lunedì 25 luglio 2011

Il boss calabrese e l’uomo di Ferrovie nord. - di Davide Milosa


In un'informativa depositata agli atti dell'inchiesta milanese Caposaldo viene documentato l'incontro tra Pasquale Guaglianone, ex tesoriere dei Nar, oggi nel cda della spa controllata da Regione Lombardia e Paolo Martino, considerato dai magistrati il referente delle cosche in Lombardia.


Da sinistra: Pasquale Guaglianone, Paolo Martino e Fabio Mucciola

Il boss e l’ex tesoriere dei Nar (i Nuclei armati rivoluzionari fondati nel 1977 dal terrorista nero Giusva Fioravanti), oggi nel Cda di Ferrovie nord, la spa controllata da Regione Lombardia e presidente del collegio sindacale di Fiera Milano congressi. Estremismo di destra, mafia e impresa pubblica. C’è anche questo nel romanzo criminale della ‘ndrangheta alla milanese. Incroci pericolosi che rimescolano le carte e sul tavolo dei grandi affari lombardi squadernano rapporti inquietanti con protagonisti degli anni di Piombo che si riciclano nella politica lombarda da tempo commissariata alle direttive del Pdl, ala ex An. Tradotto: il ministro della Difesa Ignazio La Russa.

Per capire, però, bisogna tornare al 2009, quando va in scena un incontro decisivo. Siamo in via Durini 14, pieno centro di Milano. A due passi piazza San Babila. Altri quattro e arrivi sotto al Duomo. Diciassette settembre. Dieci minuti alle undici di mattina. Vacanze in archivio e città al lavoro. Il traffico rallenta. Due uomini s’incontrano sul marciapiede davanti al palazzo che ospita gli uffici di diverse società. Si salutano e scompaiono dentro al portone di vetro. Chi sono? Il primo indossa un impermeabile chiaro, pantaloni scuri e scarpe sportive. E’ nato a Reggio Calabria, ma da tempo ormai vive sotto la Madonnina. Si chiama Paolo Martino e gli investigatori del Ros lo considerano un influente boss della ‘ndrangheta, imparentato con la potente famiglia De Stefano. A carico ha una lunga latitanza e anche una condanna per omicidio. L’altro, invece, è molto alto. Indossa un abito grigio senza cravatta e tiene la sigaretta nella mano sinistra. Si chiama Fabio Mucciola, è nato a Roma, ma vive a Reggio Calabria dove ha sede la sua impresa. La Mucciola spa è una holding dell’impiantistica che da anni lavora in riva al Naviglio. Tanto da vincere (nel 2008) un appalto pubblico milionario messo sul tavolo dal Pio Albergo Trivulzio. L’incontro tra i due viene prima filmato dai carabinieri e poi trascritto in un’informativa agli atti dell’inchiesta Caposaldo: 15 marzo 2011, trentacinque arresti per associazione mafiosa. Un lungo elenco di indagati che comprende anche il nome di Paolo Martino. In quella tiepida giornata di settembre, però, il presunto referente delle cosche reggine al nord si muove alla grande. E con Fabio Mucciola, che ad oggi non risulta indagato dalla procura di Milano, entra al numero 14 di via Durini.

Mezz’ora più tardi i due sono di nuovo sul marciapiede. Ma non sono soli. Con loro c’è un altro uomo. Un tipo non alto, ma robusto. Pochi capelli in testa, indossa un vestito elegante e controlla il cellulare. Sul momento viene catalogato come “persona sconosciuta”. Ma un rapida “comparazione fotografica del cartellino d’identità”, lo identifica in Pasquale Guaglianone, detto Lino, nato a San Sosti, provincia di Cosenza, il 22 gennaio 1955, professione commercialista, un incarico nel Cda di Ferrovie nord, un altro in Fiera Milano Congressi spa e una passione per l’estrema destra.

Per capire da dove arriva Guaglianone basta spulciare un’informativa della Digos del 28 novembre 1981. Si legge: “Il segretario del Fronte della Gioventù di Milano, Vittorio Guaglianone è stato chiamato alla ferma militare. Pertanto l’interinato del Fronte è stato dato a suo fratello Lino (Pasquale,ndr), protetto da La Russa”. Dieci anni dopo, lo stesso Guaglianone viene condannato in primo grado (sentenza confermata in Cassazione) per la sua appartenenza ai Nar fondati da Giusva Fioravanti,Francesca Mambro, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi. L’accusa è precisa: “Compiere atti di violenza con fini di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale, contribuendo a creare una struttura associativa interamente clandestina” che “progettava e compiva attività delittuose strumentali (…) predisponeva idonei rifugi per i militanti (…) acquistava ingenti quantitativi di armi, munizioni ed esplosivi”. Nel 1992 Guaglianone incassa cinque anni di condanna. Nel 1994, la Corte d’appello gli riconosce le attenuanti generiche scontando qualche mese.

