sabato 10 marzo 2012

Dell’Utri, sua onnipresenza. - di Peter Gomez



Filippo Alberto Rapisarda, l’amico del vecchio capo dei capi, Stefano Bontade, interruppe il suo discorso e, rivolgendosi al giovane cronista, chiese: “Ma lei conosce il dottor Dell’Utri?”. Subito dopo il discusso finanziere siciliano, con alle spalle una fedina penale alta qualche centimetro e una latitanza in Venezuela trascorsa alla corte dei boss Caruana-Cuntrera, si mise a urlare quasi a squarciagola: “Marcellino, Marcellino, Marcellino”. Fu così che Dell’Utri, versione 1989, entrò nella grande sala riunioni da una porticina nascosta tra gli stucchi. Guardò il giornalista e tendendogli la mano disse: “Io la leggo sempre, lei scrive molto bene. Ma sa… l’importante non è solo come si scrive. È importante soprattutto cosa si scrive”.

Ecco se si vuol raccontare davvero chi è Marcello Dell’Utri e la sua quasi infallibile capacità di avere rapporti con le persone sbagliate nel momento sbagliato, si può benissimo partire da qui. Dal palazzo di Rapisarda in via Chiaravalle a Milano, che Dell’Utri riprende a frequentare a partire dal 1988, dopo averci lavorato e vissuto sul finire degli anni Settanta, quando per quasi quattro anni si era allontanato da Silvio Berlusconi.

Un ritorno strano il suo. Ambiguo e carico di misteri, come è stata ambigua e carica di misteri la sua vita, destinata a farlo incappare, come testimone o indagato, in inchieste giudiziarie di ogni tipo: dalle stragi, alla P4, dalla corruzione, ai furbetti del quartierino, dalla frode fiscale, alla mafia e alla ‘ndrangheta. A fargli vestire, al di là dell’esito dei processi, i panni dell’'uomo nero della Seconda Repubblica.

Dell’Utri torna a calcare i pavimenti di via Chiaravalle che, secondo i testimoni, erano stati calpestati da uomini d’onore del calibro di Ugo Martello, Pippo Bono, Vittorio Mangano e, forse, Vito Ciancimino, pochi mesi dopo un esplosivo interrogatorio di Rapisarda. Un lungo verbale del luglio del 1987 in cui il finanziere, in quel momento accusato di bancarotta e mafia (sarà poi prosciolto), sostiene di averlo assunto nelle sue aziende nel 1978, dietro i pressanti consigli di Bontade, del costruttore mafioso Mimmo Teresi e di un loro parente acquisito, Gaetano Cinà, il proprietario di una piccola lavanderia palermitana. “Era molto difficile dire di no a Cinà” ricorda davanti a un magistrato Rapisarda, che poi aggiunge un carico da novanta. Dice di aver un giorno incontrato per caso Bontade e Teresi in piazza Castello a Milano. I due boss, afferma, gli avrebbero domandato un consiglio: “Berlusconi ci ha chiesto 20 miliardi di lire per diventare soci nelle sue televisioni. Secondo te è un buon affare?”.

Dell’Utri non presenta denuncia per calunnia. Incassa, tace e dopo anni di cattivi rapporti, fa la pace con il suo accusatore. Torna a frequentarlo, mentre sua moglie, Miranda Ratti, tiene a battesimo una figlia di Rapisarda. Nel 1992 a chi gli chiederà il perché di questo singolare atteggiamento, risponderà citando un proverbio siciliano: “Non si può tirare un sasso a ogni cane che abbaia”.

Smussare, mediare, alzare la voce solo quando è strettamente necessario, usare spesso frasi e detti della tradizione palermitana, è del resto una caratteristica di Dell’Utri. Così nel 1991, eccolo mentre dice al senatore repubblicano Vincenzo Garraffa, deciso a non versare una grossa somma in nero a Publitalia: “Abbiamo uomini e mezzi per convincerla a pagare”. Poche parole a cui seguirà un incontro tra Garraffa e un boss trapanese che chiede al parlamentare lumi sui problemi insorti “con l’amico Marcello”. Cinque anni dopo ancora una frase destinata, nel suo piccolo, a diventare celebre. Dell’Utri è appena stato ascoltato per 17 ore dalla procura di Palermo che lo accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Uno dei suoi problemi è il legame antico con il boss Mangano, in quel momento detenuto al 41 bis. Ma lui affronta i giornalisti con piglio sicuro: “Mangano? Se fosse libero ci prenderei un caffè”. Poi quando Piero Chiambretti gli chiede “esiste la mafia?”, sorride: “Le risponderò con una frase di Luciano Liggio: se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”.

Insomma quando è in pubblico Dell’Utri dà l’impressione di fare di tutto per mostrarsi a proprio agio nei panni nei dell’uomo nero. E in privato addirittura raddoppia. Nel 2007, mentre il suo processo a Palermo è in corso, intercettando due uomini legati alla cosca Piromalli Molè i carabinieri scoprono che parlano con Dell’Utri, chiedendo aiuti per gli affari e promettendo voti. Intanto l’ex big boss della Banca di Lodi, Gianpiero Fiorani, racconta di avergli versato 100.000 in contanti, attraverso un altro senatore, per ottenere appoggi per la sua banca. Mentre la sorella di un capomafia siciliano latitante in Sud Africa gli telefona proponendogli un incontro. Dell’Utri non si nega. Ha una buona parola per tutti. E continua a far politica e business. Che poi per lui sono una cosa sola. Così nel 2009 di nuovo i carabinieri fotografano una riunione di lavoro. Intorno a un tavolo ci sono lui, il faccendiere Flavio Carboni e due esponenti dell’organizzazione poi ribattezzata P4: Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi. Con loro si discute di soldi e di giustizia. Ci sono appalti legati all’energia eolica da concludere e, secondo, l’accusa nomine al Csm da pilotare, giudici della Corte costituzionale e di Cassazione, da avvicinare.

Perché la linea della palma, come diceva Leonardo Sciascia, sale di un metro all’anno. Ormai ha superato abbondantemente Roma. E Dell’Utri, lo sa. Sciascia lo ha letto. Lui infatti è un uomo colto. Sul fatto.


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