lunedì 2 aprile 2012

Lea Garofalo e le ragazze che non mollano. - di Nando dalla Chiesa.



Sei ergastoli per il clan Cosco. Per tutti gli imputati dell’assassinio di Lea Garofalo, la giovane donna calabrese uccisa a Milano per ordine del marito. Colpevole di avere scelto di uscire con la figlia Denise dall’ambiente infernale del narcotraffico e delle faide tra clan e perciò testimone di giustizia. Attirata in trappola dal marito, “giustiziata” a colpi di pistola e successivamente sciolta in cinquanta litri di acido.

Una storia terribile che si è incisa nella coscienza di molti. La ferocia bestiale non aveva fatto però i conti con il coraggio della figlia, che ha trovato la forza di denunciare il padre. E di affrontare la clandestinità per sottrarsi alle pressioni e ai condizionamenti dei familiari. Un delitto, uno sfondo di traffici, un luogo di origine, che disegnano un tipico contesto mafioso, anche se in aula il pubblico ministero non ha voluto invocare l’aggravante di mafia. Da cui la scelta del comune di Milano di costituirsi parte civile. E da qui, soprattutto, l’entrata in scena di un attore collettivo che certo gli imputati non avevano previsto: un gruppo di giovanissime donne, mescolate a qualche coetaneo. Studentesse appena maggiorenni o perfino minorenni che avevano sentito parlare di questa storia in qualche incontro sulla legalità nella propria scuola. Che avevano saputo di questa ragazza fuggitiva e costretta a testimoniare contro il padre e che probabilmente non sarebbe stata creduta: l’avrebbero fatta passare come psichicamente instabile, avrebbero messo in giro su di lei voci ignobili, quante volte non è successo? E chi mai avrebbe preso le sue parti nella Milano in cui per fare accorrere i fotografi bisogna chiamarsi Ruby o Nicole?

Così le giovanissime donne hanno deciso di stare accanto a Denise e di fare propria la sua richiesta di giustizia. Lucia, Marilena, Giovanna, Giulia, Monica, Alessandra, Paola, Elisabetta, Costanza, più di una quindicina in tutto, si sono fatte trovare il 21 settembre al Palazzo di Giustizia, prima sezione della corte d’assise. Emozionate come delle debuttanti. I Cosco non capirono chi fossero e che cosa volessero quelle ragazzine. Così mandarono, perché anche questo succede, un agente della polizia penitenziaria da Giovanna per sapere come mai si fossero date appuntamento proprio lì. Quando lei si sentì interrogare, nonostante l’inesperienza, capì che qualcosa non andava: “E lei perché me lo sta venendo a chiedere?”.

A ogni udienza, appena finita la scuola, le ragazze si davano appuntamento. Dal Virgilio, dal Volta, dal Caravaggio, dall’Università. Anche se Denise non c’era, essendo sotto massima protezione. Si mobilitavano per lei, per la coetanea mai vista e mai conosciuta a cui avevano ucciso e sciolto nell’acido la madre. Con l’idea che quella ingiustizia pesasse anche su di loro. Rimasero perciò di sasso quando il presidente della Corte venne nominato Capo di gabinetto dal nuovo ministro della Giustizia. Quando seppero che per questo il processo sarebbe dovuto ricominciare. Davvero Denise, che già aveva fatto violenza a se stessa per testimoniare la prima volta, sarebbe dovuta tornare ad affrontare domande e insinuazioni? Lucia ricorda perfettamente lo sgomento: “Era novembre, un mercoledì pomeriggio, quando sapemmo che bisognava rifare tutto daccapo. Pensammo che era assurdo, che non esisteva, così decidemmo che il giorno dopo non saremmo andate a scuola e avremmo portato uno striscione bianco con le bombo-lette mettendoci davanti al tribunale per dire che volevamo giustizia per Denise. Qualcuno ci ammonì che rischiavamo di apparire critiche verso i magistrati, ma noi lo facemmo lo stesso. Ingenuamente, forse. Ma per giustizia”.