A partire dal 2000, l’ex Nar inizia la sua riabilitazione politica. Nel 2005 si candida per An alle regionali. Una candidatura che il ministro La Russa commenta così: “Ci interessa dare posti a quella destra più a destra di noi”. Eppure, nonostante un tale sponsor, le elezioni naufragano. Anche se Guaglianone, candidato nel comune di Buccinasco, fa incetta di voti. La sua carriera politica, però, non si ferma. E così nel 2009, dopo essere confluito nel Pdl, il “protetto da La Russa” entra nel Cda di Ferrovie nord. In realtà il vecchio amore resta sempre l’estrema destra. E così l’ex Nar figura anche tra i primi finanziatori del centro sociale Cuore nero.

Nel frattempo il Lino porta avanti anche la professione di commercialista assieme al suo storico socioAntonio Italica (non indagato). Originario di Reggio Calabria, nel 1997 Italica si candida alle comunali di Milano nelle file di Alleanza nazionale. Progetto politico poi abortito. E sul quale pesa un particolare curioso. Il 10 aprile di quello stesso anno, in piena campagna elettorale, Atomo Tinelli, consigliere comunale di Rifondazione comunista, viene accoltellato mentre attacca dei manifesti. L’aggressione avviene in zona Ticinese. I suoi accoltellatori fuggono e si rifugiano nel ristorante Maya, dove, tra l’altro, ha lavorato l’ordinovista Nico Azzi (morto nel gennaio 2007). Il locale, all’epoca, è di proprietà di Guaglianone. Quella sera, poi, la sala è riservata a un cena elettorale in favore proprio di Antonio Italica. Ovviamente l’episodio non avrà alcuna rilevanza penale e non sarà mai connesso all’aggressione.

Italica e Guaglianone lavorano negli uffici in via Durini 14. Entrambi sono soci nello studio di commercialisti Mgim. E sono presenti nel collegio sindacale della Finman Spa dell’immobiliarista calabrese Mario Pecchia, il cui nome compare nell’inchiesta Cerberus sul monopolio del movimento terra da parte della ‘ndrangheta padana. Sia Pecchia che Guaglianone non risultano indagati dalla Dda di Milano. Il fattoquotidiano.it oggi ha contattato la segretaria dello stesso Guaglianone illustrandole la vicenda. Il consigliere di Ferrovie nord, però, non ha richiamato per spiegare il motivo dell’incontro filmato dai carabinieri.

Al di là delle responsabilità penali resta, però, un fatto: l’incontro, filmato dai Ros di Milano, tra l’ex Nar, recordman di incarichi nelle partecipate pubbliche, e il presunto boss della ‘ndrangheta. I due, assieme all’imprenditore Fabio Mucciola, si congedano pochi minuti prima di mezzogiorno del 17 settembre 2009. Con loro c’è anche una signora bionda, il cui nome compare solo in una nota dell’informativa. Si tratta di Carla Spagnoli nata a Perugia nell’aprile del 1953 (non indagata). La signora, figlia dell’ex presidente del Perugia Calcio, aderisce ad Alleanza nazionale durante la svolta di Fiuggi del 1995. Nel 2004 fonda la corrente dei Cristiano-Riformisti. In quello stesso anno si candida alle europee. Nel 2007 lascia An e confluisce nella Destra di Storace, lista con la quale, nell’aprile 2008, si candida al Senato. Nel 2009 fonda il Movimento per Perugia. E’ febbraio. Pochi mesi dopo la ritroviamo nel pieno centro di Milano in compagnia di un ex terrorista nero e di un presunto boss della ‘ndrangheta.



Arrestato Vittorio Cecchi Gori.

L'accusa per il produttore:
bancarotta fraudolenta
Avrebbe sottratto 14 milioni
destinati alla custodia giudiziaria

ROMA
Arrestato nuovamente il produttore cinematografico Vittorio Cecchi Gori. I finanzieri del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma hanno eseguito nei confronti dell’imprenditore un’ordinanza di custodia cautelare degli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta, disposta dal Tribunale capitolino, su richiesta dei sostituti procuratori della Repubblica di Roma, Stefano Fava e Lina Cusano, coordinati dal procuratore aggiunto Nello Rossi.

Secondo l'accusa Cecchi Gori aveva distratto i beni del patrimonio sociale della società Fin.Ma.Vi. S.p.A., causando un passivo fallimentare di circa 600 milioni di euro attraverso strumentali operazioni di finanziamento a favore di altre società a lui riconducibili, tra cui due società statunitensi (la Cecchi Gori Pictures e la Cecchi Gori Usa).

Proprio queste due società americane, nel marzo del 2011 hanno vinto una causa legale intentata negli Stati Uniti nei confronti della Hollywood Gang Production del produttore italo-americano Gianni Nunnari.

Il Giudice della California ha pertanto ordinato alla società di Nunnari di corrispondere alle due società americane di Cecchi Gori la somma di circa 14 milioni di dollari, immediatamente sottoposta a sequestro dal Tribunale di Roma, al fine di metterla a disposizione della procedura fallimentare per la soddisfazione dei creditori della Fin.Ma.Vi. S.p.A..

