giovedì 19 gennaio 2012

Palermo, «capitale» senza speranza. Ora impugna i forconi.

La protesta del «Movimento dei forconi»
La protesta del «Movimento dei forconi»

La caccia ai politici e la cronaca di un fallimento.

PALERMO — Palermo è fallita. E non per i debiti. Per la mancanza di prospettive, di speranze. Restano rabbia e dolore, cui un capopopolo scaltro e disperato ha dato un simbolo: i forconi.
Prendiamo il sindaco, Diego Cammarata, che si è dimesso lunedì scorso. Ha governato per dieci anni la quinta città italiana, la capitale di un’isola-nazione conosciuta nel mondo intero, e nessuno se n’è accorto. Sui quotidiani nazionali finì solo quando Striscia intervistò il dipendente pagato dal Comune per tenergli la barca.
Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranzaUna città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza
«Il peggior sindaco di tutti i tempi» ha sentenziato il presidente della Regione, Lombardo. Ma no, Cammarata non è stato neppure il peggiore. Semplicemente, non è stato. Fu eletto in quanto famiglio di Micciché, famiglio di Dell’Utri, famiglio di Berlusconi. «Nuddu ammiscatu cu’ nenti» lo definisce un ambulante al mercato del Capo: il Nulla. Poi ride spalancando la bocca sdentata.
La prima azienda è la Regione: 28 mila dipendenti, precari compresi. La seconda è il Comune: 19 mila. Un apparato produttivo da Nord Africa, costi burocratici da Nord Europa. La Palermo del 2012 ha angoli di bellezza struggente e altri da Terzo Mondo. Impossibile restituire con le parole l’incanto dei mosaici della Cappella Palatina appena restaurati; poi esci, entri nei vicoli, e a duecento metri dalla sede del Parlamento più antico e più pagato al mondo ti inoltri tra le macerie dei bombardamenti del ‘43, entri in una stalla con abbeveratoio, biada e tutto, cammini su selciati da asfaltare, avanzi a zigzag per evitare l’immondizia. Oggi la città è strozzata da una nuova emergenza: la jacquerie, la rivolta spontanea, senza partiti né sindacati, che ha preso il nome immaginifico di «Movimento dei forconi» e firma comunicati come questo, scritto tutto maiuscolo:
«È INIZIATA LA RIVOLUZIONE IN SICILIA! STANOTTE TUTTI I TIR AI PRESIDI! GRIDIAMO FORTE L’INDIGNAZIONE CONTRO UNA CLASSE POLITICA DI NEPOTISTI E LADRONI! ».
Sono camionisti, contadini, pescatori. Bloccano i rifornimenti alla città: vuoti e quindi chiusi i distributori di benzina, nei supermercati cominciano a mancare frutta e verdura. Ce l’hanno con tutti, da Lombardo a Sarkozy, da Cammarata alla Merkel, con Roma e con Bruxelles. I camionisti, molti con il ritratto di Padre Pio sul cruscotto, chiedono aiuti per il gasolio. I contadini vogliono più controlli sui prodotti stranieri e più sussidi per i propri: «Vendiamo il grano a 23 centesimi il chilo, paghiamo il pane a 3 euro e 50». I pescatori hanno occupato l’ingresso del porto per denunciare che le norme europee impediscono il lavoro, il pescespada è specie protetta, il novellame neanche a parlarne, «intanto i giapponesi che avrebbero due oceani a disposizione vengono qui a pescarci sotto gli occhi il tonno migliore». Il capopopolo che si è inventato il logo si chiama Martino Morsello, ha 57 anni, gira con un forcone di legno in pugno e firma mail come questa:
«IL SISTEMA ISTITUZIONALE È AL COLLASSO! I POLITICI RUBANO A DOPPIE MANI, E LO STESSO FANNO I BUROCRATI. LA RIVOLTA DEI SICILIANI È NECESSARIA E URGENTE. A MORTE QUESTA CLASSE POLITICA COME SI È FATTO CONTRO I FRANCESI CON IL VESPRO!».
