venerdì 6 aprile 2012

BUONA PASQUA...


Disperazione


22/02/2012: Trento, 44 anni per i troppi debiti si getta sotto ad un treno.... è salvo.
25/02/2012: San Remo, 47 anni, elettricista si spara.
26/02/2012: Firenze, 65 anni, imprenditore si impicca.
02/03/2012: Ragusa, commerciante tenta di darsi fuoco.
02/03/2012: Pordenone, 46 anni, magazziniere si suicida.
09/03/2012: Genova, 45 anni disoccupato, sale su un traliccio della corrente.
09/03/2012: Taranto, 60 anni, commerciante trovato impiccato.
10/03/2012: Torino, 59 anni, muratore si da fuoco.
14/03/2012: Trieste, 40 anni, appena disoccupato si da fuoco.
15/03/2012: Lucca, 37 anni, infermiera ingerisce acido.
21/03/2012: Lecce, 29 anni, artigiano si impicca.
21/03/2012: Cosenza, 47 anni, disoccupato si spara.
23/03/2012: Pescara, 44 anni, imprenditore si impicca.
27/03/2012: Trani: 49 anni, imbianchino disoccupato si getta dalla finestra.
28/03/2012: Bologna: 58 anni, si da fuoco davanti all'Agenzia delle entrate.
29/03/2012: Verona, 27 anni, operaio si da fuoco.
01/04/2012: Sondrio: 57 anni, perde lavoro, cammina sui binari, salvato in tempo.
02/04/2012: Roma: 57 anni, corniciaio, si impicca.
03/04/2012: Catania, 58 anni, imprenditore si spara.
03/04/2012: Gela,78 anni pensionata si getta dalla finestra,riduzione della pensione
03/04/2012: Roma, 59 anni, imprenditore, si spara con un fucile.
04/04/2012 Milano, 51 anni, disoccupato si impicca.
04/04/2012 Roma Imprenditore si spara al petto col fucile La sua azienda stava fallendo.


Fate copia incolla e fate girare........


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Cambiamo quella legge. - di Stefano Rodotà





Che cosa alimenta ogni giorno l'antipolitica, la fa crescere, la fa divenire un elemento che struttura la società e il sistema politico, che allontana i cittadini dall'idea stessa di partecipare alle elezioni, come dimostrano rilevazioni e sondaggi? Lo sappiamo, i fatti sono ormai da troppo tempo sotto gli occhi di tutti. E' un viluppo di corruzione e privilegi, di uso privato di risorse pubbliche e di spudorata impunità, che è divenuto sempre più stringente, che soffoca una democrazia in affanno e ne aggrava una crisi già drammatica. Ed è proprio la politica, vittima di questa deriva, a farsene complice, comportandosi come se non fossimo di fronte ad una emergenza devastante, perché essa stessa ha finito con il radicarsi sul terreno concimato da un finanziamento pubblico ai partiti che ha tradito le sue ragioni ed è divenuto veicolo di nuove opportunità corruttive, di diffusione dell'illegalità.

A questi argomenti, o piuttosto constatazioni, si oppongono risposte indignate e virtuose. Basta con i moralismi, non si può fare d'ogni erba un fascio, non tutti i partiti sono allo stesso modo coinvolti negli scandali, i politici corrotti sono una minoranza. Ma queste sono parole ormai consumate, che suonano false. I politici onesti, i partiti che fanno certificare i loro bilanci non possono limitarsi ad essere i custodi della loro virtù. Essi, più d'ogni altro, hanno il dovere di agire, di pretendere un radicale mutamento, poiché non si può certo chiedere ai corrotti d'essere i protagonisti di una simile stagione.

Questi sono tempi di scoperte quotidiane dei modi fantasiosi in cui viene usato il denaro pubblico destinato ai partiti. Abbiamo conosciuto una nuova figura sociale, quella del tesoriere/faccendiere, sciolto da ogni vincolo, legittimato ad ogni impudicizia, milite ignoto per i leader dei partiti. Da lui si ritraggono, o meglio fingono di ritrarsi, i sodali di ieri. Ladri, pecore nere  -  questo sarebbero. E la responsabilità penale, come vuole la Costituzione, è e deve rimanere personale, non può contaminare gli altri dirigenti, gli onesti militanti. E così, per l'ennesima volta, viene eluso il nodo della responsabilità politica, che è assai diversa da quella penale, e ci si sottrae all'obbligo di mosse politiche impegnative, che avviino da subito quel tanto di rigenerazione di politica e partiti ancora possibile. 

