sabato 22 ottobre 2011

QUATTRO BANCHE HANNO IL 95,9% DEI DERIVATI USA.



UNA BOMBA A OROLOGERIA DA 600 TRILIONI DI DOLLARI PRONTA A ESPLODERE
DI KEITH FITZ-GERALD
Global Research

Volete sapere le vere ragioni per cui le banche non stanno prestando e per cui i PIIGS hanno ancora il controllo della situazione?
Perché il rischio del mercato dei derivati da 600 trilioni di dollari di derivati non si è ancora materializzato. Al contrario, si sta sempre più concentrando in una serie di banche selezionati, specialmente qui negli Stati Uniti.

Nel 2009 cinque banche detenevano l’80% dei derivati dell’America. Ora, solo quattro ne hanno uno sbalorditivo 95,9 per cento, secondo un recente resoconto dell’ Office of the Currency Comptroller.
Le quattro banche in questione sono: JPMorgan Chase & Co. (NYSE: JPM), Citigroup Inc. (NYSE: C), Bank of America Corp. (NYSE: BAC) e Goldman Sachs Group Inc. (NYSE: GS).
I derivati hanno giovato un ruolo cruciale nell’affossare l’economia globale, quindi si potrebbe pensare che i più importanti decisori mondiali abbiano imbrigliato tutto ciò, ma non lo hanno fatto.
Invece di attaccare il problema, i controllori lo hanno lasciato andare fuori controllo e il risultato è una bomba a orologeria da 600 trilioni di dollari, chiamata il mercato dei derivati.
Pensate che io stia esagerando?
Si stima che il valore di facciata dei derivati mondiali sia superiore ai 600 trilioni di dollari. Il valore di facciata, naturalmente, è il valore totale degli asset scambiati con la leva finanziaria. Questa distinzione è necessaria, perché quando si parla di asset in leverage come le opzioni e i derivati, una piccola somma di denaro può controllare una posizione spropositatamente larga che può essere 5, 10, 30, o in qualche caso estremo 100 volte maggiore dell’investimento che potrebbe essere utilizzato in strumenti a pronti.
Il PIL mondiale è circa 65 trilioni di dollari, o circa il 10,83% del valore globale del mercato dei derivati, in base all’Economist. E quindi non ci sono in pratica abbastanza soldi sul pianeta per fermare gli scambi tra le banche di questi strumenti se dovessero finire nei guai.

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Paragone vs. Stracquadanio: rissa in studio. Byoblu vs Corruzione a L'Ultima Parola

Sei anni fa era un’azienda in salute oggi la Rai ha le casse semivuote. - di Carlo Tecce




A causa dei ritardi del Tesoro nel versare i soldi raccolti con l'abbonamento, le casse di via Mazzini sono vuote: a dicembre rischio blocco per tredicesima, stipendi e pagamenti ai fornitori.
Il palazzo della Rai a viale Mazzini
Non è un programma d’informazione domestica, ma l’ultima deriva di viale Mazzini: persino per la Rai è una fatica arrivare a fine mese. Non bastano 2,5 miliardi di euro l’anno fra canone e pubblicità. Non bastano fidi bancari che sfiorano 700 milioni di euro. Non bastano piani industriali che nascondono licenziamenti. E dicembre fa paura: c’è il rischio che l’azienda possa bloccare le tredicesime, forse pure gli stipendi, e tanti auguri ai 13 mila dipendenti. Nemmeno un euro, poi, per i fornitori che, ormai senza pazienza, aspettano i pagamenti.

La cassa è vuota, strangolata dai ritardi del Tesoro nel versare il malloppo pubblico, 1,6 miliardi di euro raccolti con l’abbonamento: consumata la metà, mancano 800 milioni. A settembre avevano promesso 400 milioni, poi rinviati in tre comode rate a ottobre; adesso per l’assegno finale di 400 milioni dicono dicembre: se slittano di due settimane, addio retribuzioni (un macigno da 80 milioni di euro al mese). La Rai ripara il pallone sgonfio con cuciture improvvisate. Più passa il tempo, più il buco s’allarga. Ecco, l’ennesimo palliativo: un prestito di 80 milioni di euro per gentile concessione di Bei, la Banca europea per gli investimenti. La rete per diffondere il segnale del servizio pubblico – antenne, piloni, ferro – è l’unica proprietà di viale Mazzini.

