questo, è persino in imbarazzo lui! E dice: "Ma io che cazzo devo fare?"".
S: "Va beh, ma allora qua crolla tutto".
B: "Daniela, qui parliamo di problemi veramente seri di un Paese che deve essere riformato. Se io fossi al suo posto non dormirei di notte. Ma non per le troie. Non dormirei per la situazione che c'è in Italia".
S: "E con il clima che c'è, uno lo prende di qua, l'altro che scappa di lì".
B: "Brava, il problema è che poi la gente comincia veramente a tirar le monete".
S: "Stanno già tirando", e insultano pure.

Un'amica in Rai
Ma tutto sommato a Santanché non va malissimo, spiega all'amico come sta acquistando peso e prestigio:
S: "E Berlusconi ha fatto fare a me l'accordo. Ho fatto l'accordo con Masi, e quindi tra il 7 e il 9 aprile viene nominata Lei, perché sai, una mia carissima amica... ".
B: "Bene, meglio avere qualche amico in più".
S: "In un mondo... ".
B: "Di merda, guarda!".



Dal processo breve al legittimo impedimento storia di una legge ad personam. - di Mario Portanova


Il disegno di legge proposto da Maurizio Gasparri ha suscitato polemiche di fuoco e, tra emendamenti e correzioni varie, giace tuttora in Parlamento. Ma ha aperto la strada alla norma con cui il premier stabilisce da sé se i suoi impegni istituzionali sono tali da far saltare l’udienza, mentre i normali cittadini possono soltanto presentare una richiesta al giudice, che si riserva di decidere. Anche se la Consulta ne ha depotenzionato gli effetti, solo la sua bocciatura popolare eliminerebbe qualunque possibilità di utilizzarla.


L'avvocato del premier Berlusconi alla seduta della Consulta sulla costituzionalità del legittimo impedimento

In principio fu il “processo breve”, stravagantedisegno di legge proposto da Maurizio Gasparriche potrebbe stroncare migliaia di processi in corso: tutti quelli che non arrivano a sentenza definitiva sei anni dopo la richiesta di rinvio a giudizio, eccetto i dibattimenti per alcuni reati gravi, decisi preventivamente da Gasparri medesimo.

Il processo breve ha suscitato polemiche di fuoco e, tra emendamenti e correzioni varie, giace tuttora in Parlamento dopo essere stato approvato al Senato il 20 gennaio di quest’anno e, con modifiche, alla Camera il 13 aprile, tra le proteste delle vittime di importanti casi giudiziari, come il rogo della Thyssen o il crac Parmalat.

Ma, come spesso è accaduto nella decennale storia delle leggi ad personam in favore di Silvio Berlusconi, il fantasma del processo breve ha aperto la strada a una proposta alternativa meno devastante, portata avanti in parallelo dalla maggioranza di centrodestra: il “legittimo impedimento”, la norma sottoposta a uno dei referendum del 12 e 13 giugno, che avrebbe permesso di salvare il presidente del Consiglio dai suoi processi senza affossarne altri.

Non è un caso che il relativo disegno di legge sia stato presentato dall’ex parlamentare di opposizione, l’Udc Michele Vietti, attuale vicepresidente del Csm, proprio con l’ottica della “riduzione del danno”, come spiega Marco Travaglio nella dettagliatissima ricostruzione contenuta in Ad personam (edizioni Chiarelettere, 2011).

Il legittimo impedimento esiste già nel codice di procedura penale, e vale per tutti i cittadini. Se per esempio un imputato è immobilizzato a letto da una grave malattia, il giudice ne prende atto e rinvia l’udienza del processo. Allora perché “ad personam”? Perché a norma presentata da Vietti riguardava soltanto “le prerogative del presidente del Consiglio”: i suoi impegni di governo, in pratica, avrebbero costituito automaticamente un “legittimo impedimento” a presentarsi in aula.

L’intento di preservare Berlusconi dai processi in corso (tra cui il temuto caso Mills) è dichiarato esplicitamente dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e messo nero su bianco nel decreto Vietti, un provvedimento transitorio “nelle more della definitiva promulgazione” di una legge che regoli il rapporto della alte cariche dello Stato con la giustizia. In sostanza il cosiddetto Lodo Alfano, che avrebbe messo il premier al riparo da qualunque processo per tutta la permanenza in carica. Il Lodo era già stato bocciato dalla Corte costituzionale, ma il Pdl stava lavorando a una nuova formulazione.

