martedì 31 gennaio 2012

La rimozione dell'Italia. - di Ernesto Galli della Loggia


I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti?

I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti? Questa è la domanda cruciale da qui alla prossima scadenza elettorale, qualunque essa sia.
Rispondere è impossibile essendo troppe le variabili in gioco. Ma di una cosa però mi sentirei sicuro. Che essi non potranno mai riacquistare un senso e un ruolo se nella loro identità politica non tornerà ad avere posto un elemento da troppo tempo assente: e cioè il discorso sull'Italia. Intendo dire la consapevolezza di che cosa è stato ed è il nostro Paese e di quali sono i suoi grandi e sempre attuali problemi: l'antica tensione tra pluralità dei luoghi e dissolvimento localistico, l'abisso multiforme tra Nord e Sud, la perenne e generale scarsa educazione alla legalità e alle virtù civiche, la forza degli interessi, delle corporazioni e delle camarille, sempre pronti a diventare dietro le quinte gli attori concreti di ogni realtà sociale e pubblica. Infine l'egoismo di chi ha e la triste condizione dei troppi che non hanno.
Questa è l'Italia vera con la quale i partiti e le loro culture e i loro programmi dovrebbero sentirsi chiamati a fare i conti. E con la quale per la verità ci fu un tempo in cui cercarono di farli. Accadde all'incirca fin verso gli anni 70-80 del secolo scorso quando ancora tenevano il campo le culture politiche del nostro Novecento: tutte nate, per l'appunto, da un'analisi approfondita della vicenda del Paese, da una radiografia dei suoi problemi, dei suoi vizi e delle sue virtù. Da qui non solo programmi, ma soprattutto un'idea dell'interesse generale della collettività nazionale e di conseguenza una loro ispirazione autentica, e quindi la voglia e la capacità di darle voce venendo presi sul serio.
Ma con la fine della cosiddetta Prima Repubblica le culture politiche del nostro Novecento si sono disintegrate. Qualunque discorso sull'Italia è scomparso dalla vita pubblica italiana. Si è diffusa una sorta di stanchezza per il pensare in generale e magari in grande. Abbiamo provato come una noia, quasi un disgusto, per noi stessi e per una nostra storia che sembrava averci portato solo a Tangentopoli e al grigiore un po' torbido e inconcludente della stagione successiva. È accaduto così che ci siamo buttati a corpo morto sull'Europa. Per quindici anni e più il solo avvenire che è apparso lecito augurare al nostro Paese è stato quello di «entrare» in Europa, o, per restarci, di «avere i conti in ordine», di adottare le sue direttive, di «fare i compiti» a vario titolo assegnatici. Giustissimo, per carità, ma troppo ci è sembrato che a tutto dovesse (e potesse!) pensare l'«Europa»; che nel frattempo, peraltro, stava diventando sempre più evanescente. Troppo ci è sembrato che per essere europei fosse necessario buttarsi dietro le spalle l'Italia e il fardello della sua storia.
Superficialmente persuasi che ormai essa avesse fatto il suo tempo abbiamo guardato con sufficienza alla dimensione statal-nazionale. Non si decideva, tanto, tutto «in Europa»?
L'europeismo è diventato l'ideologia radio-televisiva del potere italiano, il pennacchio di ogni chiacchiera pubblica, il prezzemolo di tutte le minestrine dei Convegni Ambrosetti. Oggi ci accorgiamo che le cose stavano - e soprattutto stanno - un po' diversamente. La crisi paurosa del debito pubblico, e insieme la manifestazione di tutte le nostre innumerevoli inadeguatezza che essa ha causato, ci hanno ricordato, infatti, che esiste una cosa chiamata Italia, e che, ci piaccia o meno, tanta parte della nostra vita individuale e collettiva dipende da essa (e forse è servito a questo ricordo anche il concomitante anniversario della nascita del nostro Stato).
Ora è giunto il momento che se ne accorgano e se ne ricordino pure i partiti. L'origine della loro afasia degli ultimi anni, della loro perdita di senso e dunque di ascolto presso l'opinione pubblica, nasce per tanta parte dall'aver escluso dal loro orizzonte l'Italia e la sua vicenda, la sua realtà più intima. Nasce dall'aver cancellato ogni riflessione, ogni proposta di vasto respiro, ma credibile, capace di tener conto di quella vicenda parlando al cuore, alla mente, ma soprattutto alle speranze degli italiani. Siamo pieni di discorsi su ciò che è fuori dei nostri confini, su dove va il mondo, ma non abbiamo un'idea di dove vada o voglia andare l'Italia. Di che cosa essa debba volere. Nessuno ci dice, non sappiamo, a che cosa essa possa ancora servire. Sono i partiti che devono ricominciare a dircelo. Non ricordo più dove Antonio Gramsci ha scritto che si può essere realmente cosmopoliti solo a patto di avere una patria. Bene: è tempo che la politica, facendo sentire di nuovo la propria voce, torni a parlarci della nostra.