Dilapidato il patrimonio culturale, povero di contenuti e ricco di contenitori, l’azienda mostra le strutture di Raiway con l’illusione di chi, finito in disgrazia, cerca di salvarsi svendendo l’eredità. Raiway vale un miliardo di euro, estrema garanzia per chiedere o trovare soldi. Alessandro Penati, economista della Cattolica, intravede nuvoloni minacciosi su viale Mazzini: “Quando sei disposto a cedere il bene più solido e prezioso, significa che sei in corsa verso il fallimento e cerchi di mascherare il debito. La Rai può smobilitare Raiway, ma poi deve noleggiare le frequenze per andare in onda oppure vogliono chiudere le televisioni?”.

Nel bilancio 2011 i debiti consolidati superano i 350 milioni di euro. Il peggio è dietro l’angolo: nel 2012, per resistere sul mercato, la Rai deve comprare i diritti per le Olimpiadi e l’Europeo di calcio, una botta di 140 milioni di euro. Dove cercare 140 milioni di euro senza aumentare i 350 milioni di esposizione bancaria? Non con la pubblicità. La concessionaria Sipra ha raccolto 980 milioni di euro (50 in meno che nel 2010), e le previsioni sono pessime: “L’anno prossimo dovremo fronteggiare il calo di ascolti e la prevedibile crisi finanziaria, qualsiasi stima è troppo ottimistica”, spiegano fonti qualificate di Sipra. Dicembre sarà il primo esame di stabilità, ancora più dura sarà tra gennaio e marzo. Senza canone e senza tesoretti.

Sei anni fa, mica nel dopoguerra, la Rai era un’azienda sana. Il passaggio al digitale terrestre, una manna per Mediaset e una condanna per viale Mazzini, è costato 500 milioni di euro, soltanto il governo Prodi ha contribuito con 58 milioni di euro, Silvio Berlusconi ha pensato bene di non aggiungere. In Gran Bretagna per assorbire le nuove spese, la Bbc ha aumentato il canone di 20 sterline. Qui scherzano con le diffide: il Consiglio di amministrazione ha intimato al ministero dello Sviluppo di pagare 1,3 miliardi di euro per onorare il contratto di servizio (quel documento che giustifica la tassa chiamata canone, che però non copre i costi di quelle trasmissioni qualificate come “servizio pubblico”). Sai che paura, avrà detto il ministro Paolo Romani.

Senza sparare cifre colossali, seppur legittime, la Rai poteva confermare l’accordo con Sky per trasmettere sul satellite, 350 milioni di euro in 7 anni sdegnosamente rifiutati dall’ex direttore generale, Mauro Masi. Bellissimi quei 13 canali di offerta gratuita, anche inutili però: nessun inserzionista sgomita per piazzare un prodotto a Rai 5 o Rai Gulp. Guai a toccare l’appalto, ogni anno benedetto: 224 milioni di euro per società esterne, 200 milioni per le serie televisive; profumati contanti per imprenditori che vengono, incassano e salutano, che sia un successo o un disastro. Dentro, il nulla: “La Rai si costruisce fuori, non nei suoi studi – commenta il professor Penati – . Non può vantare una scuola per sceneggiature o varietà, né marchi né autori. Logico che finisci con i creditori che ti circondano, e devi tranquillizzarli subito perché altrimenti sei spacciato. Mi ricorda un po’ la logica del San Raffaele di Milano che rinviava i pagamenti ai fornitori, fin quando ha portato i libri contabili in tribunale”. La soluzione non è vendere: “Chi acquista un’automobile vecchia e rotta con pochi pregi e tanti difetti? La Rai ha due strade: o taglia i costi del 30 per cento o morirà per rinascere male come Alitalia con i soliti salvatori della patria”. E i cittadini costretti a svenarsi ancora.


