domenica 28 agosto 2011

I trecento miliardi che lo Stato non vuole Mafiosi, corrotti ed evasori ringraziano. - di Mario Portanova


Tanto vale l'economia nera italiana. Recuperarne una parte è possibile e alleggerirebbe i sacrifici di famiglie e pensionati. Tra le proposte non accolte dal governo Berlusconi, la ritassazione dei capitali scudati e norme più severe per rompere il sistema delle mazzette. Mentre il nuovo codice contro la criminalità organizzata ostacola la confisca dei beni.


Trecentotrenta miliardi di euro ogni anno, un oceano di soldi. Dove si potrebbe andare a pescare, in un momento in cui il governo vara una manovra che promette almeno tre anni di lacrime e sangue, con più tasse e drastici tagli alla spesa pubblica. E’ l’oceano dell’economia illegale italiana. In dettaglio: 150 miliardi, il fatturato della criminalità organizzata, secondo la Commissione parlamentare antimafia (e 180 mila posti di lavoro persi al Sud, secondo il Censis); 60 miliardi il costo pubblico della corruzione secondo la Corte dei conti, cioè mille euro tondi a cittadino, neonati compresi; 120 miliardi di evasione fiscale, stima il ministero dell’Economia, con l’Italia al primo posto in Europa per la quota di reddito non dichiarato, il 51,1 per cento secondo un recente studio di Krls-Network of Business Ethic.

Totale: 330 miliardi di euro all’anno che sfuggono a ogni imposizione, un ordine di grandezza a cui arriva anche la stima dell’Istat, che valuta il “sommerso” tra i 255 e i 275 miliardi di euro, cioè tra il 16 e il 17 per cento del Pil. Un dato strutturale dell’economia italiana, che mette insieme fenomeni diversi, dallo scontrino non battuto al carico di cocaina sbarcato al porto di Gioia Tauro, e tutte le sfumature di illegalità che ci stanno in mezzo, dal lavoro nero alle mazzette.

Ma ora che il governo impone sacrifici ai lavoratori, ai pensionati, ai giovani, alle famiglie, qualcuno comincia a mettere la questione sul tavolo. Quei soldi si possono recuperare. Né tutti, né subito, naturalmente. Ma l’oceano è talmente vasto che anche una piccola percentuale avrebbe un impatto sostanzioso sulle casse dello Stato.

A lanciare il sasso nello stagno ci ha provato Avviso pubblico, la rete di oltre 180 enti pubblici contro le mafie presieduta da Andrea Campinoti, sindaco di Certaldo in provincia di Firenze. “Non ci risulta”, si legge in un comunicato dell’associazione, che nei vari “tavoli” tra governo e parti sociali “sia stato affrontato il tema dei costi economici e sociali dell’illegalità”. Eppure “i costi delle mafie, della corruzione, dell’evasione fiscale e dell’economia sommersa incidono pesantemente sulla qualità della nostra economia, della nostra sicurezza, della giustizia e della vita in generale”. Ogni singolo italiano paga un “ticket dell’illegalità” pari a 5.500 euro all’anno, cioè 15 euro al giorno.

La manovra appena approvata contiene alcuni provvedimenti che pescano nelle acque grigie dell’economia, come la tracciabilità delle transazioni sopra i 2.500 euro (prevista con soglie ancora più basse dal governo Prodi e cancellata dal centrodestra tornato in sella nel 2008) e le misure più severe per chi non emette fattura. Ma si può fare molto di più e il tema non è più appannaggio esclusivo dei soliti paladini della legalità: “Rinnovo la mia proposta al Governo di trattare i grandi evasori fiscali come i grandi criminali mafiosi, con la sanzione conseguente della immediata confisca dei beni”, ha dichiarato il senatore del Pdl Raffaele Lauro pochi giorni prima dell’approvazione della manovra.

Nessuno dei suoi sembra averlo seguito, ma almeno è un segnale. Perché se no va a finire che “pagano tutti meno gli evasori”, ha scritto il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Cioè “gli unici che non hanno legge, che non subiscono tagli, che dribblano i sacrifici. Chi ci governa e chi siede in Parlamento ricordi che, da oggi, tutto ciò che verrà scontato e addirittura condonato o perdonato a quest’altra casta peserà 45 miliardi di volte in più nel giudizio degli italiani onesti”.