Scalfaro, tre volte Padre della Patria. - di Domenico Gallo






Adesso che è stata consegnata all'eternità, risplende la bellezza dell'avventura umana di Oscar Luigi Scalfaro, un uomo a cui spetta di diritto il riconoscimento di Padre della Patria.
Molti grandi uomini hanno dato il loro contributo nell'assemblea costituente per definire i caratteri universali di quel progetto di democrazia che si è incarnato nella Costituzione ed ha definito il volto ed i caratteri della Patria repubblicana. Scalfaro, giovanissimo magistrato, proiettato nel ruolo di costituente ha respirato, assieme a Calamandrei, Dossetti, Basso, La Pira, Togliatti, Bozzi, Terracini, quell'aria di libertà, di pulizia morale, di risorgimento civile che spirava dalle montagne dove la resistenza aveva testimoniato la fede nell'avvento di un mondo nuovo, liberato per sempre dalle tirannie e dal ricatto della violenza e del terrore. 

A differenza di altri, Scalfaro non ha mai perduto la fede nei valori repubblicani che i padri costituenti hanno donato al popolo italiano ed il destino gli ha dato la possibilità e l'opportunità di difenderli come un leone.
Scalfaro è stato Padre della Patria in quanto ha contribuito ad edificare quella Costituzione che ha dato sostanza e contenuto di Patria alla comunità politica degli italiani.
Dopo aver contribuito al parto della Costituzione, Scalfaro ha svolto un ruolo fondamentale, in due occasioni, per impedire che il patrimonio della democrazia, così faticosamente conquistato, venisse disperso dalle tempeste di vento nero che hanno attraversato l'Italia.

La prima è stata quando, da Presidente della Repubblica, nel 1994/1995, affrontò la crisi conseguente alla caduta del primo governo Berlusconi, che, sebbene dimissionario, in quanto sfiduciato dalle Camere, non aveva alcuna intenzione di abbandonare il potere e pretendeva di punire, mediante lo scioglimento anticipato, il parlamento che gli aveva tolto la fiducia, impedendo che potesse succedergli ogni altro governo. Scalfaro difese in modo fermissimo ed intransigente le prerogative del Parlamento ed avvertì la necessità di un riequilibrio della competizione politica, chiedendo che si ristabilisse la “par condicio” prima di affidarsi nuovamente alle urne. Per questo fu accusato di golpismo da Berlusconi e fu oggetto di una campagna durissima di ingiurie, minacce e pressioni di ogni tipo, con esclusione soltanto dell'aggressione fisica e della defenestrazione. 

Però il cancro del berlusconismo fu estirpato dalla testa delle istituzioni e le elezioni del 1996 diedero la possibilità alle forze democratiche di mantenere aperti gli spazi della democrazia, soffocata dai tentacoli del partito-azienda. 
Ma di fronte alla ignavia dei leaders del Centro-sinistra e di Rifondazione neanche Scalfaro poteva farci nulla. Così nel 2001 Berlusconi riuscì ad impadronirsi del Governo ed a portare avanti il suo progetto di fare la pelle alla Costituzione. Fino al punto che il 16 novembre del 2005 una maggioranza parlamentare, dominata da Forza Italia e dalla Lega, decretò la morte della Costituzione, introducendo un nuovo ordinamento che trasformava la repubblica democratica in un Sultanato.