Gasparri a Bologna difende il latitante Lavitola. “Cerchiamo di capire se ha violato la legge”. - di David Marceddu




Il capogruppo in Senato del Pdl poi attacca i magistrati anche sui fatti di Roma: “Se per individuare gli estremisti che hanno messo a ferro e fuoco Roma avessero fatto 5 mila intercettazioni, e non 100 mila come hanno fatto per le cene di Berlusconi, si saprebbero molte cose di più”.
Valter Lavitola? “È coinvolto in mille problemi, mille indagini, ma potrebbe essere una qualunque persona che intrattiene rapporti internazionali e attività economiche in varie parti del mondo”. Parole di Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato del Popolo della libertà, oggi in visita a Bologna dove si è svolto un incontro con gli iscritti al partito.
Alla domanda de ilfattoquotidiano.it su cosa pensasse di quanto sta emergendo riguardo agli incontri nel 2009 tra il ministro degli Esteri, Franco Frattini e il faccendiere appena dichiarato latitante dalla procura di Bari, Gasparri prima dice che comunque il suo collega di governo “dovrà chiarire e spiegare”, anche se “non ci sarebbe stato alcun incontro ufficiale a cui avrebbe partecipato questa persona”. Poi il capo dei senatori del Pdl cerca di buttare acqua sul fuoco sulla figura di Lavitola: “Prima cerchiamo di capire chi sono le persone e se hanno violato la legge”. La difesa di Gasparri arriva due giorni dopo che lo stesso Frattini in una nota aveva espresso “forte rammarico per un fatto che certamente non si sarebbe verificato se all’epoca si fosse saputo dell’esistenza di vicende poco chiare intorno alla persona del dottor Lavitola”.
Il tema della giustizia del resto è stato il leit motiv di quasi tutta la trasferta bolognese dell’ex ministro delle telecomunicazioni. Durante il suo discorso di 40 minuti il tema della giustizia e “dell’accanimento giudiziario” nei confronti del suo premier ne ruba almeno 20. Prima se la prende proprio con la procura di Napoli che per prima aveva indagato sul caso Lavitola-Tarantini-Berlusconi a settembre scorso. “Il procuratore Lepore – ha detto Gasparri – con tutti i problemi che ha la città, questa estate stava tutte le sere in tv, per impicciarsi di fatti che non erano avvenuti a Napoli”. Poi Gasparri prova a buttarla sui black block: “Se per individuare gli estremisti che hanno messo a ferro e fuoco Roma avessero fatto 5 mila intercettazioni, e non 100 mila come hanno fatto per le cene di Berlusconi, si saprebbero molte cose di più”.
Poi Gasparri rievoca il caso Penati, che ha travolto l’ex presidente della Provincia di Milano: “L’altro giorno la procura ha detto che non deve essere arrestato. La magistratura usa i guanti bianchi solo con gli indagati rossi. Questo è un paese dove c’è una omertà a favore della sinistra, altro che strapotere dell’informazione a favore della sinistra”, ha detto l’ex ministro Gasparri, proprio colui che ha dato il nome alla più importante riforma berlusconiana delle telecomunicazioni.
La sala, dove un centinaio di persone (e tanti posti vuoti) assistono il dirigente berlusconiano, non ha però modo di sentire ricette per l’economia o strategie politiche. Oltre alle arringhe difensive di Gasparri a favore del presidente del Consiglio, il passaggio politico più interessante è quello in cui il senatore pidiellino scongiura il ritorno sinistra al potere: “Certo, facciamo fatica in questo momento dell’economia. Ma se avessimo seguito le ricette di Pierluigi Bersani saremmo tuttimorti di fame. Sono dei pericolosi somari in economia”. Altra sortita politica è stata la stoccata al suo ex segretario in Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini: “Noi siamo rimasti coerenti altri hanno seguito la strada dell’avventurismo”. Ormai da anni la fedeltà di Maurizio Gasparri (e la sua difesa d’Ufficio) è tutta per un’altra persona.