Continuarono a esserci. Hanno dato vita addirittura a un presidio di Libera intitolato “Lea Garofalo”. Con tanti giovedì sera passati a decidere come coinvolgere giovani e adulti o per stabilire come ripartirsi i turni. L’altro ieri, appena è circolata la voce che la sentenza sarebbe stata pronunciata verso l’ora di cena, si sono date appuntamento di corsa al palazzo di giustizia. Fuori dall’aula, agitate, in silenzio, tenendosi per mano tutto il tempo, con qualche ragazzo che riscattava con la sua presenza il genere maschile. L’emozione della prima sentenza attesa in vita loro. I sei ergastoli? “Non c’è da essere contenti”, dice Giovanna, “Lea non tornerà in vita e un ventenne all’ergastolo (il fidanzato di Denise; nda) non è una bella notizia, però penso che Denise ha avuto giustizia e mi sento più leggera”. Altri i toni di Lucia: “Sono felice. Perché mi sembra che a volte le cose vadano per il verso giusto”. C’è quasi una morale in tutta la vicenda, a ripensarci. Una donna indifesa è stata uccisa con ferocia inaudita da sei uomini. Una donna indifesa anche lei, almeno all’inizio, ha avuto il coraggio di testimoniare per amore. Un’altra donna (la presidente Anna Introini) ha guidato il processo a passi veloci. E altre giovanissime donne hanno voluto che questa storia diventasse di tutti, facendone uno straordinario fatto pubblico.

Lea Garofalo, che gli assassini volevano fare tacere e scomparire per sempre, parla oggi con la sua storia a una città, forse al paese. “Noi abbiamo fatto una cosa semplice, spontanea”, commenta Marilena, “si pensa sempre che si debbano fare grandi cose per cambiare, noi abbiamo solo voluto immedesimarci con un’altra ragazza e aiutarla. Certo la sentenza è importante, ma Denise continuerà a vivere sotto protezione. Per questo non finisce qui. Noi le staremo accanto ancora”.

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Gli esodati della politica dopo il carcere, il vitalizio. - di Antonello Caporale.

Gli esodati della politica dopo il carcere, il vitalizio
Sandro Frisullo

I due parlamentari Mele e Frisullo, con notevoli precedenti, hanno fatto domanda e subito ottenuto un'indennità.


ROMA - Al ministro Fornero, in ambasce per trovare una soluzione ai 350mila lavoratori che non sono ancora in pensione e non più al lavoro, consigliamo di dare uno sguardo alla pratica con cui la politica ha trattato due suoi illustri esodati.

I DOCUMENTI ORIGINALI 1

Il signor Cosimo Mele, da Carovigno (Bari) ha compiuto il 7 marzo scorso 55 anni di età. Il giorno seguente ha scritto al suo ex datore di lavoro, la Regione Puglia, per  vedersi riconosciuto anticipatamente  -  secondo i criteri di legge - il piccolo assegno vitalizio che gli spetta per contratto avendo egli svolto per lunghi cinque anni  -  dal 2000 al 2005  -  l'incarico di consigliere regionale. La domanda è stata immediatamente accolta e il signor Mele riceverà ogni mese per tutta la sua sperabilmente lunga vita un assegno lordo di 3403 euro. Il ministro, nell'ipotesi di voler approfondire il caso umano, potrebbe chiedere all'onorevole Casini, che lo conosce un pochino meglio, la biografia di Mele. E Casini  -  magari facendosi aiutare dal segretario Cesa - certamente ricorderebbe che l'Udc lo accolse e lo candidò al Parlamento non volendo fargli pagare un attimo di debolezza per un piccolo malinteso con la magistratura che nel 1999 lo arrestò durante il suo mandato di vicesindaco di Carovigno. Problemi di tangenti, poi appianati. Il partito del leader centrista nulla potè e fu inflessibile quando l'onorevole Mele, molto attivo nella battaglia contro le sostanze stupefacenti e psicotrope e determinato nel tenere alti i valori della famiglia  -  di certo fondanti la comunità che si ritrova ancora sotto l'antico simbolo scudocrociato  -  fu scosso dal malore che condusse all'ospedale una di due signorine con le quali Cosimo stava colloquiando in una seduta notturna all'hotel Flora di Roma nel luglio del 2007.  