Nel silenzio della politica e degli sventurati partiti del centro sinistra, Scalfaro si ribellò.
Non poteva accettare che il frutto dei sogni e delle passioni che avevano guidato la mano dei Costituenti, che avevano deposto i sovrani ed avevano consegnato al popolo italiano una promessa perenne di libertà e di giustizia, venisse spazzato via dal vento nero di Arcore. 
Fu a capo del comitato “salviamo la Costituzione” che chiamò a raccolta migliaia di persone. Persone che professavano diverse fedi, che appartenevano a diversi ceti sociali ed esprimevano diversi orientamenti politici, ma tutti si mobilitarono ed accorsero per esercitare l'estrema possibilità di salvare la Repubblica costituzionale costruita in Italia come alternativa storica al fascismo.
Il referendum del giugno del 2006 cancellò l'ignobile riforma e salvò la Costituzione. 

Dopo averla fatta nascere, la sorte ha assegnato a Scalfaro il compito di salvare, quaranta anni dopo quella creatura preziosa, la democrazia costituzionale, per la quale la migliore gioventù europea aveva dato la vita, testimoniando nella resistenza il valore della dignità umana.
Scalfaro ha portato a termine la sua missione con onore e coraggio indomabile. A noi è rimasto il compito di fare tesoro della sua testimonianza e di trasmetterla alle generazioni future.




http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-tre-volte-padre-della-patria/


di Oscar Luigi ScalfaroRiproponiamo tre interventi dell'ex presidente della Repubblica e senatore a vita pubblicati su MicroMega tra il 2001 e il 2003.
SCALFARO  http://temi.repubblica.it/micromega-online/scalfaro-il-senso-dello-stato-e-i-suoi-nemici/ 
SCALFARO La Costituzione presa sul serio

SCALFARO Contro gli equidistanti

E poi:
ZAGREBELSKY Scalfaro, la Costituzione come bandiera
PARDI Scalfaro, un grande difensore della democrazia



http://temi.repubblica.it/micromega-online/

Liste di prescrizione. - di Marco Travaglio.



Le pantomime degli on. avv. Ghedini e Longo al Tribunale di Milano (ricusano i giudici delprocesso Mills che tagliano tre testimoni della difesa; si levano la toga ed escono platealmente dall’aula del processo Ruby perché i giudici non accolgono gli “impedimenti istituzionali” del loro cliente ormai disoccupato) appartengono ormai alla commedia dell’arte. Ma testimoniano anche la stravagante concezione del diritto che regna in Italia da 18 anni, da quando B. entrò in politica per non finire in galera e rispettò scrupolosamente l’impegno. Da allora destra e sinistra si sono scatenate in un centinaio di “riforme della giustizia” che, con la scusa di sveltire i processi, li allungavano per mandarli in prescrizione.

Questa, da “agente patogeno” della giustizia come l’ha definita ieri il presidente della Corte d’appello di Milano Giovanni Canzio, è diventata un diritto acquisito per politici e compari. Ha salvato, negli anni, Andreotti dal processo di Palermo per mafia, poi D’Alema dall’accusa di un finanziamento illecito dall’imprenditore malavitoso Francesco Cavallari, poi B. nei processi Mondadori (corruzione giudiziaria), All Iberian (tangenti a Craxi) e in altri tre per falso in bilancio. E ora lo salverà certamente nel processo Mills (corruzione giudiziaria), non si sa ancora se subito prima o subito dopo la sentenza di primo grado. Alcuni giornali, tipo i suoi, scrivono stravaganze, tipo che il Tribunale calpesterebbe i diritti della difesa per “correre” e arrivare a una condanna purchessia. Il verbo “correre”, per un dibattimento iniziato il 13 marzo 2006 e non ancora giunto alla prima sentenza, è una barzelletta. Qui l’unico che corre è B., ma per scappare. Ora s’è inventato, per giustificare la ricusazione, che i giudici avrebbero “anticipato il giudizio di colpevolezza” escludendo in extremis tre dei suoi testimoni. In realtà i giudici sono liberissimi di tagliare tutti i testi che vogliono quando vogliono, se li ritengono superflui: è probabile che – dopo sei anni di processo e una sentenza di Cassazione che ha già accertato la corruzione di Mills da parte di Fininvest nell’interesse di B. – si siano già fatti un’idea su B. Ma non hanno mai detto quale, dunque la ricusazione non sta né in cielo né in terra.