Le pressioni di Lavitola su Frattini per l’amico dilpomatico


In una mail del 2011, il faccendiere amico di Berlusconi chiede al ministro degli Esteri la promozione dell'attuale ambasciatore italiano di Panama. La Farnesina si difende: "Non gli abbiamo mai risposta".
“Caro Franco, per piacere hai notizie della promozione dell’Ambasciatore Curcio? Ti abbraccio Valter”. Non ci sarebbe nulla di strano in una lettera così: sarebbe una comune richiesta di informazioni che somiglia a una raccomandazione, come se ne fanno tante al ministero. Se non fosse per il mittente, Valter Lavitola, attualmente latitante a Panama, e per il destinatario: Franco Frattini. È da giorni che il ministro degli Esteri prova a prendere le distanze da Lavitola: sorpreso in una fotografia durante un incontro con il ministro albanese in compagnia di Lavitola, ha dichiarato “Allora nessuno immaginava chi fosse, nel senso che non si parlava di affari illeciti e di indagini. Era lì come tante altre persone e se non ricordo male conosceva il ministro albanese assai prima di quando lo conoscessi io”. Insomma Lavitola era presente all’incontro del novembre 2009 alla Farnesina perché amico del ministro albanese e non perché aveva tampinato la segretaria di Frattini per essere presente.

Purtroppo per Frattini Il Fatto ha rintracciato una mail inviatagli dall’amico Valter un anno e mezzo dopo, alle 17,44 del 24 febbraio 2011. E in quella data Lavitola non era certo uno sconosciuto: era stato protagonista della rocambolesca acquisizione della lettera del ministro dell’isola di Saint Lucia che metteva nei guai Gianfranco Fini.

A rendere imbarazzante la mail non c’è solo il tono, ma anche il contenuto. Il terzo uomo della mail, quello per cui Lavitola chiede della promozione, è Giancarlo Maria Curcio, attuale ambasciatore di Panama. Lavitola si interessa della sua promozione. Curcio era stato appena nominato ambasciatore a Panama, ma nella carriera diplomatica era rimasto fermo al grado di Consigliere di ambasciata. Il suo nome era tra i promuovibili al rango di “ministro” e Lavitola tifava per lui. Dal tono della mail sembrerebbe che la questione fosse nota a Frattini.

Al Fatto la Farnesina, informata della mail, prima smentisce e poi precisa che “anche se ricevuta, (la mail, ndr), non è stata data risposta a Lavitola”. Quindi la segnalazione c’è, ma secondo la Farnesina a vuoto: “Curcio non è stato né proposto per la promozione a ministro plenipotenziario né promosso”. E comunque, prosegue la nota, “Lavitola in quel periodo non era indagato”. Lavitola non ci riesce ma ci prova e che il suo tentativo sia andato a vuoto lo scopriamo solo oggi. E scopriamo anche che l’ambasciatore Curcio si occupa attivamente degli affari panamensi degli imprenditori italiani che interessano a Lavitola.

Il Fatto ha pubblicato alcuni giorni fa un documento interno del Governo panamense nel quale si preventiva una spesa di 112 milioni di euro per costruire 4 carceri. I penitenziari dovevano essere costruiti da un consorzio legato a Lavitola. Sei mesi dopo l’interessamento di Valter per Curcio, l’ambasciatore scrive a Palazzo Chigi. Il Fatto ha visionato una mail del 2 agosto 2011, da Curcio a Luigi Maccotta, direttore centrale per l’America Latina del ministero e a MassimilianoMazzanti, che a Palazzo Chigi è lo sherpa del G20 competente per America. In copia l’addetto commerciale all’ambasciata di Panama. Curcio riferisce di avere ricevuto una telefonata del presidente panamense Martinelli il quale è furioso, perché Berlusconi non mantiene le promesse. Martinelli attende la costruzione di un ospedale pediatrico a Veraguas e la consegna di quattro motovedette alla Marina panamense. Curcio nella sua mail spiega quali sono i rischi: “La telefonata è da mettere in relazione ad alcuni contatti per cercare di sbloccare la questione della realizzazione delle carceri modulari dell’azienda italiana Svenmark”. La “questione delle carceri”, aggiunge Curcio, è già prevista dal Memorandum d’Intesa firmato da Martinelli e Berlusconi, ma il presidente panamense, irritato per la mancata consegna delle navi e dell’ospedale, non vuole saperne. Prosegue Curcio: “Sarebbe oltre modo opportuno un urgente contatto del Presidente Berlusconi con il Presidente Martinelli per cercare di rasserenare gli animi”.