La somma non è però mai stata resa disponibile alla custodia giudiziaria. Cecchi Gori avrebbe anzi tentato, anche attraverso propri emissari negli Stati Uniti, di entrare in possesso del denaro oggetto del provvedimento di sequestro. Cecchi Gori era già stato arrestato dal Nucleo di Polizia tributaria di Roma nel giugno del 2008 nell'ambito del procedimento penale scaturito a seguito del fallimento della Safin società cinematografica S.p.a., controllata dalla Fin.Ma.Vi. S.p.a.


http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/413010/



L'America non è la Grecia. - di Alberto Bisin.



Il presidente Obama sta negoziando coi repubblicani al Congresso un accordo su spesa e debito pubblico. Le negoziazioni procedono febbrilmente perché, in mancanza di un accordo in tempi brevissimi, il governo federale potrebbe non essere in grado di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e gli interessi sul proprio debito in esistenza. In questo caso, da un punto di vista letterale, gli Stati Uniti non farebbero fronte ai propri debiti e sarebbero quindi «in default». Come la Grecia.

Per quanto noi europei troviamo rassicurante immaginare gli Stati Uniti mentre nuotano in acque turbolente quanto le nostre, la situazione reale è ben diversa. Il default degli Stati Uniti, qualora avvenisse, sarebbe dovuto all’impossibilità di sorpassare un tetto legale all’indebitamento che il Congresso ha posto e che il Congresso può alzare con un voto e un tratto di penna: sarebbe quindi una questione legale, puramente contabile e avrebbe un significato soprattutto simbolico. I mercati non si sognano nemmeno di limitare il credito agli Stati Uniti, né di richiedere tassi elevati o crescenti per sottoscriverlo. Infatti i tassi sui titoli del Tesoro Usa sono stabili da tempo a livelli storicamente bassi; i tassi sui titoli a 6 mesi e oltre sono addirittura scesi nell’ultimo mese.

La ragione dell’impasse legislativa sta nel fatto che il Congresso a maggioranza repubblicana è in una posizione di forza contrattuale notevole: rifiutandosi di votare l’innalzamento del tetto costringe l’amministrazione ad affrontare una crisi fiscale e un potenziale default che, per quanto simbolico, rappresenterebbe una figuraccia per Obama. In altre parole, i repubblicani stanno essenzialmente ricattando l’amministrazione Obama per ottenere che il governo si vincoli a quei tagli di spesa che essi considerano fondamentali per la crescita del Paese. In realtà un innalzamento del tetto sul debito pubblico tale da evitare il default fino al 2012 è già sul piatto della contrattazione, essendo stato offerto ieri dal presidente della Camera Boehner. Ma è un boccone avvelenato perché se Obama lo accettasse si aprirebbe una nuova stagione di negoziazioni proprio prima delle prossime elezioni presidenziali.

Gli Stati Uniti non sono la Grecia, quindi. E nemmeno la Spagna o l’Italia. I problemi di bilancio di questi Paesi sono infatti reali ed imminenti, nel senso che essi non trovano investitori disposti a finanziare il proprio debito, se non a spread elevati rispetto a Paesi i cui conti siano in ordine, come la Germania. Ciò non toglie però che gli Stati Uniti abbiano un problema fiscale serio ed importante, in parte dovuto alle spese militari e ai tagli fiscali dell’ultimo decennio così come alle spese per lo stimolo fiscale dopo la crisi del 2008. Inoltre, in prospettiva, la spesa per pensioni e sanità (dovuta quest’ultima sia al pre-esistente sistema sanitario per gli anziani che alla nuova riforma Obama) appaiono fuori controllo. Ma proprio il tetto legislativo al debito pubblico costringe gli Stati Uniti ad affrontare il loro problema fiscale oggi, ben prima che i nodi vengano al pettine. Qualunque cosa si pensi del ricatto a cui i repubblicani stanno sottoponendo l’amministrazione Obama, e qualunque cosa succeda nei prossimi giorni, gli Stati Uniti usciranno da questa crisi con un accordo che limiterà l’eccessiva spesa pubblica di qui a due anni almeno. Una soluzione politica ad un problema economico, che medierà tra le esigenze e le preferenze delle diverse classi di cittadini rappresentati da democratici e repubblicani, ben prima che i mercati operino pressione sul governo perché questo avvenga. Per quanto il meccanismo istituzionale del tetto al debito pubblico generi queste crisi un po’ fasulle, più contabili che altro, esso sembra in grado di raggiungere un obiettivo importante: costringere le parti a ridurre la spesa sedendosi ad un tavolo negoziale prima dell’emergenza.

E’ proprio questo che è mancato e ancora manca all’Europa.


Quando si dice: un magna, magna. - di Alessandro Gilioli.


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Gli abusi e i privilegi sul cibo – insieme a quelli sulla casa – sono fra quelli che più fanno venire il sangue caldo. Ci dev’essere una ragione atavica, suppongo: probabilmente irrazionale.