La deputata del Pd Simonetta Rubinato ha calcolato che potrebbero essere raccolti ben 18 miliardi di euro chiedendo un “contributo di solidarietà” a chi ha rimpatriato i capitali beneficiando dello “scudo fiscale”. L’aliquota potrebbe essere del 18 per cento, spiega la senatrice, “che aggiunto al 5 per cento già versato all’erario, equivale all’aliquota più bassa dell’Irpef, cioè 23 per cento”. Così si potrebbe “evitare di dover ancora una volta chiedere sacrifici ai ceti medio-bassi già duramente provati dalla crisi”. L’idea è entrata nel pacchetto di sette controproposte del Pd alla manovra economica approvata dal governo, insieme alla tracciabilità delle transazioni superiori ai mille euro (invece di 2.500), al pagamento elettronico di prestazioni e servizi, all’obbligo di tenuta dell’abo clienti-fornitori per le imprese. Tutti provvedimenti messi in cantiere quattro anni fa dal governo Prodi e immediatamente cancellati dalla maggioranza berlusconiana, perché mica si può vivere “in uno stato di polizia”.

Insomma, per rimettere le mani su parte dell’economia illegale italiana, lo Stato potrebbe fare molto, molto di più.

CORRUZIONE. Pochi lo ricordano, ma in Italia è in vigore una norma sulla confisca dei beni ai corrotti, sul modello di quanto si fa con i mafiosi. Fu approvata, anche questa dal governo Prodi, con la Finanziaria nel 2007, ma da allora è rimasta “in sonno” perché i successori berlusconiani non si sono mai preoccupati dei decreti attuativi. “Potrebbe essere un primo passo, il gettito sarebbe simbolico, ma il segnale forte”, afferma Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso pubblico. Insieme a Libera, l’associazione ha lanciato una campagna di raccolta firme perché governo e parlamento adottino le convenzioni internazionali e le direttive europee in materia di corruzione e diano seguito alla norma sulla confisca. “Significherebbe per esempio introdurre il reato di corruzione tra privati, più adatto ai meccanismi di oggi, dato che molte malversazioni avvengono in società partecipate dal pubblico, ma regolate dal diritto privato”, continua Romani.

E’ una delle previsioni della Convenzione di Strasburgo sulla corruzione, approvata nel 1999 e mai adottata in Italia (già oggetto della campagna per una nuova legge anticorruzione condotta su Il Fatto Quotidiano da Marco Travaglio), “insieme alla normativa sui collaboratori di giustizia e persino i test di integrità”, continua Romani, “grazie ai quali la polizia può mettere alla prova i funzionari pubblici con finte offerte di mazzette”. Sarebbe come pescare a strascico, nel paese delle “cricche”. Invece il governo Berlusconi ha chiuso l’Alto commissariato per la lotta alla corruzione e lo ha sostituito con un “ufficetto”, il Saet, Servizio anticorruzione trasparenza. E ildecreto anticorruzione, approvato in Senato il 15 giugno, non contiene grandi novità, a parte un leggero inasprimento delle pene e norme sull’ineleggibilità ancora da definire.

Perché più che riprendersi i soldi dei corrotti, combattere efficacemente il sistema delle tangenti permetterebbe allo Stato “di recuperare negli anni parecchi miliardi di euro”, commenta Alberto Vannucci, professore di scienza politica all’Università di Pisa, dove tiene un Master su criminalità organizzata e corruzione. “I 60 miliardi stimati dalla Corte dei conti rappresentano non solo le tangenti, ma i costi aggiuntivi che queste determinano per la collettività. I nostri studi dicono che in Italia le opere pubbliche arrivano a costare il 40-50 per cento in più rispetto agli altri paesi europei. Per un certo periodo subito dopo Mani pulite si registrò una drastica riduzione, perché evidentemente il sistema si era momentaneamente fermato. Un ulteriore danno sociale consiste nella gigantesca distorsione della concorrenza a svantaggio dell’imprenditore onesto, capace ed efficiente, che viene estromesso dal mercato, mentre prosperano le ‘cricche’ di amici e parenti”.