Curcio quindi chiede a Berlusconi di intervenire per ridefinire gli impegni in favore dell’impresa che deve fare le carceri: la Svemark. E di chi è il consorzio Svemark? Come il Fatto ha già raccontato tra i suoi soci figura, oltre al ligure Paolo Passalacqua con la sua Precetti, anche l’imprenditore romano Angelo Capriotti, che fa affari con Lavitola e ha assunto la moglie di Giampaolo Tarantini. Insomma Curcio sta muovendo i massimi livelli della nostra diplomazia anche nell’interesse dell’amico di Valter, amico del “caro Franco”.

di Francesca Biagiotti e Antonio Massari


Come è stata svenduta l’Italia. di Antonella Randazzo.




Era il 1992, all'improvviso un'intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant'anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. 
Cos'era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali?
Mentre l'attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. 
Con l'uragano di "Tangentopoli" gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l'Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d'Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata "privatizzazione".
Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L'allora Ministro degli Interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l'uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal Ministro degli Interni. L'attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante.
Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.
Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: "Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi".
Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il "nuovo corso" degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993.
Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della "strategia della tensione", e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un'autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un'altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un'autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone. I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse "colpire le opere d'arte nazionali", ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle "menti più fini dei mafiosi".[1]
Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull'economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria.
Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia: "la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri", Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: "non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste".[2] 
I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: "Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm".[3]
Anche il Pubblico Ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: "Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti".[4] 
Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo.[5]
Che gli assassini di capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. 
Il Ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: "Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana".[6] Lo stesso presidente del consiglio Amato, durante una visita a Monaco, disse: "Falcone è stato ucciso a Palermo ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove".  
Probabilmente, le tecniche d'indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell'anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell'onestà e dell'assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale La Repubblica: "Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato".[7] 
L'omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell'élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, Procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: "Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura... Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi... è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove".[8] 
Infatti, quell'anno gli italiani capirono che c'era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all'élite che coordina le mafie internazionali.
Quell'anno l'élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l'Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.
Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c'era in atto un'operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: "Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso:  delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona".[9]
Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: "Bisogna stare attenti, molto attenti... Ho parlato del vecchio piano di rinascita democratica di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione... Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale. Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est... Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche".[10] 
Anni dopo, l'ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: "Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leaders dei partiti di governo".
Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c'erano alcuni appartenenti all'élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers).
In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d'Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell'Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell'Iri Riccardo Galli.Gli intrighi decisi sulla Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c'erano la Buitonila Locatellila Negronila Ferrarellela Perugina ela Galbani. 
La stampa martellava su "Mani pulite", facendo intendere che da quell'evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.
Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell'Italia. Infatti, Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers.
Appena salito al potere, Amato trasformò gli Enti statali in Società per Azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l'élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. 
L'inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che, come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare  la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell'élite. L'incarico di far crollare l'economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. 
Soros ebbe l'incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall'élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli hedge funds per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.
Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull'Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d'Italia. C'erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell'élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d'Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest'ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l'Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell'Europa e dell'Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.
In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul Financial Times, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L'accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani.
La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà:  
Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell'economia produttiva e l'esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l'Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico.[11]
Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell'ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un'inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L'attacco speculativo di Soros, gli aveva permesso di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l'attacco, l'allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. 
Su Soros indagarono le Procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d'Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.
Spiegano il Presidente e il segretario generale del "Movimento Internazionale per i Diritti Civili - Solidarietà", durante l'esposto contro Soros:
È stata... annotata nel 1992 l 'esistenza... di un contatto molto stretto e particolare del sig. Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell'apparato della Banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria "Goldman Sachs & co." come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il sig. Soros conta sulla strettissima collaborazione del sig. Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della "Albertini e co. SIM" di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del "Quantum Fund" di Soros.