Come giustamente osserva il vicepresidente del Csm Vietti (ogni tanto ne dice una giusta anche lui), il giudice deve fare di tutto per scongiurare la prescrizione, visto che è pagato per accertare la verità processuale. Ma B. ha un sistema infallibile per far reintrodurre i suoi tre testi, peraltro superflui: rinunciare formalmente alla prescrizione per essere giudicato oltre i termini (da lui stesso accorciati da 15 a 10 anni con l’ex Cirielli). Perché non lo fa? Perché nessuno lo invita a farlo? Un politico accusato di un reato tanto grave non può incassare la prescrizione con mezzucci indecenti,soprattutto se ritiene di essere innocente. Il guaio è che qui, se c’è uno che anticipa la colpevolezza di B., è lo stesso B. Lui sa benissimo di essere colpevole: per questo è tanto sicuro di essere condannato.

Dopo gli appelli di Vietti, di Canzio e del primo presidente della Cassazione, la prescrizione è tornata al centro del dibattito, perché falcidia 160-200 mila reati all’anno. La soluzione è semplicissima: abrogare la Cirielli e allungare la prescrizione (come raccomandano Corte di Strasburgo e Osce), e uniformare il sistema italiano a quello delle democrazie più evolute, dove la prescrizione si ferma al rinvio a giudizio. Ma B. non vuole. Infatti ieri la ministra Severino, farfugliando di “efficienza della giustizia”, ha detto che “la prescrizione non è una priorità”: è quel che pensano anche decine di suoi ex clienti, che la aspettano con ansia per mandare in fumo i loro processi. E Bersani, nell’intervista al Messaggero sulla giustizia, di prescrizione non parla (preferisce attaccare le intercettazioni). Poi chiede agli alleati di smetterla di accusarlo di “inciucio”. Forse potrebbe aiutarli smettendola di inciuciare.



http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/29/liste-di-prescrizione/187309/

L'estremo oltraggio. - di Marco Travaglio.




Scalfaro non rubava. 

Non firmava le leggi incostituzionali (tipo il decreto-spugna Amato-Conso del ‘93). 

Era religioso dunque non clericale. 

Difendeva la Costituzione e l’indipendenza dei magistrati dunque era contro le bicamerali e i conflitti d’interessi. 

Era un intransigente dunque era contro gli inciuci e i “terzismi” paraculi dei berlusconiani travestiti da equidistanti (“chi si dice equidistante fra il ladro e il carabiniere, sta dalla parte del ladro”). 

Per questo non piaceva a B. e ai suoi servi, ma nemmeno ai finti oppositori di sua maestà. E bene ha fatto B. a non dire una parola sulla sua scomparsa, evitando di scegliere tra lo sputo sulla bara e l’ipocrisia dell’elogio postumo. 

Invece Renato Schifani, presidente del Senato, ha molto lacrimato per la dipartita di Scalfaro, che “lascia un vuoto nella politica e nelle Istituzioni carico di tristezza. 

Per chi lo ha conosciuto, per chi ha apprezzato nel corso degli anni il suo impegno a difesa della Costituzione, la ferita della sua scomparsa è particolarmente dolorosa. 

Scalfaro ha caratterizzato con la sua esperienza e la sua dedizione alla cosa pubblica l’intera stagione dell’Italia repubblicana, fornendoci un esempio insostituibile di senso civico. Ha incarnato e presenta ai cittadini di oggi e di domani un’immagine della Repubblica cui tutti teniamo gelosamente: una Repubblica baluardo dei diritti dell’uomo e della pace. 

Desidero ricordarlo, collega tra i colleghi, quando entrava in aula e non faceva mancare il suo contributo nei dibattiti. 