Transparency, la più autorevole organizzazione internazionale in materia, colloca l’Italia al 63esimo posto della sua classifica, tra il Ruanda e la Georgia, ma “se depuriamo il fattore reddito, visto che normalmente nei paesi più poveri c’è più corruzione, risultamo secondi al mondo dopo la Grecia”. Eppure il governo Berlusconi non sembra percepire l’emergenza, né le possibilità di recuperare soldi in questo campo invece che dalle tasche dei soliti noti. “Un modo per farlo sarebbe l’imposta sui grandi patrimoni”, suggerisce il professore, “che in Italia sono anche frutto dell’economia illecita. Basti pensare che l’83 per cento degli affitti è percepito in nero, secondo un recente rapporto del ministero dell’Economia. E le rendite finanziarie, altro tipico sbocco del denaro accumulato in nero, finora sono state sempre tassate coi guanti bianchi”. Infine, la tassazione extra dei capitali scudati “sarebbe facilmente applicabile, demandando la riscossione alle banche che hanno gestito il rientro. Certo, la prossima volta nessuno aderirebbe più allo scudo, ma a me personalmente sembra una buona ragione in più per farlo”.

MAFIA. Giusto una settimana prima della manovra “lacrime e sangue”, il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo codice antimafia. Una grande occasione per aggredire con maggior vigore le immense ricchezze delle cosche. Un’occasione sprecata, hanno commentato invece molti osservatori, a cominciare dall’ex presidente della Commissione parlamentare Giuseppe Lumia. Anzi, un regalo ai boss, soprattutto la nuova nornativa sui beni mafiosi, che fissa un limite di 18 mesi tra il sequestro e la confisca, un tempo giudicato troppo breve, data l’estrema difficoltà delle indagini patrimoniali e gli esigui mezzi messi in campo dallo Stato. Così come rischia di vanificare molti sforzi la possibilità, per chi viene assolto dall’accusa di associazione mafiosa, di chiedere la restituzione del bene confiscato. Una misura all’apparenza garantista, che in realtà affossa l’intuizione di Pio La Torre sul doppio binario delle indagini penalli e di quelle patrimoniali.

Il nuovo codice antimafia “dimentica” un’altra richiesta univoca di chi si occupa di lotta alla mafia: la riforma del reato di voto di scambio, l’articolo 416 ter del codice penale che oggi punisce soltanto il politico che compra voti in cambio di soldi, un caso molto raro. Che cosa c’entra con i conti dello Stato? Molto, perché di solito il politico colluso “compra” il voto mafioso in cambio di appalti, forniture, assunzioni. Moltiplicando il caso singolo per la capillarità del controllo dei clan in ampie aree del paese (e non solo al Sud), si arriva a una voragine che ingoia denaro della collettività in cambio di opere e servizi scadenti, e a volte non realizzati affatto. “Avevamo chiesto che l’azienda mafiosa sorpresa in un cantiere pubblico dovesse anche restituire i soldi incassati dallo Stato”, ricorda Romani di Avviso pubblico. “Con la normativa attuale, invece, il cantiere si ferma e basta, con un doppio danno per i cittadini, che poi finiscono per pensare che la mafia dà lavoro e l’antimafia lo toglie. Ma il nostro suggerimento è caduto nel vuoto”.

EVASIONE E SOMMERSO. “Pagano i soliti noti”, è stato il commento più diffuso alla manovra bis. E’ scomparsa anche l’imposta di solidarietà ad hoc per i redditi da lavoro autonomo superiori ai 55 mila euro, un implicito tentativo di recuperare una piccola parte delle tasse evase dalla categoria. Qualche provvedimento è stato preso, sulla tracciabilità e sulle sanzioni a chi non emette fattura, ma appare poca cosa davanti alla prateria di miliardi che si aprirebbe di fronte a una seria caccia all’evasore. Invece, poco meno di un mese fa il direttore dell’Agenzia delle entrate Attilio Befera ha annunciato “meno controlli alle piccole e medie imprese”, sia pure con una “maggiore qualità”.