E’ quindi invitando alla massima compostezza che qui si pubblica (da questa inchiesta di Emiliano Fittipaldi) l’originale di un menù del ristorante del Senato.

Sia ben chiaro, nulla che non sia stato già scritto, a partire dal libro di Stella e Rizzo.

Ma vederlo così, stampato sull’originale, fa lo stesso un po’ impressione, considerando anche che i pranzi vengono preparati da eccellenti cuochi e serviti da camerieri in livrea, insomma non è propriamente la mensa della Caritas. E la differenza tra quanto pagano i senatori e quanto costa il ristorante, beninteso, la pagano i contribuenti.

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http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/07/25/quando-si-dice-un-magna-magna/



Irlanda, Santa Sede reagisce alle accuse Preti pedofili a Cloyne, richiamato il nunzio.


Dopo la pubblicazione del rapporto della commissione d'inchiesta sugli abusi sessuali ai danni di minori nella diocesi a sud del paese e a seguito della accuse lanciate in Parlamento dal premier Kenny ("Vaticano ha incoraggiato a tacere"), Monsignor Giuseppe Leanza richiamato per consultazioni.

CITTA' DEL VATICANO - La Segreteria vaticana ha richiamato il nunzio apostolico in Irlanda, monsignor Giuseppe Leanza, per consultazioni a seguito della pubblicazione, il 13 luglio scorso, del rapporto della commissione d'inchiesta del governo di Dublino sugli abusi ai danni di minori commessi da sacerdoti della diocesi di Cloyne, a sud del paese. La Segreteria di Stato e altri dicasteri vaticani dovranno mettere a punto una risposta ufficiale alle richieste provenienti dal governo irlandese circa il coinvolgimento del Vaticano nella copertura e insabbiamento di casi di abusi sessuali commessi da esponenti dal clero irlandese.

Si tratta della prima risposta del Vaticano al durissimo atto d'accusa pronunciato mercoledi scorso in Parlamento dal premier irlandese Enda Kenny, secondo cui "il rapporto della commissione ha evidenziato il tentativo della Santa Sede di bloccare un'inchiesta in uno Stato sovrano, democratico e Repubblica non più di tre anni fa, non trent'anni fa".

Alle parole del premier aveva replicato padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana. "La Santa Sede risponderà opportunamente alla domanda posta dal Governo irlandese a proposito del Rapporto sulla diocesi di Cloyne". Il religioso aveva anche richiamato tutti a dibattere la vicenda con la massima obiettività, in modo da contribuire alla causa che deve stare maggiormente a cuore a tutti, cioè la salvaguardia dei bambini e dei giovani e il rinnovamento di un clima di fiducia e collaborazione a questo fine, nella Chiesa e nella società, come auspicato dal Papa nella sua Lettera ai cattolici dell'Irlanda".

A sua volta, l'arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin aveva respinto con forza le accuse lanciate dal premier irlandese, sottolineando che nella diocesi di Cloyne sono state ignorate le norme del 2001, volute dall'allora cardinale Ratzinger, dunque dal Papa attuale.

Mercoledì scorso, davanti al Dail, la camera bassa del Parlamento irlandese, il premier Kenny aveva apertamente accusato il Vaticano di "disfunzione, disconnessione e elitarismo", per aver incoraggiato i vescovi a non denunciare gli abusi da parte di 19 esponenti religiosi della diocesi di Cloyne alle autorità ufficiali, secondo quanto affermato dalla commissione d'inchiesta nel suo rapporto. Kenny non aveva usato mezzi termini. La vicenda di Cloyne, aveva affermato in Parlamento, "fa emergere la disfunzione, la disconnessione e l'elitarismo che dominano la cultura del Vaticano. Lo stupro e la tortura di bambini sono stati minimizzati per sostenere, invece, il primato delle istituzioni, il suo potere e la sua reputazione".

Alla pubblicazione del rapporto, prima che Kenny pronunciasse il suo atto d'accusa, padre Lombardi si era già espresso, garantendo la volontà della Santa Sede di accertare la verità e una sua pronta risposta alle rivelazioni su Cloyne. In attesa di quella risposta, il gesuita aveva ricordato "gli intensi sentimenti di dolore e di riprovazione espressi dal Papa in occasione del suo incontro con i vescovi irlandesi, convocati in Vaticano l'11 dicembre del 2009 proprio per affrontare insieme la difficile situazione della Chiesa in Irlanda alla luce del Rapporto sull'Arcidiocesi di Dublino, allora recentemente pubblicato. Il Papa parlava allora apertamente di 'sconcerto e vergogna' per 'i crimini odiosi'".