Ciascuno di noi, pur nella difesa delle proprie convinzioni, ascoltava con attenzione e rispetto i suoi interventi che hanno sempre avuto il carattere di un altissimo magistero istituzionale e morale. Con quest’immagine, che porterò sempre affettuosamente con me, desidero ricordarlo”. 

Sempre apprezzato? Ferita dolorosa? Esempio insostituibile e baluardo? Attenzione e rispetto? Gelosamente e affettuosamente? 

Chissà se Schifani conosce quel tale che il 26.9.2002 si scagliò contro Scalfaro, reo di aver definito “servile” la politica estera di B. con Bush: “Se c’è qualcuno che non conosce la democrazia è proprio Scalfaro, visti i suoi precedenti. Scalfaro ha avallato il più grande tradimento della volontà popolare. Ha cambiato la storia d’Italia consentendo che venissero politicamente ingannati i cittadini. 

Non accettiamo lezioni da chi è troppo abituato alle congiure di palazzo, ai ‘non ci sto’ su vicende che sono ancora avvolte da fitte nebbie. 

Il senatore a vita abbia almeno la compiacenza di risparmiarci le sue litanie. 

Lui è l’ultimo che può fare la predica. 
Non ci sono dubbi il senatore Scalfaro sta invecchiando male”. 

Quel tale, autore della solita legge (anzi, “lodo”) per abolire i processi al suo padrone, il 5.6.2003 aggredì Scalfaro che osava opporsi alla porcata: 

“Noi vogliamo tutelare il mandato popolare. Noi non abbiamo bisogno di chiedere un messaggio in diretta tv dicendo ‘io non ci sto, io non ci sto’. 

Un intervento che congelò l’azione penale. Noi il processo lo vogliamo” (Ansa, 5 giugno 2003). 

Scalfaro rispose che il “non ci sto” del ‘93 non congelò alcun processo (poi finito in archiviazione): era una replica alle “accuse che mi erano mosse da due personaggi trovati con le mani nel sacco dei servizi”: i ladroni del Sisde. 

Quel tale il 28.4.2006 insultò Scalfaro che, 87enne e febbricitante, presiedeva il Senato nella maratona notturna per eleggere il nuovo presidente Marini: “Quel che accade al Senato è sconcertante. Il presidente facente funzioni Scalfaro, con un colpo di mano, ha disposto d’autorità il rinvio di una seduta già fissata, per consentire a numerosi parlamentari del centrosinistra di tornare a votare. 
Un atteggiamento gravissimo, che prosegue il vulnus di elezioni già inficiate da irregolarità. Noi lanciamo un allarme, le regole sono state violate”. Il 19.5.2006 Prodi ottenne la fiducia con i voti (non determinanti) dei senatori a vita, tra cui Scalfaro. Allora quel tale propose una legge per togliere il diritto di voto ai senatori a vita. 

Quel tale era Renato Schifani: vergogniamoci per lui.



Evasione fiscale, Befera: 'In primavera maxi controlli su dichiarazioni dei redditi'



Roma - (Adnkronos) - Il direttore della Agenzia delle Entrate in un colloquio con 'La Repubblica': "La lotta all'evasione è uno sforzo titanico, ma comincia a dare i suoi frutti. Nel 2011 abbiamo recuperato 11,6 miliardi". E sottolinea: "Ormai siamo in grado di verificare la posizione di tutti i contribuenti".


Roma, 31 gen. (Adnkronos)- ''La lotta all'evasione e' uno sforzo titanico, ma comincia a dare i suoi frutti. Nel 2011 abbiamo recuperato 11,6 miliardi. Ora, con il controllo dei conti bancari, puo' partire la grande svolta di primavera". Ad annunciarlo e' il direttore della Agenzia delle Entrate Attilio Befera, in un colloquio con 'La Repubblica'. "Ormai siamo in grado di verificare la posizione di tutti i contribuenti. Dopo le dichiarazioni dei redditi di giugno scattera' un'operazione di controlli 'massivi'. La vera lotta agli evasori puo' cominciare davvero". "L'ultima manovra del governo- dice Befera- contiene un driver formidabile per la lotta all'evasione. Ora l'Agenzia delle Entrate ha accesso diretto ai conti correnti bancari.