Intanto i giornali pubblicano gli sconcertanti redditi medi ricavati dalle dichiarazioni Irpef dei lavoratori autonomi: 46.200 euro per i dentisti, 46.700 per gli avvocati, 17.700 per i concessionari di automobili, 14.500 per i ristoratori, 14.300 per gioiellieri e orologiai. E così via. Il 12 agosto, a Firenze, La Guardia di finanza ha messo sotto inchiesta un’intera famiglia di imprenditori del tessile per una frode fiscale da 10,2 milioni di euro, basata su false fatturazioni e aggiramento dell’Iva. Una famiglia, 10 milioni di euro, e intanto si grattano le banconote da cento dal fondo del barile di chi deve dichiarare tutto.

L’evasione va anche in vacanza. E’ di questi giorni uno studio di Assoedilizia secondo il quale il 18-20 per cento delle presenze nelle strutture ricettive è in nero, con un gran fiorire di cartelli del tipo: “Non si accettano pagamenti con assegni e carte di credito”. Sempre a proposito di tracciabilità.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/15/i-trecento-miliardi-che-lo-stato-non-vuole-mafiosi-corrotti-ed-evasori-ringraziano/151628/


C’è un’altra Casta, “enti di secondo livello” che costano 7 miliardi l’anno. - di Daniele Martini


Enti inutili e consorzi costano più del Parlamento. Una selva di settemila organi collegiali, una foresta pietrificata di sedi: 24mila persone piazzate dalla politica.


La Casta di serie B è poco appariscente, quasi sempre anonima, sostanzialmente scialba. Finisce poco o punto sui giornali, non sdottora in tv, non usa macchinoni blu, tutt’al più qualche anonima utilitaria, non ha scorte, non troneggia in uffici grandi come piazze d’armi con le scrivanie di mogano tirate a lucido. Però ci costa molto più dell’altra. Se per mantenere la prima Casta, la Casta per antonomasia degli “eletti”, deputati, senatori, presidenti regionali, consiglieri, sindaci delle grandi città, dobbiamo tirar fuori ogni anno oltre 2 miliardi di euro (calcolo del Sistema informatico sulle operazioni degli enti pubblici-Siope), per l’altra Casta, quella di livello inferiore, il conto è molto più salato, 3 volte tanto, oltre 7 miliardi di euro (calcolo delle stessa fonte). E generalmente in cambio otteniamo poco, molto poco.

La Casta di serie B è una selva di 7mila enti, aziende, consorzi, società, organi collegiali, una specie di foresta pietrificata di sedi, uffici, 24mila consiglieri di amministrazione, presidenti, direttori con stipendi, compensi e spese di rappresentanza per circa 2 miliardi e mezzo di euro all’anno. Gli esperti li chiamano “enti di secondo livello”, cioè di un livello derivato rispetto a quello primario degli eletti, i politici. I rappresentanti degli enti di secondo livello sono nominati, infatti, dai politici e quindi devono tutto a questi ultimi. Rapportato allo schema gerarchico medievale, se i presidenti di regione, sindaci e assessori possono essere considerati i feudatari, gli altri sono i valvassori e i valvassini. Detto in modo più crudo: se i primi ce l’hanno fatta a ottenere un seggio, i secondi spesso sono politici trombati, ai quali viene concesso un contentino e un ripescaggio. Pagato con soldi pubblici, naturalmente. Competenze, merito, professionalità? Non sono escluse a priori, ma non abbondano. Benefici per la collettività? Non sempre certificabili, soprattutto in relazione ai costi. Magari poi qualcuno dirà che nonostante le apparenze questi enti, aziende e consorzi in realtà sono utili, utilissimi e senza la loro presenza crollerebbe mezzo mondo e metterne in discussione l’esistenza e le funzioni è da qualunquisti scriteriati. Ma è difficile, per esempio, riuscire a capire perché accanto a un organismo statale ad hoc per le erogazioni in agricoltura, l’Agea, ente che ha il compito di coordinare e pagare i fondi dell’Unione europea agli agricoltori, poi sono spuntati tanti sotto-enti a livello locale, con le stesse funzioni e lo stesso scopo. Come, per esempio, l’Arsea in Sicilia, l’Arpea in Piemonte, l’Agrea in Emilia-Romagna, l’Artea in Toscana. E via elencando.