Il triangolo no, e nemmeno la droga! Con questa motivazione l'onorevole Lorenzo Cesa ritenne incompatibile la presenza nell'Udc del deputato tentato dal peccato. E la storia finì. Non senza però che lo stesso Cesa proponesse, e seriamente, un'"indennità contro le tentazioni" per i deputati con moglie a distanza. Un po' di cash in più per alleviare il trauma del distacco sessuale.

La proposta non ebbe successo (forse Cesa potrebbe riproporla a Monti, di cui è grande sostenitore), Mele finì al suo paese e tutti dimenticarono tutto. Mele, da esodato della politica, ha ieri ottenuto la garanzia di non vedere rovinata la propria vita con un lavoro come tutti i mortali. Da qui il vitalizio, che la Regione retta da Nichi Vendola ha immediatamente corrisposto.

Ugualmente triste la vicenda che vede Sandro Frisullo, uno dei politici territoriali sui quali il Pd di Bersani faceva molto affidamento, esodato con un po' di grana in più (10071 euro lordi al mese) dal mondo politico. Bisogna dire che Frisullo era in carriera, ha sostato per ben quindici anni in Regione, ha due anni in più di Mele, quindi è un cinquantasettenne, e ha ogni diritto per vedersi riconosciuto  -  anche lui in anticipo rispetto alla soglia usuale della pensione -  il cash dopo che ha brillantemente risolto il rapporto di stampo gramsciano con il partito. Due anni fa Frisullo fu arrestato per associazione a delinquere. I magistrati lo accusarono di essersi fatto corrompere da Gianpi Tarantini, di essere a suo libro paga (nel 2008 dodicimila euro mensili) e di aver accettato tra i benefit anche confronti ravvicinati con tre ragazze della scuderia, alcune conosciute anche a palazzo Grazioli.

Molto chiasso, molte polemiche, molti dispiaceri per Frisullo. Che ha risolto appunto in questo mese il suo rapporto con la politica. Bersani non gli deve più niente e lui a Bersani nemmeno.

Starà a casa tutto il tempo a guardare le partite di calcio. Cinquemila euro netti al mese nessuno glieli toglierà mai. Che piova o ci sia il sole, con Monti o con Tremonti.

Questa sì che è felicità!



E’ in Asia il modello per riformare l’economia Ma al posto del Pil mette la felicità. - di Andrea Pira



L'Onu parla per due giorni del fenomeno del Bhutan, il piccolo regno buddista incastonato tra le due potenze emergenti, Cina e India. La svolta del sovrano (che ha 32 anni). Tra i criteri qualità dell'aria, salute dei cittadini, istruzione, ricchezza dei rapporti sociali, rispetto della natura.


Il giovane sovrano del Bhutan Jigme Khesar Namgyel
Le Nazioni Unite guardano all’Asia per riformare l’economia mondiale. Gli occhi non sono però sulle due locomotive cinese e indiana, ma sul lento e felice Bhutan. Non più crescita e prodotto interno lordo; per due giorni al Palazzo di Vetro a New York, leader mondiali ed economisti discuteranno del “paradigma economico” di cui il piccolo regno buddista incastonato tra le due potenze emergenti è diventato il portabandiera: la felicità.

“Dobbiamo ripensare questo modello basato esclusivamente sulla crescita e capire come possiamo prosperare in armonia con la natura. Non possiamo accettare come irreversibili la distruzione della natura e il collasso finanziario” ha spiegato Jigmi Thinley, primo ministro del Paese himalayano che ha invitato i capi di Stato e di governo nella capitale Thimphu per discutere di come riformare il sistema finanziario internazionale e di nuovi modelli con cui determinare il progresso di una nazione.