Padre Lombardi aveva richiamato in proposito che "proprio in seguito a tale incontro, e a uno successivo del 15 e 16 febbraio 2010, il Papa ha pubblicato la sua nota e ampia Lettera ai Cattolici dell'Irlanda, del 19 marzo successivo, in cui si trovano le espressioni più forti ed eloquenti di partecipazione alle sofferenze delle vittime e delle loro famiglie, come pure di richiamo alle terribili responsabilità dei colpevoli e alle mancanze di responsabili della Chiesa nei loro compiti di governo o di sorveglianza. Una delle azioni concrete seguite alla Lettera del Papa è la visita apostolica alla Chiesa in Irlanda, articolata nelle visite alle quattro archidiocesi, ai seminari e alle Congregazioni religiose, visita i cui risultati sono in uno stadio avanzato di studio e di valutazione".


Vignetta.






















"Nella Satira un po' di solidarietà non si nega manco ai cani".
Ecco la vignetta che ha pubblicato il Fatto quotidiano dopo la denuncia per vilipendio al Capo dello Stato, al direttore di Libero Maurizio Belpietro.
Ricordiamo che Belpietro , rischia 5 anni di carcere per aver pubblicato una vignetta offensiva sul Capo dello Stato Napolitano.


Casa, stangata fiscale da 2 miliardi la cedolare sugli affitti salirà al 25%.



Saranno ridotti i bonus su ristrutturazioni e risparmio energetico. Dai mutui ai lavori alle provvigioni per gli intermediari: tutti gli aumenti di tasse dal 2013-14.


di ROSA SERRANO.

NON C'E' solo il ritorno dell'Irpef sulla prima casa. Quella che si profila sul fronte immobiliare somiglia a una vera e propria stangata fiscale, che taglierà tutte le agevolazioni e aumenterà dal 21 al 25,2% la cedolare secca appena introdotta sugli affitti. Oltre 10 miliardi di euro di sconti fiscali per la casa saranno "alleggeriti" dalla manovra economica. I tagli arriveranno in due tranches: nel 2013 il 5% in meno, circa 500 milioni di euro; l'anno dopo il 20%: 2 miliardi. Ce ne sarà per tutti: per chi possiede la casa in cui abita, per chi dà in affitto il proprio immobile, per chi fa lavori di ristrutturazione, e infine per gli stessi inquilini. Ma procediamo con ordine.

I proprietari di prime case. Oltre al ritorno dell'Irpef sulla prima casa a partire dai redditi 2013 e 2014, i proprietari subiranno tagli alle agevolazioni, a cominciare da quelle fiscali per l'acquisto della prima casa. Ma sarà ridotta anche la detrazione Irpef per gli interessi passivi sui mutui prima casa (19% su un tetto massimo di spesa di 4 mila euro annui). Limitata infine la detrazione Irpef per le provvigioni pagate ai mediatori immobiliari per l'acquisto dell'abitazione principale (19% su un importo massimo di mille euro annui).

I proprietari che affittano l'immobile. Qui è a rischio la novità fiscale del 2011, ovvero la cedolare secca sugli affitti che, da quest'anno, prevede un'imposta unica del 21% sugli affitti relativi a contratti di locazione di immobili ad uso abitativo (19% per i contratti agevolati che prevedono un affitto inferiore a quello di mercato). Ebbene, con il taglio alle agevolazioni, la cedolare salirà a regime dal 21 al 25,2 per cento. Immediata la richiesta di chiarimenti di Confedilizia, secondo cui a questo punto rischiano di cambiare di nuovo le convenienze fiscali dei proprietari. A rischio anche la deduzione forfetaria del 15% sui redditi da locazione che viene riconosciuta ai proprietari a fronte dei costi sostenuti per l'immobile (manutenzione, imposte, ecc.) e l'ulteriore deduzione del 30% ai proprietari che affittano con canone concordato.
I proprietari che fanno lavori in casa. Qui entra in gioco il ricorso agli sconti Irpef sulle ristrutturazioni e sui lavori di risparmio energetico. Due misure particolarmente amate dagli italiane e che vengono di solito rinnovate di anno in anno. Ebbene, il bonus del 36% sui lavori di recupero edilizio si ridurrà al 28,8, mentre quello del 55% su interventi mirati al risparmio energetico calerà al 44 per cento.

Gli inquilini. Anche le detrazioni fiscali previste per gli inquilini a sostegno del costo dell'affitto di casa saranno investite dal taglio del 5% nel 2013 e del 20% nel 2014. Si va dalla detrazione di 300 e 150 euro per l'affitto dell'abitazione principale, alla detrazione triennale di 991,60 euro per i giovani inquilini tra i 20 e i 30 anni, per passare, poi, ai 495,80 euro e ai 247,90 euro per i contribuenti intestatari di contratti con affitto concordato. A rischio anche le detrazioni per i lavoratori dipendenti che abbiano trasferito la residenza nel comune di lavoro (991,60 e 495,80 euro per i primi tre anni).



Area Falck, riappare Binasco del compagno G “Far arrivare 2 milioni al Pd di Penati”.