È di ieri la notizia che la commissione sulle retribuzioni di parlamentari e amministratori pubblici, affidata al presidente dell'Istat Enrico Giovannini, si è arresa, ha rimesso il suo mandato e ha invitato la politica a prendersi le sue responsabilità. Dal Governo è venuta la prevedibile risposta burocratica: "Proseguirà la propria azione nell'obiettivo di giungere ad una razionalizzazione dei trattamenti retributivi in carico alle amministrazioni pubbliche". E il Parlamento, e i partiti? Si rendono conto che l'uscita di scena di quella commissione non fa nascere un problema, ma è la caduta di un alibi? Il tempo è scaduto. Una agenda politica responsabile deve avere in cima la questione del finanziamento pubblico.

In Parlamento sono state presentate molte proposte di legge, che qui non è possibile discutere nei dettagli. Ma è urgente una risposta immediata, anche nella forma di una disciplina transitoria, che blocchi definitivamente assurdità come il denaro a partiti inesistenti, ridimensioni radicalmente l'ammontare del finanziamento, imponga severissime regole di gestione e sanzioni penali adeguate. Un ceto politico con un minimo rispetto per se stesso, che aspiri ad una sopravvivenza rispettabile, o fa subito questo o è destinato ad essere giustamente sommerso dal discredito. E tuttavia anche questa mossa non basterebbe in assenza della nuova normativa sulla corruzione, oggi impantanata e per la quale il Governo non ha impiegato un grammo di quella energia spesa nella battaglia ideologica sull'articolo 18, pur sapendo che la corruzione è un vero freno agli investimenti e allo sviluppo.

L'invito alla trasparenza del Presidente della Repubblica cade al momento giusto. E dovrebbe indurre ad uscire dagli opposti estremismi che hanno contribuito a far degenerare la questione del finanziamento pubblico. A chi difendeva un finanziamento pubblico senza se e senza ma, infatti, si è opposta la pericolosa suggestione di un finanziamento tutto privato. Certo, un referendum abrogativo del finanziamento pubblico è stato colpevolmente aggirato e sono stati ignorati proprio gli inviti ad abbandonare un sistema che impediva nella sostanza ogni controllo sui bilanci dei partiti (ricordo le accuse di moralismo rivolte negli anni '80 a Gustavo Minervini e ai deputati della Sinistra Indipendente che insistevano testardamente su questo tema). Ma una politica tutta affidata solo al contributo dei privati è fatalmente destinata alla dipendenza del potere economico, alla creazione di diseguaglianze. Questo tema è stato affrontato mille volte, ed è all'origine delle discipline sul finanziamento pubblico esistenti quasi ovunque, accompagnate però anche da limiti severi alle spese elettorali (in Francia Jack Lang perdette il suo seggio all'Assemblea nazionale per aver superato di poco la soglia fissata, mentre in Italia sono state cancellate tutte le pur modeste sanzioni previste dalle leggi).

Proprio il costo delle elezioni divora la democrazia, come dimostra il loro vertiginoso accrescersi negli Stati Uniti, dove le nuove opportunità di raccolta di fondi direttamente dai cittadini, rese possibili da Internet, non hanno affatto ridimensionato il potere delle grandi imprese private, favorite da una "liberalizzazione" del finanziamento privato imposta dalla Corte Suprema. Non dimentichiamo che, all'inizio di questo millennio, alcuni senatori americani decisero di non riproporre la loro candidatura, dichiarando che il tempo da dedicare alla ricerca di fondi superava ormai quello dedicato allo svolgimento dei compiti pubblici. Un filosofo liberale, John Rawls, ha proposto che le campagne elettorali dovrebbero essere finanziate solo da fondi pubblici eguali per tutti i candidati, proprio per neutralizzare il potere del denaro.

