lunedì 16 luglio 2012

La Procura di Milano intercettò Scalfaro, ma dal Quirinale nessuna iniziativa. - Giovanna Trinchella

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Era il febbraio del 1997 quando scoppiò il caso dell'intercettazione delll'allora presidente della Repubblica. ''Il Giornale'' pubblicò il testo di un colloquio tra il capo dello Stato e un banchiere. Alle varie interpellanze rispose l'allora ministro della Giustizia Flick e il Csm archiviò la pratica aperta su ordine del Plenum.

Era il febbraio del 1997 quando scoppiò il caso dell’intercettazione delll’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il 27 febbraio ”Il Giornale” pubblicò il testo di un colloquio, registrato dalla Guardia di Finanza il 12 novembre 1993 tra il  capo dello Stato e l’allora amministratore delegato della banca popolare di Novara, Carlo Piantanida. La conversazione era stata depositata agli atti dell’inchiesta per la bancarotta della finanziaria svizzera Sasea, a Milano, che faceva capo a Florio Fiorini. Il finanziere, coinvolto in diverse inchieste dell’epoca di Mani Pulite, presentò un esposto nel quale si accusava il pm di Milano Luigi Orsi proprio per non aver proceduto nei confronti di Scalfaro. Ma dal Quirinale, però, non arrivò nessuna iniziativa, nessuna lamentela e soprattutto nessun conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte Costituzionale. 
Il caso Scalfaro. E sì che Scalfaro al telefono conversava con Carlo Piantanida, ex amministratore delegato della banca Popolare di Novara (città natale dell’ex presidente, ndr) di un “ricambio” al vertice della banca dopo una conversazione con il “governatore”, presumibilmente di Bankitalia. Parole prive di qualsiasi “rilevanza penale” come disse l’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borelli rispondendo agli attacchi politici e anche alle diverse interpellanze parlamentari, una delle quali presentata dall’ex inquilino del Quirinale Francesco Cossiga. Alle interpellanze risposero al Senato (di cui era presidente Nicola Mancino) il premier Romano Prodi e il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. Sul caso erano intervenuti anche i consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, di cui il presidente della Repubblica è capo, Franco Fumagalli e Gianvittorio Gabri (laici ex Lega), chiedendo un’indagine del consiglio sul perché il contenuto di quella conversazione non fosse stato distrutto, ma allegato ad atti pubblici. “E’ spiacevole che il nome del Presidente della Repubblica compaia in una intercettazione, peraltro del tutto legittima, fatta su altra utenza” disse Borrelli, confermando l’irrilevanza penale. 
Per il presidente emerito e senatore a vita Cossiga quell’intercettazione non poteva essere effettuata. Ma non solo; una volta fatta non poteva essere trascritta, né poteva essere depositata agli atti dell’inchiesta. Cossiga chiese all’allora Guardasigilli quali misure intesse “adottare a tutela delle prerogative del presidente della Repubblica poste a protezione della sua indipendenza e libertà fisica, giuridica e morale”.  Una interpellanza alla quale Flick aveva risposto fornendo una spiegazione ambigua: da una parte aveva rimproverato il pool sostenendo che la procedura non era stata “in linea” con il sistema di garanzie assicurate dalla costituzione al presidente della Repubblica (che gode dell’immunità e può essere incriminato solo per alto tradimento, ndr), ma poi aveva osservato che la sua spiegazione a sua affermazione era la conseguenza di una “interpretazione sistematica” della Costituzione che non trovava “riferimenti letterali nei codici”. Insomma risposta aveva messo in evidenza l’esistenza di leggi che non consentivano l’adozione di provvedimenti. Le conclusioni alle quali giunse Flick a Palazzo Madama furono acquisite dalla Commissione del Csm che aveva aperto un’istruttoria – su ordine del Plenum - che fu archiviata.Anche all’epoca era in discussione un disegno di legge materia di intercettazioni telefoniche su cui proprio Flick doveva dare un parere. 
L’intercettazione. Ecco di seguito parte della trascrizione tra Scalfaro e Pintanida. Il presidente non viene nominato o identifica. Il banchiere (P) lo chiama “presidente” o “eccellenza”; le Fiamme gialle, secondo la prassi, “interlocutore” (I).
I: Buonasera, probabilmente sono notizie che voi già avete. Mi ha chiamato il governatore e mi ha detto che ha avuto le relazioni (o che) non so se ha già mandato a dire queste cose. P: No, per ora. I: Indubbiamente la banca, gli hanno scritto nella (parola incomprensibile) ha una sua forza, sarebbe bene pero’ data questa situazione, che non ci fosse, come era stato detto all’inizio, tutto il ’94 P: Ho capito. I: Ma, dice, sarebbe bene che alla prossima scadenza tecnica ci fosse un po’ di ricambio. P: Ho capito. I: Lui parlava di Boroli che prendesse la presidenza e poi dice che lui ha sentito dire che li’ da voi sarebbe ben visto Caletti, io non lo conosco. P: Sì (…) è da inserire con calma però (…) è un giovane. I: Cioè me lo ha detto come dire che…P: C’è bisogno di inserire qualcuno. I: E’ una persona stimata. P: Sì, certo. I: Però ha ripetuto che non mi pare opportuno attendere tutto il ’94, alla prossima scadenza arrivarci più rapidamente. P: Ho capito. I: Io penso che forse varrà la pena di fare una chiacchierata da lui. P: Sono stato convocato per l’altro martedì. I: Ah, va bene (….) P: Io tra l’altro stasera avevo telefonato al Nino per fare sapere che ieri siamo stati interrogati. Direi che è andata bene, cioè credo che abbiano capito la posizione mia e di Venini. Insomma, sembra che le cose si mettano bene. I: Questo potrebbe aiutare forse questo discorso. P: Certo, penso di sì. I: Per una prosecuzione più tranquilla. 
L’interrogazione del senatore Ceccanti. Diversa la lettura dei fati del 1997 da parte del costituzionalista e senatore del Pd, Stefano Ceccanti che ricorda che “nel dibattito parlamentare svoltosi in Senato il 7 marzo ’97 emerge in modo sostanzialmente unanime, a partire da alcune interrogazioni e da un puntuale intervento dell’allora ministro Flick, che intercettazioni anche casuali nei confronti del Presidente della Repubblica siano totalmente illegittime sulla base dell’art. 90 della Costituzione e dell’’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219. Gli articoli 90 e 96 della Costituzione valgono anche per la procura di Palermo”. Per Cennati “la decisione della presidenza della Repubblica a tutela della funzione presidenziale e non di un privilegio personale era a questo punto inevitabile”. “Come chiarito in un’interrogazione parlamentare depositata poco fa insieme al collega Sanna, e rivolta al ministro della Giustizia per conoscere valutazioni ed eventuali iniziative del Governo già l’inchiesta in linea generale, come chiaramente esposto dal professore Onida, rientra nell’ambito dei reati ministeriali  - osserva il senatore – di cui all’articolo 96 della Costituzione, per cui la suddetta Procura avrebbe pertanto dovuto fermarsi ‘omessa ogni indagine’, trasmettendo gli atti al Tribunale dei ministri“. 

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