Una “triangolazione nel 2008-2010 per fare arrivare soldi al partito”. La procura di Monza ha iscritto nel regiostro degli indagati Bruno Binasco per aver finanziato illecitamente con 2 milioni di euro nel 2010 il leader del Pd lombardo, Filippo Penati, attraverso un meccanismo che ruota attorno a una caparra. Lo scrive il Corriere della Sera. Che ricorda come Bruno Binasco venne arrestato nel 1993 per aver finanziato illecitamente il Pci tramite “il compagno G”, Primo Greganti, con 150 milioni di lire di mancata restituzione di interessi su una caparra immobiliare. Dal Pci al Pd. Dalle lire agli euro.

Il quotidiano di via Solferino ricostruisce il flusso di finanziamenti. “Anche in questa vicenda, come già per i 4 miliardi di lire in contanti che il costruttore e consigliere comunale di centrodestra Giuseppe Pasini dice di aver dato all’estero nel 2001 a due fiduciari dell’allora sindaco ds di Sesto San Giovanni (il futuro capo di gabinetto Giordano Vimercati e l’imprenditore del trasporto urbano Piero Di Caterina), il percorso dei soldi ipotizzato dai pm Walter Mapelli e Franca Macchia non è rettilineo, ma triangolato: un finanziamento illecito perfezionato a fine 2010 (quando Penati era capo della segreteria di Bersani) benché ideato nel 2008 (quand’era presidente della Provincia di Milano), secondo lo schema di una simulata trattativa d’acquisto da parte di Binasco di un immobile dell’imprenditore Di Caterina, quello che ha rivelato ai pm di aver finanziato il partito di Penati nella seconda metà anni 90, a volte anche con 100 milioni di lire al mese”, scrive il Corsera.

Il finanziamento illecito, alla fine, avrebbe assunto la forma di una caparra immobiliare versata dal 66enne Binasco, più volte arrestato in Mani pulite ma quasi sempre sgusciato tra prescrizioni e assoluzioni. Storico braccio destro dello scomparso nel 2009 Marcellino Gavio, e amministratore “delegato della cassaforte del gruppo (che gestisce 1.200 km di autostrade, è primo azionista di Impregilo e macina 6 miliardi di euro di fatturato), Binasco firma nel 2008 un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile di Di Caterina, valutato in partenza a un prezzo molto alto”. Ma, nel farlo, “Binasco verga a mano una clausola che prevede che Di Caterina incameri una caparra generosissima, di ben 2 milioni di euro, nel caso in cui Binasco non eserciti l’opzione d’acquisto entro il 2010. E’ esattamente quello che accadrà, ma che per gli inquirenti “doveva” accadere sin dall’inizio: Binasco nel 2010 lascia decadere l’opzione, e così effettua quello che l’accusa qualifica finanziamento illecito di 2 milioni al pd Penati, perché in questo modo estingue nel 2010 un «debito» che Penati nel 2008 si era visto reclamare dal finanziatore Di Caterina”.

Nelle mani degli inquirenti, infatti, è caduta una missiva molto aspra indirizzata nel 2008 da Di Caterina non solo all’ex sindaco ds di Sesto San Giovanni ma anche a Binasco, sequestratagli nel portafoglio dai finanzieri della polizia giudiziaria milanese nel luglio 2009: “Nel corso degli anni, a partire dal 1999, ho versato a vario titolo, attraverso dazioni di denaro a Filippo Penati, notevoli somme” di cui “il sottoscritto ha cercato di tornare in possesso, ma, salvo marginali versamenti, senza successo. Penati ha promesso di restituire, dopo estenuanti mie pressioni, proponendo nel tempo varie opzioni che si sono rivelate inconcludenti fino a quando ha proposto l’intervento del gruppo Gavio”. Ma “ad oggi non è stato effettuato nessun ulteriore versamento, e ciò mi ha costretto a ricominciare nuovamente ad effettuare pressanti azioni di sollecito”. Riporta il Corriere della Sera, ricostruendo la vicenda. Con Di Caterina che prende atto di come Binasco cerchi di “chiamarsi fuori” e così “sollecita” a rispettare gli “accordi raggioni” nella lettera a Penati a Binasco. E nel novembre 2008 la trattativa immobiliare produce il suo scopo: liquidare a Di Caterina 2 milioni dietro lo schermo della caparra di Binasco e con il contributo tecnico di un professionista di Binasco ritenuto vicino a Penati, Renato Sarno (tra gli otto perquisiti mercoledì). E alla fine del 2010, puntuale, arriva la rinuncia di Binasco a esercitare l’opzione d’acquisto: Di Caterina si tiene l’immobile e incamera i 2 milioni di euro di caparra. “Nella sua lettera del 2008, Di Caterina si congedava da Penati e Binasco non proprio leggiadramente, ‘diffidandovi dall’assumere atteggiamenti minacciosi e offensivi’ e ‘ricordandovi che non si può giocare cinicamente con la vita degli altri. Tutto ha un limite’”.