Pur senza accogliere questo suggerimento ragionevole e radicale, è ovvio che sono necessarie forme di incentivazione fiscale del finanziamento privato, accompagnate però da una totale pubblicità del nome d'ogni finanziatore. E non dimentichiamo, tornando a casa nostra, che il Pdl si fonda su una gigantesca fideiussione concessa da Silvio Berlusconi. Chi altri potrebbe fare lo stesso? E come non concludere che chi paga dall'interno diventa padrone del partito e della sua politica? E non dimentichiamo che l'unica opera di difesa della legalità possibile in questa materia viene, ancora una volta, dalla magistratura. Non a caso la sua affidabilità è grandemente cresciuta presso l'opinione pubblica, mentre precipita quella di Parlamento e partiti. 



http://www.repubblica.it/politica/2012/04/05/news/cambiamo_quella_legge-32795004/index.html?ref=HRER2-1

Floriade. La collina fatta a giardino. - di Isa Grassano



Un'altra parte dell'area indonesiana, con chiaro richiamo a Bali

Via al kolossal decennale di bulbi e piante. Un immenso giardino (66 ettari) creato dal nulla, ogni volta in un'area diversa dei Paesi Bassi: nel 2012 è il turno di Venlo. 2 milioni di visitatori attesi fino a ottobre.


Amate i fiori? Il loro profumo vi inebria, le mille sfumature dei petali vi emozionano? Se per questo long week end di Pasqua, avete scelto i Paesi Bassi, ma anche l'area della Germania centro-occidentale, quella di Colonia, di Bonn, di Düsseldorf, per intenderci, non potete non fare una tappa a Venlo, una piccola città sul confine orientale tedesco, trasformata in paradiso di boccioli, corolle, piante verdi e arbusti. È stata inaugurata ieri, da Sua Maestà la Regina Beatrix, Floriade, l'Esposizione internazionale orticola, nella  provincia olandese del Limburgo del Nord. Se invece, siete fuori zona, sappiate che avrete tempo fino al 7 ottobre per visitarla. Una grande manifestazione che viene organizzata ogni dieci anni, e ogni volta creando un immenso giardino in una differente area del Paese che dei fiori è sinonimo, e che rappresenta un'occasione speciale per vivere una delle più alte espressioni della natura e dell'arte. 

La kermesse punta a numeri di eccezioni: sono attesi almeno due milioni di visitatori paganti: il 40% proveniente dai Paesi Bassi, il 40% dalla Germania (principalmente dallo stato federale tedesco del North Rhine Westphalia) e il 20% dagli altri paesi, tra cui Italia, Gran Bretagna, Francia e Cina.

Ovunque, in cinque aree tematiche (Relax & Heal, Green Engine, Education & Innovation, Environment e World Show Stage, progettate dall'architetto del paesaggio John Boon) si può sperimentare l'influenza dell'orticoltura nella vita quotidiana utilizzando tutti i cinque sensi. Ovunque, su una superficie di 66 ettari, un tripudio di meraviglie della natura: nelle aree boschive sono stati piantati 1,8 milioni di bulbi, 190.000 piante perenni, 18.000 arbustive, 15.000 siepi, 5.000 roseti e 3.000 alberi. Il "Friend's Woodland" (il bosco degli amici) contiene una vasta collezione di alberi e arbusti da frutto che comprendono varietà tradizionali e moderne. 


Il viale alberato è costituito da 120 diverse specie arboree inconsuete, tra cui la Ginko biloba, nota anche in Giappone come albero di noci e in Cina come albero sacro coltivato nei templi. Altre affascinanti attrazioni sono le siepi di tiglio con ben dieci livelli di rami, che è possibile osservare nell'area tematica "Education & Innovation", un boschetto di nodosi ulivi piantati nel terreno roccioso, e poi i tulipani, immancabili, rossi, gialli e viola, mescolati con l'uva e giacinti bluette.

Al termine dell'evento, tutta l'area verrà donata al GreenPark di Venlo: un parco commerciale sostenibile completamente immerso nel verde, per non disperdere questo patrimonio naturalistico. Per ammirare una panoramica dell'intero parco, da non perdere, poi, un giro sulla funivia di Floriade. Lunga 1,1 Km e con più di 30 metri di altezza, trasporta i visitatori da un lato all'altro del parco in soli cinque minuti. Un colpo d'occhio sui colori in basso di grande impatto e sugli edifici ecosostenibili appositamente costruiti.