Così come non è facile comprendere perché, tanto per fare un altro esempio, la Regione Piemonte che non ha competenze sulle strade avendole trasferite alle Province, poi ha istituito una società apposita per la progettazione delle strade che si chiama Scr. E ancora resta arduo rendersi conto per quale motivo la Regione Lazio abbia promosso una società per incrementare il turismo sulle spiagge, la Litorale Spa, quando già esisteva un’altra agenzia regionale con lo stesso scopo (Agenzia per lo sviluppo del turismo di Roma e del Lazio), più 4 agenzie provinciali per il turismo a Viterbo, Rieti, Frosinone e Latina, più una quinta a Roma.

Cinque anni fa la Regione Sicilia ha istituito una società di promozione del cinema, una specie di Cinecittà isolana, che infatti si chiama Cinesicilia alla quale l’assessorato alla Cultura ha elargito una dote di 2 milioni di euro più royalties tra il 3 e il 5 per cento per ogni progetto avviato. Proprio ora ce n’è uno in corso, “Il giovane Montalbano”, sulla scia della serie famosa di Rai1 con Luca Zingaretti, avviato all’inizio di agosto e coprodotto da Rai-Palomar e Regione Sicilia.

Tutte le Regioni italiane hanno istituito per legge propri enti strumentali con uffici, dipendenti, dirigenti, presidenti etc… Ci sono decine, centinaia di agenzie per il lavoro, lo sviluppo, i rifiuti, il patrimonio, il turismo, la formazione professionale. Nel bilancio della Casta di serie B tutti questi organismi non sono affatto una voce accessoria, anzi, assorbono più della metà delle spese annue, 3,6 miliardi di euro. Però nessuno ci mette il naso, come fossero una specie di manomorta della politica. E come se la Casta di serie B alla fine fosse in realtà di A.

Alcuni di questi enti hanno nomi strambi. Qualche comune mortale sa che cosa sono i Bim o gli Aato o i Cvb? Tradotti significano Bacini imbriferi montani, Ambiti territoriali ottimali acqua/rifiuti, Consorzi per la vigilanza boschiva e anche dopo la traduzione il significato non è che sia tanto più chiaro. I Bim sono 63, con compiti assai generici, come si deduce, per esempio, dallo statuto di quello per il fiume Brenta in cui si parla di “favorire il progresso economico e sociale della popolazione dei Comuni consorziati”. L’anno passato i Bim sono costati 150 milioni di euro anche se secondo la Carta delle Autonomie sarebbero dovuti sparire. Idem le Comunità Montane: ce ne sono ancora 246 nonostante il governo avesse deciso di cancellarle. In attesa del trapasso, abbiamo pagato 800 milioni nel 2010. Idem i 222 Aato (91 per le acque e 131 per i rifiuti). La loro soppressione era sancita dalla manovra finanziaria del governo nel 2010. Poi ci hanno ripensato e con il decreto Milleproroghe la cancellazione è stata rinviata a dicembre 2011. Ci sono costati altri 240 milioni, tanto per gradire.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/28/l%E2%80%99altra-casta-quella-che-spendesette-miliardi-di-euro-l%E2%80%99anno/153919/

Rodotà: «Doppio incarico, serve subito legge»





Basterebbe vedere la dichiarazione dei redditi degli avvocati prima di diventare parlamentari e confrontarla con quella di quando sono onorevoli per capire bene quanto il tema del conflitto di interesse e della necessità di una legge sulle incompatibilità parlamentari sia di assoluta attualità». Secondo Stefano Rodotà, giurista, bisognerebbe ripartire da qui: dalla «moralità pubblica» per restituire credibilità alla Politica, con la P maiuscola.

LEGGI IL TESTO DELL'APPELLO

OLTRE 10MILA FIRME: ADERISCI ANCHE TU

Rodotà, lei definisce quello delle incompatibilità un tema centrale in Italia.
«Lo è per molte ragioni, compreso il costo della politica, ma per un risvolto diverso rispetto a quello di solito considerato. Mi riferisco ai costi pubblici perché la politica possa funzionare, a partire dal Parlamento, dalle retribuzioni dei parlamentari, ma anche al costo per entrare e stare in politica. È cresciuto negli ultimi anni in modo esponenziale anche qui in Italia, come in America. Per avere i soldi necessari per entrare e stare in politica si creano relazioni che garbatamente definisco “improprie” che poi finiscono con condizionare la stessa politica».