Dopo un’altra girandola di discussioni ed emendamenti, il 2 febbraio 2010 il testo viene approvato alla Camera. La differenza fondamentale rispetto alla norma che vale per tutti è questa: il presidente del Consiglio stabilisce da sé se i suoi impegni istituzionali sono tali da far saltare l’udienza, mentre i normali cittadini possono soltanto presentare una richiesta al giudice, che si riserva di decidere. Il 10 marzo, con una celerità sorprendente e ben due voti di fiducia posti dalla maggioranza, il legittimo impedimento è approvato anche al Senato. Diventa legge il 7 aprile, con la firma del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Mentre parte la raccolte firme per il referendum contro la nuova legge, messa in moto dall’Italia dei Valori, si rivolge alla Corte costituzionale la Procura di Milano, titolare di tre processi contro Silvio Berlusconi (Mills, diritti Mediatrade e presunta frode fiscale Mediaset, mentre i caso Ruby in quel momento è di là da venire). Il 13 gennaio di quest’anno, la Corte definisce incostitituzionali alcune parti della norma sul legittimo impedimento, in particolare proprio quella che sottrae al giudice il potere di decidere, cioè il punto chiave che sta più a cuore a Berlusconi e ai suoi. I processi di Milano continuano, senza alcuna possibilità di “autocertificare” impegni irrinunciabili, tant’è che in diversi casi il presidente del Consiglio si presenta in aula.

Il referendum voluto dall’Idv viene comunque ritenuto ammissibile, con il quesito riformulato.



L’elettorato è chiamato a votare sì per abrogare la norma sul legittimo impedimento o no
per conservarla. Una norma che è ancora in vigore, anche se depotenziata nei suoi effetti dalla decisione della Corte costituzionale. La sua bocciatura popolare eliminerebbe qualunque possibilità di utlizzarla, magari giocando su cavilli e interpretazioni, da parte dei legali del presidente del Consiglio. E, sottolineano i promotori, sarebbe un forte segnale politico contro di lui e contro la pratica delle leggi ad personam.



Guida giuridica al legittimo impedimento “Ecco perché votare sì al referendum”. - di Chiara Avesani


Intervista a Guido Neppi Modona. Il vice presidente emerito della Corte Costituzionale spiega perché, dal Lodo Schifani al Lodo Alfano fino all'ultima legge ad personam, la Consulta ha sempre respinto le leggi presentate dal centrodestra in materia di giustizia. E perché il sì dei cittadini è così importante per ristabilire il giusto ruolo della maggioranza parlamentare.


Il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, Guido Neppi Modona

“La maggioranza non è onnipotente, fermiamo il tentativo di attentare alla Costituzione”. Il 12 e 13 giugno si terranno i referendum sull’acqua, nucleare e legittimo impedimento. Perché siano validi servono oltre 25milioni e trecentomila votanti. Il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, Guido Neppi Modona, spiega le ragioni del voto al referendum e il significato dell’abrogazione del legittimo impedimento.

Partiamo dal voto per il referendum sul legittimo impedimento. Perché andare a votare?
Perché questo voto non è solo sul legittimo impedimento, ma è un voto su un certo modo di attentare alla Costituzione repubblicana. E’ per questo che è così importante.

Ha un significato tanto ampio?
Certamente. La vittoria dei “sì” significa mandare un segnale forte: i cittadini non ammettono che la maggioranza sia onnipotente. Per capirlo bisogna ricordarsi come ci si è arrivati alla legge sul legittimo impedimento.

Come?
La legge sul legittimo impedimento è del 2010, ma la sua storia viene da lontano. Le radici affondano nei tentativi del Presidente del Consiglio di garantirsi l’immunità dai processi, prima con il Lodo Schifani e poi con il Lodo Alfano. Due tra le più indecenti leggi ad personam della Repubblica.

Come fa a dire che sono leggi ad personam?
Basta guardare la cronologia delle udienze dei processi Sme, Mills e Mediaset e le date dei lavori parlamentari. Questi sono dati oggettivi. Lo scopo è bloccare i processi nei quali il Presidente del Consiglio è imputato.

Cosa prevedevano i lodi Schifani e Alfano?
Il lodo Schifani è del 2003 e vietava di processare per qualsiasi reato, anche commesso prima della nomina, cinque cariche dello Stato: il Presidente della Repubblica, del Senato, della Camera, del consiglio dei Ministri, che allora come ora era Berlusconi, e della Corte costituzionale. Gli eventuali processi già in corso si sarebbero dovuti sospendere. Ma con sollecitudine la Corte costituzionale lo fulminò.