Anche se su Facebook lancia proclami sanguinosi, nella realtà Morsello è un ex assessore socialista di Marsala, fondatore di un allevamento di orate finito male. Vive in camper con la moglie. Tre figli, tutti disoccupati. Esposti al prefetto e processi in corso contro le banche e la Serit, versione isolana di Equitalia. Una passione per la storia siciliana, in particolare per le rivolte che, sostiene, scoppiano quasi sempre tra gennaio e marzo: i Vespri appunto, ma anche i Fasci siciliani. «Nel 1893 qui vicino, a Caltavuturo, cinquecento contadini che avevano occupato le terre furono attaccati dai carabinieri. Tredici morti. Esplose una rivolta nazionale. E sa che giorno era? Il 20 gennaio! Oggi in Sicilia, domani in Italia!». Boato dei camionisti del presidio. I carabinieri li guardano con aria interrogativa. Sul camper c’è anche Rossella Accardo, vedova del capocantiere Antonio Maiorana, madre di Stefano, entrambi scomparsi, forse uccisi dalla mafia. L’altro figlio, Marco, è caduto dal settimo piano, non si sa come. Ecco l’ultimo proclama:
«NELLE PROSSIME ORE I MANIFESTANTI AGIRANNO CON MANIERE FORTI PER CHIEDERE AL GOVERNO REGIONALE I PROVVEDIMENTI ADEGUATI. IL 70% DEL COSTO DEL CARBURANTE È TASSA CHE ALIMENTA GLI STIPENDI DI POLITICI CORROTTI E MAFIOSI. LA RIVOLTA DIVENTERA’ NAZIONALE».
Ai blocchi sono partite le prime coltellate, un venditore ambulante di carciofi ha sfregiato un camionista. Più che i forconi, la Palermo borghese teme però gli ex carcerati della Gesip, la società che riunisce le cooperative sociali: duemila dipendenti, molti reduci dall’Ucciardone, che finora campavano di lavori socialmente utili. I soldi finiscono a marzo, loro minacciano di «mettere la città a ferro e a fuoco». L’espressione in questi giorni si spreca, ma loro hanno già mostrato di intenderla alla lettera, incendiando i cassonetti dei rifiuti che l’Amia fatica a smaltire: dopo i fasti delle consulenze d’oro e dei funzionari in vacanza a Dubai, la municipalizzata è inmano a tre commissari e sull’orlo del fallimento. L’Amat, l’azienda dei trasporti, attende 140 milioni dal Comune e da tempo non garantisce la revisione dei bus, come segnala la velenosa nuvola nera che si alza a ogni fermata come dalla coda di uno scorpione. La linea di pullman per l’aeroporto ha gasolio per una sola settimana. I tassisti non lavorano. Pure il museo di arte contemporanea, nuovo di zecca, è già a rischio chiusura.
A quanto ammontino i debiti del Comune non lo sa nessuno, neppure il sindaco dimissionario, che annuncia una ricognizione definitiva. Fino a qualche mese fa, una pezza la metteva il governo Berlusconi. A ogni Finanziaria qualche decina di milioni arrivava, magari per intercessione di Schifani che, come già i Borboni, ogni Natale distribuisce ai poveri il pane con la milza della focacceria San Francesco, marchio esportato in tutta Italia. Ora i soldi sono finiti, la manovra di agosto ha tagliato i contratti, migliaia di precari perderanno anche quei 500 euro al mese che non garantivano futuro, crescita, dignità, ma almeno sopravvivenza. E Morsello col forcone ha buon gioco a dettare alle agenzie:
«IL MOVIMENTO CHIAMA A RACCOLTA TUTTI I SICILIANI PER LIBERARE LA SICILIA DALLA SCHIAVITU’ DI QUESTA CLASSE POLITICA!».
Un’occasione ci sarebbe già a maggio: Palermo elegge il nuovo sindaco. Ma la confusione è massima. Per dire, l’emergente Gaetano Armao, assessore regionale all’Economia, è dato ora come candidato di Pd e Lombardo, ora di Pdl e Udc. In realtà, il centrodestra punta sul rettore dell’università, Roberto Lagalla. Ci proverebbe volentieri pure Ciccio Musotto, ex presidente della Provincia incarcerato per mafia e assolto, figlio di un grande personaggio della Palermo borghese, la pittrice Rosanna, discendente di garibaldini («il Generale è per me persona di famiglia, ho ancora il suo portaocchiali, quando scendeva Craxi a Palermo dovevamo nascondergli i cimeli»). Il Pd, che qui non tocca palla da quindici anni — «la sinistra siciliana è più debole che ai tempi del fascismo» ama dire Calogero Mannino —, si divide tra chi