Follini: «No a doppio stipendio: la proposta Pd» di M. Ze. Quagliarello: «Giusto principio» di F. Cu.
Onida: «No ai doppi stipendi» di M. Ze.

Lei sta parlando di un altro tipo di conflitto di interessi?
«Esattamente. Questo è un tema capitale che i parlamentari quando entrò in campo Berlusconi non compresero da subito, malgrado fosse stato segnalato. Già allora era chiaro che c’era un problema di ineleggibilità perché era concessionario delle reti televisive. Non si è voluto affrontare davvero il problema e oggi il conflitto di interessi è divenuto l’emblema di un modo di stare in politica. È così vero che una legge sul tema da alcuni viene addirittura definita una legge “contra personam”».

Si fa il parlamentare e basta di P. Spataro
Tramonta una stagione di M. Saccomanno (Pdl)

Lo sarebbe anche quella sulle “onorevoli” incompatibilità?
«Lo dico non da ora che una incompatibilità ormai evidente è quella della professione di avvocato e il ruolo di parlamentare. Ci sono avvocati che sono difensori del presidente del Consiglio e di altri inquisiti o rinviati a giudizio, e contemporaneamente fanno le leggi».

Secondo alcuni la materia è complessa. Ad esempio, in caso di incompatibilità un avvocato con un piccolo studio avrebbe ripercussioni dovendo abbandonare la professione per tutto il periodo del mandato parlamentare.
«Trovo questo argomento assolutamente improprio. Se noi vivessimo in un Paese dove la moralità pubblica mantenesse un livello adeguato non avrei difficoltà a seguire la strada che non impone divieti. Ma non è così. Intanto cominciamo con il ricordare che esiste ancora un istituto che si chiama “indennità di reinserimento”: quando si finisce il mandato parlamentare si riceve una somma per rientrare nella vita “ordinaria” perché si ritiene che l’onorevole negli anni in cui è stato parlamentare non abbia potuto svolgere altre attività».

Invece?
«Invece continuano a svolgere tranquillamente la loro attività, per la quale percepiscono reddito, prendono l’indennità parlamentare e alla fine anche quella di reinserimento, le sembra normale?».

Non molto. In sostanza lei ritiene che oggi, soprattutto gli avvocati parlamentari, traggono un doppio vantaggio personale che poco a che fare con la funzione pubblica che sono chiamati a svolgere?
«Per intenderci: quando sono entrato in parlamento nel 1979 non avevo mai voluto svolgere la professione di avvocato e fino ad allora avevo dato non più di tre o quattro pareri professionali. Diventato parlamentare sono stato sommerso dalla richiesta di pareri, tutti importanti, tutti pagati benissimo. Cosa era successo? Si erano accorti all’improvviso che ero un giurista capace? Non credo. Penso, invece, che sul mercato aveva un suo peso il fatto che ero un parlamentare. Aggiungo: una fondazione molto importante, qualche anno fa fece una ricerca sui redditi dei parlamentari sottolineando la progressiva crescita degli introiti da professione privata durante il mandato. Il presidente Valerio Onida, per fare un altro esempio, più volte si è espresso dicendo che chi lascia la Corte Costituzionale per un certo periodo non dovrebbe svolgere attività professionali e purtroppo non sempre è stato così. Penso sia davvero il momento di ricostruire la moralità pubblica».


Italia, rivoluzione in arrivo? - di Massimo Cacciari



Quando un establishment non riesce a dare un motivo di fiducia alle nuove generazioni, scoppia tutto. E da noi la rivolta sarà dei giovani professionisti, del ceto medio impoverito, di tutti quelli che stanno fuori dalle caste.