Sono rappresentati  35 paesi e anche l'Italia, per la prima volta, ha il suo ruolo da protagonista con un padiglione in legno perfettamente ecocompatibile dalla superficie di 400 mq e circondato da uno spazio verde di 500 mq. Ospita l'installazione "Viaggio in Italia", tour virtuale tra le principali attrattive della penisola e "L'Italia dei sapori", che permette di avere un quadro interattivo dell'offerta agricola e ortofrutticola di ogni singola regione. Diverse le iniziative legate alla bioagricoltura, settore per cui il nostro Paese è tra i primi 10 produttori al mondo.
Non solo piante e fiori. Floriade offre ogni giorno un programma culturale di musica, danza, teatro e arti visive con artisti provenienti da tutto il mondo. Gli spettacolari trampolieri del gruppo teatrale Close Art accolgono i visitatori. I musicisti si esibiscono su un palco mobile che li trasporta lungo tutto il parco. Ogni sera l'esibizione musicale "Floriade Goodbye", a cui partecipano 180 bande di fiati e ottoni del Limburgo (per il calendario completo degli eventi culturali visitate il sito). Ogni area tematica, inoltre, è dotata di un parco giochi e punti di accoglienza in cui gustare un'ampia gamma di piatti tipici nazionali e internazionali. Ci si può rilassare con un picnic sul prato o sdraiati lungo le rive dei corsi d'acqua o divertire con spettacolo o un'esibizione in programma nell'anfiteatro. I piccoli, tra 4 e 12 anni, possono vivere uno speciale programma tutto per loro, "Floriade Kids": c'è la "Casa del Gusto", dove i bambini hanno a disposizione giochi interattivi o possono aiutare gli chef in cucina.

Sono tanti gli spunti per organizzare un fine settimana alla scoperta di questo "immensa ricchezza botanica" (tra l'altro a basso costo; Ryanair collega ben 12 città italiane all'aeroporto di Düsseldorf - Weeze che si trova a 45 km da Floriade, il più vicino). E se si ha ancora voglia di spaziare, si possono visitare i numerosi giardini nei dintorni, da quelli del Castello di Arcen, con il più grande roseto d'Olanda e il Giardino acquatico orientale, ai giardini di Appeltern che si trasformano ogni giorno, con piante e prodotti sempre nuovi. Oppure scoprire la cittadina di Venlo, raccolta attorno al suo centro storico, tra opere d'arte monumentali e antichi palazzi, tra cui il Municipio, la Ald Weishoes e il palazzo comunale di Blerickse.

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OSTENTAVA UNA FINTA LAUREA IN MEDICINA. INTERPRETO' LE ANSIE DI UNA PARTE DEL PAESE

Intuì il malessere del Nord, tenne testa alla Dc e a Craxi. Ma con riti celtici e Padania ha lacerato il Paese. Due volte con Berlusconi, più di tutti l'ha insultato e difeso.