L'archivio dei depositi da consultare ai fini fiscali lo aveva inventato Visco nel '96: il Parlamento lo ha bloccato per 15 anni, ora Monti l'ha finalmente sbloccato. Per far partire la raccolta dei dati manca solo l'ultimo provvedimento attuativo, che vareremo nei prossimi giorni d'intesa con il Garante della Privacy''. ''Grazie al sistema informatico "Serpico" abbiamo l'incrocio- speiga Befera- con tutti i dati possibili, dalle dichiarazioni Inps ai dati del registro delle imprese. Nel frattempo, stiamo mettendo a punto gli ultimi aggiornamenti al redditometro, che saranno pronti entro fine febbraio. A quel punto, potra' partire la 'grande svolta di primavera': in contemporanea con le dichiarazioni dei redditi di maggio e di giugno, partira' un'operazione di controlli massivi su tutte le posizioni sospette".


Riforme, Quagliariello: è la stagione giusta, iniziamo dal bicameralismo

"E' ora la stagione giusta per fare le riforme". Lo dice, al 'Sole 24 ore', Gaetano Quagliariello. "Prima va fatta la riforma del bicameralismo perfetto e diversificare le funzioni di Camera e Senato, poi si puo' procedere al taglio dei parlamentari, infine si puo' porre mano al porcellum", dice il vice presidente del gruppo Pdl al Senato. Per quel che riguarda la legge elettorale, "va dato al cittadino piu' potere di sceliere il rappresentante dei collegi senza toglierli del tutto il il diritto di scegliersi il governo. Va salvata la logica dell'alternanza, conquista di questi ultimi 15 anni".



Riforme, Zanda: priorità alla legge elettorale

"Il governo Monti e' un'occasione unica per i partiti". Lo dice, al 'Sole 24 ore', Luigi Zanda parlando di riforme istituzionali. "La questione delle questioni e' la legge elettorale", dice il vice presidente del gruppo Pd al Senato, "bisogna restituire ai cittadini il potere di eleggere i propri parlamentari" e "bisogna intervenire sull'abnorme premio di maggioranza". Zanda sottolinea: "Occorre mettere mano a varie parti del sistema; il rapporto governo-Parlamento, la riduzione del numero dei parlamentari, l'articolo 81, l'equilibrio di bilancio, i regolamenti parlamentari e appunto la legge elettorale". Ma "non si puo' rischiare che per fare tutto non si fa nulla, e il Porcellum va cambiato".


Fingono di ridursi lo stipendio, sgamato l’ennesimo bluff della Casta.




Oggi pomeriggio, i quotidiani on line e il tg rilanciano pomposamente la notizia che i deputati si sarebbero ridotti lo stipendio di 1300 euro lordi (700 netti al mese). La notizia in realtà è una bufala perché la busta paga degli onorevoli rimarrà intatta nonostante la decisione dell’ufficio di presidenza della Camera scaturita dopo mesi d polemiche e di annunci con cui si dichiarava di voler riportare le indennità dei parlamentari italiani alle medie europei. A svelare il gioco di prestigio messo in atto dalla Casta per salvare le apparenze ma senza ridursi lo stipendio è il giornalista Franco Bechis: “Il segreto è tutto nelle nuove norme previdenziali dei parlamentari -scrive Bechis- che sono scattate dal primo gennaio scorso. Passando dal sistema retributivo a quello contributivo, i deputati si sarebbero visti lievitare la busta paga di circa 700 euro netti al mese, perchè non è più loro chiesto di versare tutti e due i contributi che versavano prima: uno per il vitalizio (1.006 euro al mese) e uno previdenziale (784,14 euro al mese), oltre alla quota assistenziale (526,66 euro al mese). La riforma delle pensioni avrebbe toccato solo marginalmente i deputati in carica (un anno su 5 di legislatura), che avrebbero recuperato ben più di quello svantaggio con i 700 euro netti in più in busta paga. Se la notizia degli stipendi aumentati fosse uscita, li avrebbero linciati. Così hanno deciso non di tagliarsi lo stipendio, ma di rinunciare a quell’aumento.”
Insomma continuano a prenderci in giro.
M.M.