Già dal quattro anni il Bhutan adotta come indicatore per calcolare il benessere della popolazione il cosiddetto indice di Felicità interna lorda. La svolta decisa dal trentaduenne monarca, Jigme Khesar Namgyel, fu in realtà teorizzata negli anni Settanta del secolo scorso dal nonno. I criteri presi in considerazione sono la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali. Secondo i dati della Banca Mondiale, il Paese è uno dei più poveri dell’Asia, con un Pil pro capite di 1,800 dollari. Tuttavia, secondo un sondaggio della rivista Businessweek, è anche la nazione più felice del continente e l’ottava al mondo.

Ad agosto del 2011 il modello bhutanese fu fatto proprio dall’Assemblea generale dell’Onu con una risoluzione che riconosceva il raggiungimento della felicità come un traguardo fondamentale dell’uomo ed esortava gli Stati membri a sviluppare metodi più efficaci del Pil per misurare il benessere dei propri cittadini.

Il video-messaggio del principe Carlo d’Inghilterra e la presenza agli incontri di economisti quali Joe Stiglitz e Jeffrey Sachs, oltre che del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon mostrano come queste considerazioni stiano facendo breccia nella comunità internazionale. I leader occidentali guardano a questi cambiamenti con pragmatismo. Come ha spiegato all’agenzia France Presse, l’inviato britannico Gus O’Donnell, le future decisioni di Londra saranno prese valutando anche costi e benefici in termini di benessere dei cittadini. Lo stesso vale per la strategia comunicativa. Per esempio nella campagna contro l’evasione fiscale, in cui si enfatizzano i servizi di cui la comunità potrà godere con il pagamento delle imposte. Anche in Australia per molti anni il governo ha preso in considerazione “le opportunità e le libertà” che i cittadini potevano guadagnare o perdere dall’approvazione di una determinata legge.

Gli ideatori dell’indice di Felicità lorda interna non vogliono però passare per anti-tecnologici e anti-materialisti. “Non c’è nessun ritorno alla vita semplice”, si legge nel documento di presentazione di una conferenza sul tema tenuta lo scorso agosto a Thimphu. “Nel mondo vivono sette miliardi di persone. Questo comporta tremende difficoltà nel soddisfare i bisogni di tutti ed essere capaci di agire in società complesse. Ogni tentativo di riportare indietro le lancette dello sviluppo tecnologico porterebbe soltanto disastri”.

Il loro programma punta a migliorare l’istruzione, la protezione dell’ecosistema e a permettere lo sviluppo delle comunità locali. Traguardi che in parte corrispondono agli Obiettivi del Millennio da raggiungere entro il 2015 stabiliti dall’Onu dodici anni fa. Come scrive Stewart Patrick del Council on Foreign Relations, alcuni dei punti dell’agenda della felicità possono però far discutere. Su tutti quello che auspica un “controllo dei media”, sebbene non per limitare la libertà di espressione, ma per evitare che si inducano le persone ad avere bisogni artificiali.

Sulla felicità del governo di Thimphu pesa infine un ulteriore ostacolo. Si tratta della sorte degli oltre 90mila bhutanesi di etnia nepali e religione indù, esiliati dal precedente sovrano per preservare l’omogeneità buddista del regno. Nonostante il passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale tre anni fa e le riforme avviate dal giovane re, sono ancora costretti nei campi profughi nepalesi.

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Ordine dei giornalisti denuncia una web tv L’accusa: “Abuso della professione”. - di Eleonora Bianchini



L'esposto alla Procura di Pordenone nei confronti di una piattaforma online, che non è testata registrata, in cui gli utenti possono caricare video che riguardano anche fatti di politica e cronaca. Iacopino: "Chi dà notizie è un canale informativo. E come tale svolge attività giornalistica".