Ora il colore si sprecherà: e di colore Umberto Bossi ne ha sempre fornito molto, sin da quando si faceva chiamare Donato e imitava la voce di Celentano, oppure - finto medico - usciva di casa con lo stetoscopio nella borsa dicendo che andava in ospedale e invece si infilava al bar; ogni tanto poi organizzava una serata per festeggiare una laurea in medicina mai presa, e quand'era già un leader politico pretendeva ancora di aver fatto parte in gioventù di un'équipe che lavorava a un certo laser dai poteri taumaturgici.
Si sprecheranno anche le invettive, di cui l'Italia è generosa con gli sconfitti; e di invettive Bossi ne ha meritate davvero. Ha offeso prima gli italiani del Sud, poi gli extracomunitari; ha portato in politica il linguaggio delle peggiori osterie; ha detto di voler «raddrizzare la schiena» a un magistrato sulla sedia a rotelle; ha espulso dal suo partito chiunque gli facesse ombra, fosse pure la sorella; ha minacciato di morte ogni suo avversario, da ultimo Monti. Soprattutto, Bossi ha soffiato sul fuoco delle divisioni del Paese, rinfocolando antichi rancori, straparlando di una secessione impossibile, tentando di approfondire il solco tra gli italiani del Settentrione e quelli del Mezzogiorno.
Eppure, se Bossi fosse stato solo un mitomane e un prepotente, non avrebbe contribuito a far crollare un sistema politico collaudato da mezzo secolo, non avrebbe trascinato dietro di sé milioni di elettori, non si sarebbe procurato un posto nella storia italiana. E invece, nella nostra storia meschina e grandiosa, Bossi entra di diritto. Con il suo armamentario orribile e ridicolo di grida gutturali, di elmi cornuti, di insulti maschilisti e omofobi, di famigliona impresentabile, di figli dai nomi immaginifici (Eridanio, Roberto Libertà), di seguiti famelici. Ma anche con il coraggio pazzesco di andare contro la Democrazia cristiana - un partitone dal 40 per cento (dalle sue parti, nelle valli bianche dell'Alta Lombardia, anche di più) sostenuto dall'America e dal Vaticano -, di attaccare comunisti e preti, Craxi e per qualche tempo pure Berlusconi, di far crollare la Prima Repubblica e tentare di costruirne una Seconda basata sul federalismo.
Bossi è entrato nella nostra storia perché, con il suo intuito da ignorante - in questo davvero imitatore di Celentano -, con il suo fiuto da uomo di bar, ha sentito per primo la richiesta di autonomia che cresceva dal Nord, un Nord stanco di una burocrazia asfissiante, di un fisco opprimente, di uno Stato sentito come distante e nemico, del centralismo romano e dell'egemonia culturale mediterranea. Un Nord animato da sentimenti forse non nobili, forse rancorosi e piccolo borghesi, eppure diffusi: l'allergia crescente per una Rai romanesca, un cinema e in genere un'industria culturale estranea fin dal gergo e dall'accento; l'insofferenza magari sbagliata per piccole cose - tipo essere fermati e un po' maltrattati da carabinieri dall'accento invariabilmente meridionale -, magari legittima di fronte a miti editoriali e personaggi di cui se fossero nati a Verbania o a Thiene non si sarebbe accorto nessuno. Un Nord, liberato dal pericolo rosso ma non dall'eccesso di statalismo, che alla fine degli Anni 80 chiedeva di contare di più, di essere meglio rappresentato, e di poter spendere sul territorio una parte maggiore delle sue imposte.
A questa domanda di dignità e di identità, di diritti e di interessi, Bossi ha dato una risposta disastrosa. La sua Lega fin dal principio è stato il più «sudista» dei partiti: familista e clientelare, costruito attorno al più mediterraneo dei criteri, non il merito e le regole ma i legami personali (meglio se di sangue) e la fedeltà al capo. Adesso si leggeranno amarcord sugli inizi, sulla fase epica in cui Bossi portava Maroni sotto i cavalcavia per tracciare le scritte sull'autostrada, si faceva 200 mila chilometri l'anno - divenuti nelle agiografie anche 300, 400, 500 mila -, e Cossiga, come gli confiderà più tardi un po' scherzando un po' no, meditava di fargli nascondere la droga in macchina per screditarlo. Ma fin dagli esordi goliardi o gloriosi la Lega e il suo capo si portavano dentro il vizio che li avrebbe perduti: la pretesa di sostituire il centralismo di «Roma ladrona» (slogan che non nascondeva l'odio per la capitale quanto per lo Stato) con quello di Cassano Magnago, l'illusione di reggere un partito salito anche oltre il 10% nazionale sempre con lo stesso gruppo di amici varesotti; il Piemonte affidato a chansonnier o a leaderini usa e getta, il Veneto governato con le espulsioni, prima Rocchetta poi Comencini, e se ne avesse avuta ancora la forza Bossi avrebbe espulso volentieri pure Tosi.
