mercoledì 18 aprile 2012

Trattativa, il capo della procura di Palermo: “Fu la ragione di stato di pochi”. - di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza




Francesco Messineo, durante la sua audizione davanti all'Antimafia, ha illustrato la sua visione del dialogo aperto dallo Stato con i boss di Cosa nostra, nell’estate delle stragi siciliane.

Due anni di indagini, di acquisizione di documenti riservati, di interrogatori di vertici istituzionali, di ammissioni di paure, vuoti di memoria, ricordi ad orologeria, imbarazzi, contrasti insanabili, decisioni adottate ”in solitudine”, funzionari indicati dai cappellani e alla fine una certezza: la salvezza di molti in cambio del sacrificio di pochi. E’ questa, con tutta probabilità la logica che ha spinto un pezzo dello Stato a trattare con la mafia nel biennio ‘92-’93 con l’obiettivo di fermare lo stragismo.

Non è la semplice ipotesi di un pentito da quattro soldi, ma il parere autorevole del capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo, che nell’audizione all’Antimafia ha illustrato la sua visione del dialogo aperto dallo Stato con i boss di Cosa nostra, nell’estate delle stragi siciliane. Per spiegare cosa c’è dietro la volontà trattativista delle istituzioni, ha detto Messineo, “si potrebbe parlare di una ragion di stato interpretata da pochi soggetti, secondo loro particolari orientamenti e secondo una loro particolare visione, nell’intento -in sé astrattamente lodevole – di prevenire le stragi’’. Con la trattativa, insomma, irrompe sulla scena politica italiana la ragion di Stato che, nella sua logica meramente utilitaristica, fornisce ai più alti esponenti delle istituzioni una legittimazione sufficiente a giustificare lo scambio attivato con i mafiosi.

Ma come è possibile che dopo l’omicidio Lima, e ancor più dopo la strage di Capaci, la classe politica italiana decida di scendere a patti con Cosa nostra? L’ipotesi della procura di Palermo è che i primi approcci al dialogo con i boss siano nati su input di chi aveva un interesse personale, di chi era più esposto: come l’ex ministro Calogero Mannino, indagato a Palermo per violenza o minaccia a Corpo politico della Stato, che secondo la ricostruzione dei pm si rivolge ai vertici del Ros (Subranni) e al Sisde (Contrada), subito dopo l’omicidio Lima, per sollecitare gli apparati a trovare un contatto con Cosa nostra che potesse fermare la furia omicida di Totò Riina.

Ma la paura di Mannino, e di qualche altro politico minacciato dalla mafia, da sola non sarebbe bastata a provocare il cedimento dell’intero Stato. E’ la strage di Capaci, vissuta dai Palazzi del potere come un attacco frontale al sistema democratico, che fa crollare le difese della Prima Repubblica. La questione della salvaguardia delle istituzioni, da quel momento in poi, non riguarda più solo la sorte di singoli uomini politici, di Mannino, di Andò, di Andreotti, ma l’intero Stato.

La trattativa – spiegano in Procura a Palermo – diventa, a quel punto, per la classe politica italiana, l’unica strada per salvare la democrazia italiana. Se, come dice il collaboratore Giovanni Brusca, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato veramente il ‘’ garante’’ istituzionale della trattativa, e se – come ipotizzano i pm di Palermo – l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso ha revocato il carcere duro a centinaia di boss non ‘’in assoluta solitudine’’ (come dice lui), ma obbedendo alla linea del dialogo voluta in prima persona dall’ex presidente della RepubblicaOscar Luigi Scalfaro, il motivo va ricercato in quella ‘’ragion di Stato’’ che giustifica qualunque crimine, se commesso da un uomo delle istituzioni nel supremo interesse del proprio Paese. Non è la prima volta, del resto, che ciò accade in Italia. La storia dimostra che nell’ 81 per salvare un uomo politico non di primissimo piano come l’assessore regionale Dc della Campania Ciro Cirillo, lo Stato scese a patti con la Camorra.

La Dc dell’epoca optò compatta per la trattativa con i terroristi. Oggi, Mannino, Mancino (entrambi ex Dc), e anche Conso negano risolutamente l’esistenza di un negoziato con i boss. E, prima di morire, pure Scalfaro (scomparso a gennaio scorso) aveva sostenuto davanti ai pm di non aver mai sentito parlare di trattativa. Eppure e’ proprio Scalfaro che interviene personalmente per scegliere il nuovo capo del Dap, Adalberto Capriotti (suo amico personale) dopo l’improvvisa liquidazione di Niccolò Amato (considerato inaffidabile). Un cambio al vertice non certo casuale.

E’ Capriotti, infatti, l’autore della nota che, il 26 giugno del ’93, suggerisce al ministero della Giustizia di non rinnovare il provvedimento in scadenza per il 10 per cento dei detenuti sottoposti al carcere duro, come ‘’segnale di distensione’’. Nessuno, però, oggi è disposto ad ammettere che in quel biennio di sangue, lo Stato trattò con la mafia. ‘’Il problema – riflette il procuratore Messineo nella sua audizione a palazzo San Macuto- è che si tratta di un fatto estremamente imbarazzante, sia politicamente, che moralmente. Quindi nessuno ammetterebbe mai di aver promosso o partecipato ad una trattativa, non tanto perche’ la cosa potrebbe refluire in responsabilita’ penali, ma soprattutto per l’ovvio motivo che aver fatto una cosa del genere eticamente non e’ il massimo’’. Eppure e’ proprio quello che e’ successo: a pochi mesi dall’uccisione di Falcone e Borsellino, le istituzioni ai massimi livelli si piegarono al ricatto mafioso. Nell’illusione di salvare la democrazia. ‘’La ragion di Stato – conclude Messineo – puo’ essere invocata in questo senso: la salvezza dei molti in cambio del sacrificio di alcuni elementi e di alcuni valori etici’’.

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