I ladri e i Penati. - di Marco Travaglio





Gentile on. Pierluigi Bersani, giorni fa abbiamo posto alcune domande all’on. D’Alema sui politici a lui vicini finiti nei guai giudiziari e abbiamo avuto la fortuna di ricevere una risposta (salvo poi essere definiti “giornale tecnicamente fascista”). Ci riproviamo con Lei, nella speranza di ottenere una risposta (preferibilmente senza insulti). Una premessa: noi non pensiamo che Lei si sia macchiato di reati, né che i reati eventualmente commessi da qualcuno del Suo staff ricadano su di Lei. La responsabilità penale è personale. Ma quella politica no.

Parliamo di “culpa in eligendo”, la stessa che ha portato il premier britannico Cameron a scusarsi prima col suo popolo e poi col Parlamento per aver nominato un portavoce troppo vicino a Murdoch. Portavoce dimissionato su due piedi, anche se né lui né tantomeno Cameron avevano fatto nulla di penalmente rilevante. Cameron si è scusato “solo” per aver scelto il braccio destro sbagliato. Ora, on. Bersani, il caso vuole che Lei, quand’era ministro delle Attività produttive, avesse come suo consigliere Franco Pronzato, ora arrestato per aver preso una tangente da un’azienda che aveva appoggiato all’Enac in una gara d’appalto (accusa ammessa dallo stesso Pronzato, che ha chiesto di patteggiare): Pronzato infatti era contemporaneamente Suo consigliere, responsabile Pd per i Trasporti e membro del Cda dell’Enac.

Cosa Le è saltato in mente di nominare un personaggio in così palese conflitto d’interessi fra politica e affari? Lei può dire che non sapeva che Pronzato prendesse tangenti, ma non che ignorava il suo conflitto d’interessi, visto che all’Enac l’aveva indicato proprio il Suo partito. Ancor più grave è il caso di Filippo Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex presidente della Provincia di Milano, ora vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia, l’uomo che Lei, divenuto segretario del Pd, nominò capo della Sua segreteria: insomma il Suo braccio destro.

Adesso Penati è indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito con l’accusa di aver ricevuto, per sé e per il partito, tangenti da imprenditori interessati a speculazioni edilizie sull’area ex Falck di Sesto. Il costruttore Pasini racconta che Penati gli chiese 20 miliardi di lire nel 2000-2001 e ne ottenne oltre 5 tramite due intermediari, con pagamenti in Lussemburgo e in Svizzera, poi dovette pagare 1,25 miliardi per affari nell’area ex Marelli e altri 2 miliardi in finte consulenze a due emissari delle coop rosse. Alcuni versamenti sono documentati da carte bancarie ricevute per rogatoria dalla Procura di Monza.

E le accuse di Pasini sono già state confermate dal presunto intermediario penatiano, l’imprenditoreDi Caterina, che a sua volta racconta di essere stato “spremuto come un limone” – cioè costretto a pagare per anni fino a 100 milioni di lire al mese per poter lavorare – da Penati e dal Suo partito. Che Penati avesse un concetto piuttosto elastico, diciamo pure allegro, dei rapporti politica-affari, lo dimostravano già ampiamente le intercettazioni uscite anni fa tra lui e il costruttore Gavio nella sporca faccenda della Milano-Serravalle, costata un patrimonio alla Provincia di Milano: Penati chiamò Gavio dicendo che Lei gli aveva dato il numero privato.

Lei ha liquidato l’inchiesta su Penati come “roba vecchia”: ma, se anche fosse, questa per Lei sarebbe un’aggravante, visto che in tutti questi anni non s’è accorto di quel che faceva chi Le sta accanto. Immaginiamo cosa sarebbe accaduto senza le indagini. Tra un paio d’anni Lei avrebbe potuto vincere le elezioni, diventare premier e portarsi al governo i suoi due più stretti collaboratori: Penati sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Pronzato ministro dei Trasporti. Salvo magari scoprire che erano due corrotti. Visto il Suo fiuto da rabdomante nella scelta dei fedelissimi, è proprio sicuro di essere il miglior candidato del centrosinistra alle prossime elezioni? In attesa di un Suo cortese riscontro, porgiamo distinti saluti.


D’Alema, Bossi e B., la Casta fuori di testa. - di Luca Telese



Che cosa unisce il pugno battuto sul tavolo dal Caimano e la voce dal sen fuggita (e subito dopo rimangiata) di Umberto Bossi? Che cosa unisce al pugno del berlusconismo decadente e al rutto del celodurismo crepuscolare (“In galera!”) e il gesto simpatico del lìder-bullo maximoche si infila gli occhiali nel taschino e preannuncia emorraggie del setto nasale (“Quelli che erano nella sua posizione, quando io facevo questo gesto si ritrovavano sanguinanti a terra?”) ai suoi intelocutori? Cosa unisce ai tre grandi crepuscoli l’agitare scomposto delle pulci che si credono giganti, come quei due dirigenti del Pdl che ieri volevano addobbare il nostro cronista solo perché faceva una domanda (legittima) su un elicottero pubblico dedicato all’interesse privato? Cosa unisce alla caduta degli dei il fragore ridicolo dei ministri che comprano a loro insaputa, piazzano il parentame e attrezzano querele, i deputati ruba-galline del Pdl che si pagano la suite da nabbabbi, e l’esponente democratico che patteggia una condanna lampo?