vorrebbe un candidato centrista, appoggiato da Lombardo e Terzo polo, e chi vorrebbe risolvere la questione con le primarie del prossimo 26 febbraio: Rita Borsellino contro il trentenne Davide Faraone, allievo di Matteo Renzi. Poi ci sarebbe Giuseppe Lumia, ex presidente dell’Antimafia. Ma di mafia a Palermo nessuno parla volentieri. Al più, ci si scherza. Come l’albergatrice che racconta: «I clienti stranieri mi chiedono sempre se nel quartiere c’è la mafia. All’inizio rispondevo di no, per tranquillizzarli. Loro però ci restavano malissimo, e uscivano delusi. Ora ho imparato a dire che sì, certo che c’è la mafia. Così escono con l’aria circospetta, strisciando lungo i muri, e si sentono davvero in un altrove».
Un altrove resta Palermo, di cui è giusto denunciare ogni guaio ma anche ricordare la commovente bellezza, gli stucchi del Serpotta più elaborati di quelli di Versailles, i fregi liberty del Basile degni dell’art nouveau parigina. Una terra da sempre produttrice di miti, oggi inaridita. Ci sarebbe Camilleri, che però ha quasi novant’anni e da sessanta vive a Roma; qui non tutti lo amano, se Lombardo lo voleva assessore Micciché lo definì «grandissimo nemico, prezzolato ideologico, assassino del Polo». Più che da miti, Palermo sembra abitata da fantasmi. La grande editrice Elvira Sellerio. I grandi preti: il cardinale Pappalardo, che si ritirò a contemplare la città dall’alto dell’eremo, e padre Pintacuda, che salì sulla montagna di fronte, nel Castello Utveggio, a dirigere per conto di Forza Italia il centro studi della Regione. Anime morte, come don Turturro, cugino dell’attore americano, il parroco antimafia che faceva innamorare popolane devote e giornaliste straniere: condannato per pedofilia.
Dal carcere sono usciti i killer del dodicenne Di Matteo sciolto nell’acido, ed è entrato—lontano, a Roma—Totò Cuffaro, cui non è bastato collezionare crocefissi, santi, ritratti di don Bosco e immagini della Bedda Madri (dell’Atto di affidamento della Sicilia al Cuore Immacolato di Maria stampò un milione di copie, «e le assicuro che l’Atto funziona, lo sa che abbiamo avuto due terremoti senza un solo morto?»). Dal carcere è uscito Mannino — «al terzo mese cominciai a pisciare sangue» —, dopo anni di processi per stabilire se il suo soprannome fosse Lillo, come lo chiamano i parenti, o Caliddu, come dicevano i pentiti. Leoluca Orlando, che vorrebbe candidarsi a sindaco per l’ennesima volta, colleziona invece nella sua villa liberty statuette di elefanti e ceramiche Florio («il massimo sarebbe un elefante in ceramica Florio. Lo cerco da sempre. Mai trovato»). Sotto la camicia, porta una mano di Fatima e la piastrina che lo certifica come affetto dalla sindrome di Kartagener, «siamo in quattro in tutto il mondo, stampati al contrario, il cuore a destra il fegato a sinistra». Ma in tutto il mondo non si trova una città come questa, nel bene e nel male.
Palermo (pan-ormos: tutto porto) è città madre, tonda, avvolgente, che accoglie ogni cosa come in un abbraccio, e ogni cosa racchiude: i mosaici come a Bisanzio, i suq come a Fes; il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis è più bello di qualsiasi danza macabra germanica; nella chiesa della Catena, gotico catalano, sembra di essere a Barcellona; San Domenico, barocco coloniale spagnolo, pare Cuzco. All’apparenza basta a se stessa, i calabresi disprezzati, i napoletani ignorati, i padani compatiti. In realtà, è figura dell’intero Paese.
Di una città come Palermo, di una Palermo risanata, l’Italia ha bisogno. Oggi si impugnano i forconi e si grida di rabbia; domani una soluzione si deve cercare. Perché non possiamo dire: se la cavi da sola. Se Palermo fallisce per sempre, è un fallimento nostro.

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