Nell’era degli smartphone e dei social network, i cittadini possono utilizzare la tecnologia per fare informazione e documentare fatti e notizie. Con una foto o un video amatoriale direttamente postati online, anche senza un tesserino dell’albo professionale. Eppure chi lo fa potrebbe rischiare una denuncia da parte dell’ordine dei giornalisti per esercizio abusivo della professione e, quindi, fino a sei mesi di carcere.

Il caso nasce a seguito di un esposto dell’ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia che ha denunciato una web tv di Pordenone. Si chiama PnBox, non è una testata registrata e mette a disposizione una piattaforma in cui gli utenti possono caricare video autoprodotti che vengono trasmessi gratuitamente, e che includono anche notizie di cronaca e politica, oltre ad appuntamenti di musica, arte e cultura in città.

L’accusa più grave per cui è imputato l’amministratore delegato Francesco Vanin, è quella di avere diffuso “gratuitamente notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale specie riguardo ad avvenimenti di attualità, politica e spettacolo”. In pratica, quello che centinaia di blog e cittadini fanno abitualmente quando postano video e foto sui social network. Inoltre, in quanto responsabile delle trasmissioni sulla webtv, secondo l’ordine avrebbe svolto “attività giornalistica non occasionale diffondendo gratuitamente notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale specie riguardo ad avvenimenti di attualità politica e spettacolo relativi soprattutto alla provincia di Pordenone”. Vanin, però, non ha mai svolto attività giornalistica. Ha solo messo a disposizione una piattaforma. L’odg pare quindi sostenere che soltanto chi è munito di tesserino può fare informazione e diffondere notizie. Nonostante la sentenza 1907/10 della Cassazione, secondo cui le pubblicazioni online di una testata non registrata non sono soggette alla legge sulla stampa.

“Mi aspettavo la denuncia – spiega Vanin – come tutte le corporazioni, anche l’Ordine dei giornalisti cerca di mantenere le sue rendite di posizione. Già il fatto che esista ancora è un’anomalia tutta italiana, nonché un retaggio dell’era fascista”. Ma quel che secondo l’amministratore della webTv è più grave è che “in base ai capi di accusa che mi sono stati imputati, anche chi scrive su Facebook può essere denunciato”. In pratica, “se mio figlio posta un video su YouTube rischia sei mesi di carcere”. E aggiunge che la registrazione come testata non è obbligatoria per chi “rinuncia alle provvidenze statali”. Una scelta, quella di non ricevere contributi pubblici, ” per continuare a essere liberi e indipendenti”.

Per Enzo Iacopino, presidente dell’odg nazionale, “essere testata giornalistica è soltanto un adempimento formale. Non conosco la questione specifica – puntualizza –  ma se una piattaforma web trasmette notizie di politica e attualità con regolarità, allora si configura come canale informativo. Del resto che cosa fanno i giornalisti?”. Posizione peraltro condivisa da Pietro Villotta, presidente dell’ordine del Friuli che ha presentato l’esposto alla procura di Pordenone. “Non abbiamo nulla di personale contro Vanin e la sua tv – osserva – ma riteniamo che qualsiasi sito che si presenti ‘nella sostanza’ come informazione giornalistica debba rispettare la legge sulla stampa”. Una ‘sostanza’, però, senza confini e criteri chiari di definizione. “Esiste una zona grigia tra l’articolo 21 della Costituzione e la legge sulla stampa, dentro la quale rientrano blog e piattaforme online. Anche chi pubblica i video su YouTube fa divulgazione”. E se lo fa regolarmente, secondo l’ordine, è passibile di segnalazione, anche se tratta di “questioni aperte su cui deciderà il legislatore”. Per Villotta “tutto dipende dalla periodicità. Il nostro esposto è a tutela della categoria e dell’ordine. Se viene a meno la garanzia della legge sulla stampa siamo nella giungla”. Il citizen journalism è la ‘concorrenza sleale’ da condannare? “No. Ma se le piattaforme online, dalle web tv ai blog, fanno informazione continuativa, allora noi tuteliamo la categoria”.

"Siete delle merde, ci state uccidendo!"



Tratto da "servizio pubblico", puntata del 29 marzo 2012