III. L'attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht "Britannia" della regina Elisabetta II d'Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell'industria di stato italiana. A seguito dell'attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell'economia nazionale e dell'occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all'incontro del Britannia avevano già ottenuto l'autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L'agenzia stampa EIR (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l'intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione.[12]
I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l'allora Direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l'allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all'allora capo del governo Giuliano Amato e al Direttore Generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. 
Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la "necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo", pur sapendo che l'Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. 
Gli attacchi all'economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico- finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell'élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il Presidente del Consiglio Lamberto Dini disse:
I mercati valutari e le borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo... è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell'unificazione monetaria.[13]
Il giorno dopo, il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, riferiva che l'Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché "se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco". 
Le nostre autorità denunciavano il potere dell'élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell'élite anglo-americana.
Il Movimento Solidarietà fu l'unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell'economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato.[14] 
Il 6 novembre 1993, l 'allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare "le procedure relative al delitto previsto all'art. 501 del codice penale ("Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio"), considerato nell'ipotesi delle aggravanti in esso contenute". Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende.
Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. 
Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell'elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una S.p.a. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio.
Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva "risanare il bilancio pubblico", ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti ProveraPirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).
Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani.
Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell'élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l'acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell'ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche., e al Ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. 
Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank
Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell'élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers,  si fecero avanti per attuare un'opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l'Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L'Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno.
Il titolo, che durante l'opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.   
Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla J. P. Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit).
Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. 
La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. 
La Telecom , come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all'interno società con sede alle isole Cayman, che, com'è noto, sono un paradiso fiscale.
Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull'esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. 
Mettere un'azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com'è emerso negli ultimi anni.
Anche per le altre privatizzazioni, Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia ecc., si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. 
La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l'onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. 
I Benetton hanno incassato un bel po' di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, Ministro delle Infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell'Unione Europea e alla politica del Presidente del Consiglio.
Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. 
La società Trenitalia è stata portata sull'orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c'è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l 'amministratore delegato di Trenitalia,Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione Lavori Pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell'ottobre del 2006, il Ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un'azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.
Dietro tutto questo c'era l'élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild ecc.) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell'economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il  controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E' simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: "Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom".[15]Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie ("Bond") con un alto margine di rischio. La Parmalat emise Bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative, e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.
Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l'agenzia di rating, Standard & Poor's, si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. 
I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale S.p.a. (società della famiglia Tanzi), Citigroup, Inc. (società finanziaria americana), Buconero LLC (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche SpA (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton S.p.a. (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat S.p.a.).
La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I "Partners" non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise Bond per circa 1.125 milioni di Euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza. Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all'élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. 
Agli italiani venne dato il contentino di "Mani Pulite", che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere.
A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. 
Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come "autorevoli" (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell'interesse di questa élite, e non in quello del paese.
Antonella Randazzo ha scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943, (Kaos Edizioni, 2006); La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell'era dell'egemonia Usa (Zambon Editore 2007) e Dittature. La Storia Occulta (Edizione Il Nuovo Mondo, 2007). 
[1] http://www.reti-invisibili.net/georgofili/ 
[2] La Repubblica , 27 maggio 1992.
[3] La Repubblica , 28 maggio 1992.
[4] La Repubblica , 10 giugno 1992.
[5] La Repubblica , 23 giugno 1992.
[6] La Repubblica , 23 giugno 1992.
[7] La Repubblica , 25 giugno 1992. 
[8] La Repubblica , 27 maggio 1992.
[9] La Repubblica , 11 agosto 1992.
[10] L'Unità, 12 agosto 1992.
[11] Solidarietà, anno IV n. 1, febbraio 1996.
[12] Esposto della Magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al Procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995. 
[13] Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica , Rivista N. 4 gennaio-aprile 1996.
[14] Solidarietà, anno 1, n. 1, ottobre 1993.
[15] La Repubblica , 5 settembre 1999.

http://www.disinformazione.it/svendita_italia2.htm