Perché?
Perché era illegittimo: violava chiaramente il principio di uguaglianza. La Costituzione prevede che tutti i cittadini siano ugualmente sottoposti a processo penale, se commettono dei reati. Se si vogliono inserire immunità o privilegi, si deve fare una modifica costituzionale. Purtroppo la motivazione di questa sentenza non fu abbastanza chiara e quindi il problema si ripresentò con il lodo Alfano.

Perché non fu chiara?
Io di quella sentenza ho ricordi precisi perché facevo parte della Corte Costituzionale. Il problema era stato che in camera di consiglio ci siamo accorti che non c’era la maggioranza dei giudici per affrontare il problema di fondo.

Cioè?
Il problema di fondo è che queste cose possono essere fatte solo con legge costituzionale. Non basta una legge ordinaria, servono maggioranze molto ampie, perché si tratta di cambiare uno dei principi fondamentali dell’ordinamento: l’uguaglianza di tutti i cittadini. Invece non ci fu il coraggio di dirlo subito chiaramente. La sentenza sembrava quasi suggerire quali correzioni avrebbero dovuto essere apportate alla legge. Il che puntualmente avvenne con il lodo Alfano che portava qualche modifica, ma continuava ad essere una immunità mascherata.

Quindi anche il lodo Alfano venne dichiarato incostituzionale.
Certamente. E questa volta spiegando che per inserire una immunità che privilegi i ministri o titolari di alte cariche dello Stato è necessaria una legge costituzionale, con una maggioranza molto più ampia di quella di chi vince le elezioni. E’ un principio fondamentale. E’ il messaggio che si manda votando “sì” a questo referendum.

In che modo sono collegati i lodi Schifani e Alfano alla legge sul legittimo impedimento?
Dopo due sentenze della Corte è stato chiaro che non si potevano inserire immunità con una legge ordinaria. Ma la maggioranza più ampia non c’era quindi la via delle immunità era definitivamente sbarrata. I legali del Presidente del Consiglio si trovarono costretti, per raggiungere lo stesso effetto, a percorrere una via più problematica: rinviare continuamente le udienze per legittimo impedimento. E hanno pensato a una legge apposita per ampliarne l’uso.

Cos’è il legittimo impedimento? A cosa serve nel processo penale?
Il legittimo impedimento esiste da sempre nel codice di procedura penale. Si tratta dell’assoluta impossibilità dell’imputato di comparire in udienza. Se il giudice accerta che l’imputato non poteva presentarsi per un impedimento grave e assoluto, rinvia l’udienza perché possa essere presente a difendersi.

In quali casi si può essere giustificati?

Possono essere situazioni di infermità fisica, ricovero ospedaliero, detenzione all’estero, ma anche la partecipazione ai lavori parlamentari e, per i ministri, le attività istituzionali di governo, come la partecipazione al consiglio dei ministri.

Se c’è già nel codice di procedura penale, perché è stata fatta una legge apposta?

Evidentemente la disciplina ordinaria del codice non era sufficiente per il Presidente del Consiglio. Ecco quindi la legge di cui parla il referendum del 12 giugno: una legge speciale sul legittimo impedimento in cui, solo per il Presidente del Consiglio e dei ministri, gli impedimenti legittimi sono molti più ampi che per i comuni cittadini. E la Corte Costituzionale è di nuovo intervenuta.

A cosa serve il referendum, quindi, se è già intervenuta la Corte costituzionale?
La Corte ha eliminato in parte questa legge. Il referendum si riferisce a quello che è rimasto in piedi dopo la sentenza della Corte. Il quesito del referendum chiederà “ Si vuole abrogare la legge n. 51 del 2010 come risulta a seguito della sentenza della Corte costituzionale?” Sì! Ciò che è rimasto di questa sciagurata legge va definitivamente eliminato per chiarire un equivoco di fondo: cioè che la semplice maggioranza in Parlamento non è onnipotente.

Con il referendum quindi i cittadini completano il lavoro della Corte Costituzionale.
Sì. Ormai sono più di dieci anni che le preziose risorse del Parlamento e del Governo che dovrebbero essere utilizzate per l’interesse di tutti, vengono invece strumentalizzate per creare leggi ad personam per il Presidente del Consiglio. Nel frattempo altre risorse, quelle della Corte Costituzionale e del Presidente della Repubblica sono state costrette a bloccare i danni provocati alla Costituzione da queste leggi ad personam incostituzionali. Dieci anni di risorse sprecate spese, rispettivamente, per attentare alla Costituzione e per difendere la Costituzione.

Votare sì al referendum significa liberarsi dei rimasugli di queste leggi che hanno avvelenato gli ultimi dieci anni della nostra storia Repubblicana.