L'altro limite è stato la follia di sostituire una nazione che culturalmente esiste da secoli come quella italiana con una nazione totalmente inventata, la Padania. La Lega ha dato il meglio di sé con sindaci popolari e capaci, ma non ha compreso sino in fondo che il localismo italiano è fondato sulla città, sul Comune, sul campanile; non su una presunta patria nordica che non è mai esistita. Il partito di Bossi è cresciuto a dismisura non grazie ma nonostante i matrimoni celtici, i riti druidici, le ampolle di acqua del Po, il lancio della pietra e del tronco, il giro ciclistico della Padania, Miss Padania, il campionato del mondo delle nazioni non riconosciute (che la Padania vinceva sempre a mani basse). Del sole delle Alpi e delle rune al Nord moderato che ha creduto di riconoscersi nella Lega non importava ovviamente nulla. Eppure Bossi se n'è servito per creare un mito di gruppo, per forgiare quel «cerchio magico» partito da Merlino e Obelix per finire ai maneggi tanzaniani dell'infido tesoriere Belsito, attraverso i successi di Credieuronord, la pseudobanca del Carroccio.
Eppure, si aveva un bel sorridere dei leghisti. Per tre decenni, Bossi li ha guidati con un fiuto pazzesco, da rabdomante. Un po' tutti, a sinistra e a destra, ne annunciavano la fine, e lui rispuntava dove meno te l'aspettavi. Spregiudicatissimo, capace di andare al governo con i missini (dopo avere urlato «mai coi fascisti!») e di sfilare il giorno dopo al corteo milanese del 25 aprile, ora di attaccare la Chiesa - i «vescovoni» - ora di presentarsi come difensore della famiglia tradizionale dai matrimoni gay e baluardo dell'Occidente contro le moschee e l'Islam, di aggredire i comunisti talora anche fisicamente e di fare incetta del loro elettorato (del resto negli Anni 70 proprio al Pci si era iscritto il giovane Bossi).
Il massimo di spregiudicatezza, il Senatur l'ha avuto nel rapporto con Berlusconi. A inizio '94 intuì che l'alleanza era un percorso stretto ma inevitabile. Finse un accordo con Segni, in modo da screditarlo, poi andò ad Arcore. In canottiera, però; e quel segno plebeo fu letto come una sana dissacrazione, una rivendicazione di diversità rispetto al miliardario col mausoleo in giardino. Poi arrivò la rottura, a ben vedere per lo stesso motivo che ha portato anche stavolta alla fine del governo di centrodestra: il no di Bossi all'abolizione delle pensioni di anzianità. Vennero gli anni dell'antiberlusconismo leghista, degli insulti anche grevi, di «Berluskaz» e del «mafioso di Arcore». Fino a quando il patto non venne riscritto, per le Regionali 2000 e le Politiche del 2001, quando la Lega perse voti ma andò al potere, grazie anche al rapporto di ferro tra il capo e Tremonti. L'«asse del Nord» venne infranto dall'ictus e dalla malattia. Fu nell'anno di sofferenza e silenzio seguito all'11 marzo 2004, quando la famiglia Bossi si trovò in gravi difficoltà anche materiali, che si strinse definitivamente il rapporto di lealtà ai limiti della sudditanza con Berlusconi, e la volontà indebolita del fondatore fu condizionata da quegli interessi privati che ora (a meno di ripensamenti) gli impongono le dimissioni.
Un anno dopo l'ictus, Bossi diede la sua prima intervista, che segnò il ritorno alla politica. Dopo giorni di appuntamenti rinviati e attese tipo tenda di Gheddafi, aprì la porta della villetta di Gemonio non ancora ristrutturata all'inviato del Corriere . Raccontò di serate in famiglia passate a suonare la chitarra e a cantare Battisti. Espresse desideri poi realizzati, sia pure con alterne fortune: sentire una canzone in dialetto lombardo al Festival di Sanremo; vedere un film sulla battaglia di Legnano. E annunciò la fondazione della dinastia: «Dopo di me verrà mio figlio Renzo». Infastiditi, i colonnelli presero a chiamarlo «il delfino». Allora il padre, nel giorno della cerimonia dell'ampolla alle sorgenti del Po, inventò quel soprannome - «Trota» - che al rampollo è rimasto impresso come un marchio di inadeguatezza.
Oggi, in un sussulto tardivo di dignità, Bossi si rende conto di aver fatto male i conti, e dice: «Chiunque abbia sbagliato, qualunque cognome abbia, pagherà».
Nell'ultima stagione di governo, il suo proverbiale fiuto si era esaurito. La spinta dei «barbari» si era infranta contro l'immobilismo berlusconiano e si era fatta parodia con la pantomima dei ministeri finti nel parco di Monza. Alla difesa del Cavaliere, Bossi ha pagato prezzi altissimi. Anche perché - e qui sta il suo vero fallimento - alla fine non ha portato a casa, cioè al Nord, quasi nulla: la «devolution» annullata dal referendum del 2006, il federalismo fiscale interrotto dalla crisi finanziaria; di altre bandiere storiche, dai dazi sulle merci cinesi alle ronde, meglio non parlare. Così come è meglio ricordare il Bossi purosangue delle origini anziché quello imbolsito del tramonto, che a ogni domanda sgradita risponde con il dito medio. Oggi i tre quarti d'Italia che non lo sopportava fa legittimamente festa. Altrettanto legittimo è rendere al vinto l'onore delle armi. Ora vedremo se Maroni riuscirà a rendere la Lega un partito plurale e legato agli interessi del territorio, o se farà la fine di Martelli. Di sicuro, la causa di un Nord che chiede più rappresentanza e più libertà non finisce con Bossi.