C’è un filo lungo che in queste ore tiene insieme le mani che prudono contro le domande scomode, lo sfavillante smottamento di tre grandi carismi e l’avvitamento solipsistico dei tre leader fuori controllo. C’è un virus malato che si trasmette dai piani alti ai piani bassi, un odore cattivo di cancrena, una voglia di combattere con la violenza (fisica o avvocatizia) l’evidenza della realtà. C’è un filo che unisce le minacce della ministra Brambilla che era arrivata a chiedere a questo giornale tre milioni di euro (non li avrà) e il dispetto per il lavoro di inchiesta. Dice Silvio Berlusconi de Il Fatto: “Senza di me voi non esistereste”, e non sa che ci fa un complimento. Dice Massimo D’Alema che siamo un giornale tecnicamente fascista, e non sa che siamo stati tecnicamente sommersi da parole di solidarietà.

C’è un filo spesso come uno spago che unisce la malinconica e perdente stizza di Silvio Berlusconi, la patetica confusione di Umberto Bossi e il simpatico e archilochèo eloquio diMassimo D’Alema, distanti nei tempi e nella qualità ma uniti come tre avvisi di garanzia, tre certificazioni di cessata lucidità intellettuale.

Berlusconi, che un tempo fu mago della manipolazione iconografica e mediatica, compie l’errore di svelarci platealmente la sua impotenza. Bossi, che fu inimitabile prestigiatore e incarnazione geniale del ganassa cede brabndelli di carisma costrigendosi a ritrattazioni inverosimili di sparate che un tempo avrebbe difeso con orgoglio. D’Alema esibisce la nuvola del suo malumore di fronte ai giornali che osano parlare degli arresti e delle inchieste che riguardano il Pd.

La gravità e la qualità di questi moti di umor nero sono diversi, così come le cause. Ma comune è il fenomeno di invecchiamento, l’obsoletizzazione di una classe dirigente che per venti anni ha deciso il bello e il cattivo tempo della politica italiana. Tutto si poteva dire di D’Alema, negli anni passati – amandolo o detestandolo – se non che non non avesse una linea politica una rotta, una identità forte. Ma oggi, anche lui, lancia segnali contraddittori. Scrive sulla nuova unità una articolata analisi per dire che bisogna dialograre con i movimenti, ma poi considera ingiuria il solo fatto che su questo giornale Marco Travaglio gli ponga delle domande sulle vicende giudiziarie del Pd.

C’è in queste tre grandi maschere della politica italiana – Bossi, D’Alema e Berlusconi – lo stesso fascino malinconico dell’androide di Blade Runner, che conserva intatto il suo senso di onnipotenza superomistico, ma che allo stesso tempo sa che nessuno potrà alterare quello che è scritto nel suo destino: la data di scadenza. In fondo, sia Berlusconi, Bossi e D’Alema, sono diventati oggi dei Balde Runner di se stessi, dei replicanti di quello che sono stato nella prima repubblica. Bossi fondò la Lega venti anni fa, dopo aver cominciato a battere le valli nel lontano 1985. Bossi è l’uomo che fotografava il monumento ad Alberto da Giussano per trarre dai negativi il simbolo fai-da-te del Carroccio (anche se Gianfranco Miglio diceva perfido, dopo il litigio: “Macchè, lo ha copiato dalle biciclette della Legnano!”), Silvio Berlusconi vendeva gli appartamenti della sua prima speculazione, nel 1974, chiamando i parenti a fingersi compratori per abbindolare i veri compratori (un genio, anche se ad un tratto una disse: “Zia, come stai!”, facendo mangiare la foglia agli interessanti), Massimo D’Alema, anche può sembrare incredibile, è quel giovane che appare in un reperto televisivo del 1977, tormentato in tv da un indiano metropolitano di nome Gandalf.

Questi tre leader sono antichi, le tensioni che produssero i grandi banzi non ci sono più, i loro partiti sono attraversati da pulsioni materialissime. Adesso che il tempo degli androidi è scaduto, come Rutger Hauer dovrebbero capire che è ora di passare la mano, e di dissolvere le loro storie come lacrime nella pioggia.

Adesso che il loro tempo è finito, dovrebbero capire che trent’anni di palcoscenico sono troppo per qualunque mattatore. Invece non passano la mano, non accettano di essere sostituiti, continuano a pensare di avere il sole in tasca, l’attrezzo in tiro e la forza che spezza l’acciaio nelle mani. Ed è proprio questo che rende il loro crepuscolo non un finale di drammaturgia, ma un problema per il paese. Nei paesi democratici i leader se ne vanno senza drammi, nelle repubbliche delle banane i caudilli restano in campo finchè non li spazza una rivolta di piazza. E finché qualcuno, tecnicamente giornalista, non racconta la loro fine trovando un senso a una storia che un senso non ha.