Primavera italiana?L'espressione potrebbe davvero ricordare le drammatiche esperienze che si stanno vivendo in molti Paesi dell'altra sponda dell'antico mare nostrum? Le somiglianze non sono di ordine politico o istituzionale. Per quanto l'immagine della nostra politica sia giunta a livelli di indecenza impensabili fino a qualche anno fa, non siamo nelle mani né dei Mubarak né dei Ben Ali e ancor meno degli Assad. Alla peggio siamo stati fedeli alleati dei Gheddafi. Il parallelo può risultare istruttivo sotto altri profili. Occorre però partire da un'analisi non molto diffusa degli avvenimenti che stanno sconvolgendo gli equilibri sociali e politici dei Paesi islamici. Gli stereotipi della rivolta "islamica", così come quelli su occulti complotti ai vertici del potere, risultano del tutto inadeguati a giudicare la novità del fenomeno.

Sostanzialmente, la rivolta si diffonde del tutto al di fuori delle correnti religiose, ideologiche e politiche tradizionali. E con mezzi che non hanno più nulla a che vedere con quelli dell'appello carismatico e della direzione organizzativa "dall'alto". Chi sono i protagonisti? Giovani, operai e studenti, un ceto medio spesso anche altamente qualificato e comunque molto più qualificato della generazione precedente, con forti aspirazioni di mobilità sociale, colpiti da una crisi che si rovescia essenzialmente sulla loro condizione e sulle loro speranze.

Medici, ingegneri, architetti, giovani professionisti, generazione Erasmus bene o male anche questa, che si credevano fondatamente nuova classe dirigente nei loro Paesi e che si trovano sotto-occupati, peggio che precari quando va bene, disoccupati in massa, aspiranti solo a un posto sui barconi in fuga dall'assoluta miseria non solo economica ma umana. I regimi di quei Paesi hanno fallito per mille motivi ma il motivo scatenante della rivolta a me pare questo: nessuna classe dirigente può sopravvivere se non riesce a dare motivo di fiducia alle nuove generazioni. Anzi, direi paradossalmente, agli stessi non-nati, se non riesce a farle partecipare alla costruzione del loro destino.

Non c'entrano fondamentalismi, non c'entrano ideologie. La domanda di democrazia è concreta, materiale. Giustamente questi giovani concepiscono il valore della democrazia nella sua essenza, non per le chiacchiere che ne sommergono l'immagine. E questa è: garanzia di mobilità sociale, abbattimento delle barriere dei privilegi corporativi, intollerabilità di una fisiologica corruzione, partecipazione effettiva, e non "discutidora", alle decisioni che contano per la vita collettiva. Quando tutti questi meccanismi si inceppano, la pressione sale fino allo scoppio. E non se ne accorge soltanto chi vede la pignatta dall'esterno e non avverte il vulcano dentro.

Perché questa rivolta è risultata tanto imprevedibile ai potentati di Occidente? Come mai "esperti", quali il focoso Strauss-Kahn, allora direttore del Fondo monetario internazionale, potevano additare ad esempio di buona gestione dell'economia e delle politiche sociali il governo tunisino qualche giorno prima che lo stesso venisse cacciato? O il nostro povero Berlusconi poteva ritenere Gheddafi un invincibile alla vigilia della guerra civile? Semplicemente perché anche da noi, mutatis mutandis, la politica, nel senso più generale e proprio del termine, ha cessato di considerare ciò che si svolge e matura nel cuore di quelle energie che daranno vita comunque al Paese di domani. Ha cessato di guardare al non-ancora, a ciò che ancora non è organizzazione stabile, corporazione consolidata, lavoro garantito, e che comunque mai lo sarà nelle vecchie forme, come al problema decisivo dell'agenda politica.

Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C'è da credere o temere che la loro pazienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Non aspettiamoci che la "rivolta" avvenga, se avverrà, attraverso dichiarazioni di principio, pubblicazione di quei bei programmi in 5 mila pagine che elaborano i partiti prima delle elezioni. Come i loro colleghi d'oltre mare, si riconosceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade "immateriali". E quando finalmente si manifesterà la loro "potenza", oggi tutta ancora "potenziale", i vecchi, c'è da giurarlo, diranno: "Imprevedibile". Poiché "il vecchio" è caratterizzato appunto dall'ignorare il possibile.

Per l'organismo capace solo di sopravvivere o difendersi vale soltanto la forza delle corporazioni e degli ordini vigenti, i settori garantiti del lavoro, delle pensioni e magari della rendita. Esattamente come per quei regimi che la "primavera araba" promette di spazzare via. C'è ancora tempo da noi per una soluzione ragionata? Ogni intervento che si limiti a tamponare l'emergenza, senza prefigurare anche e soprattutto un nuovo patto tra generazioni (e generi e genti) non sarà che l'ennesima irresponsabile scelta di abbandonare agli eredi tutti i nostri misfatti.


Al solito “colpiti” i cittadini: salta il taglio di Province e Comuni. Aumenta l’iva!


Veramente credevate che la casta per una volta si tagliasse qualche loro piccola spesa? Rimarrete (al solito) delusi!

Ormai infatti sembra tramontata definitivamente la morsa che avrebbe portato al taglio di diverse Province e all’accorpamento di molti Comuni (anche se sul taglio delle Province poi non ci ho mai creduto un solo istante, se pensate che era uno dei punti principali del programma del Pdl, ma appena una mesata fa avevano votato contrario alla proposta Idv di tagliarle). L’alternativa, come già ventilato più volte, è quella di aumentare l’iva dal 20 al 21%, per recuperare quel bel gruzzoletto che è andato “perso” con la rinuncia al taglio di Comuni, Province e Regioni.

Ma per far capire meglio che, come si suol dire, “il cetriolo va sempre in c..o all’ortolano” (scusate il francesismo), vi riporto uno stralcio da questo post diMetilparaben che rende benissimo l’idea:

aumentare l'IVA di un punto percentuale sottrae cento euro l'anno a coloro che spendono diecimila euro l'anno per sopravvivere, e ne sottrae diecimila l'anno a chi può permettersi di spenderne un milione.
Non credo ci sia bisogno di spiegare per quale motivo dover dire addio a cento euro l'anno per chi campa con meno di mille euro al mese sia molto più gravoso che rinunciare a diecimila euro l'anno per chi può spendere cento volte tanto.
Ne consegue che aumentare l'IVA significa far pagare la crisi in modo più duro a chi se la passa peggio, in barba al principio di progressività, in base al quale chi guadagna di più dovrebbe essere chiamato a contribuire alle esigenze del paese in misura più che proporzionale rispetto agli altri.

Chiaro il concetto?

http://www.stopcensura.com/2011/08/al-solito-colpiti-i-cittadini-salta-il.html


Tagli ai vitalizi, sei parlamentari fanno ricorso: “I nostri diritti non si toccano”


Non passa giorno senza che qualche lupo del Palazzo non ci riservi la nostra dose di sdegno. Ci abbiamo fatto i calli è vero ma a tratti lo stupore prevale ancora sul disincanto. Oggi tocca a sei parlamentari, tutti siciliani, che hanno presentato ricorso alla Corte dei conti contro il taglio della doppia indennità, ossia la possibilità di sommare al già ricco stipendio di parlamentari nazionali, i vitalizi (tra i tremila e seimila euro) maturati nel corso della loro attività di deputati regionali. In altre parole, questo piccolo drappello bipartisan riscuote nello stesso tempo stipendio e pensione. Eppure, con un insolito scatto di lucidità, prima della pausa estiva, la presidenza dell’Ars (il parlamento siciliano) aveva imposto il divieto di cumulare le due indennità. Scelta saggia e in linea con il richiamo al rigore cui tutti i cittadini sono chiamati in questo momento. Ma i sei parlamentari non ci stanno, ritengono questa decisione “illegittima”: “I nostri diritti non si toccano” dichiarano indignati nel ricorso. Li chiamano proprio così: diritti. Mica privilegi. Ecco i nomi dei sei ricorrenti che vi invitiamo a diffondere a futura memoria elettorale:
Calogero Mannino (Gruppo Misto)
Alessandro Pagano (Pdl)


Sebastiano Burgaretta (Pdl)
Giuseppe Firrarello detto Pino (Pdl)
Salvo Fleres (prima Pdl ora Forza del Sud)
Vladimiro Crisafulli (Pd)