martedì 10 aprile 2012

Renzo Bossi lascia il consiglio regionale. Per lui una indennità da 40mila euro. Luigi Franco


Lo stabilisce la legge regionale numero 12 del 20 marzo 1995: “Ai consiglieri cessati in corso di legislatura, a quelli non rieletti, o che non si ripresentino candidati, nonché ai loro aventi causa in caso di decesso, spetta una indennità di fine mandato”.

Renzo Bossi
Renzo Bossi lascia il suo posto al Pirellone. Dimissioni ben pagate, a dire il vero: per due anni da consigliere lombardo si porta a casa una indennità da 40mila euro. Niente male per uno che, secondo suo papà Umberto, “da due mesi era stufo di stare in Regione”. Lui, il Trota, parla di una decisione che dà l’esempio e dice: “Sono stato costretto a dimostrare ogni giorno che le oltre 12mila preferenze prese sul territorio erano frutto del mio lavoro e non del nepotismo becero”.

Il suo lavoro da politico, però, si interrompe prima del previsto. Renzo ha deciso così, dopo lo scandalo dei soldi pubblici girati dall’ex tesoriere Francesco Belsito agli esponenti del Carroccio: tre anni prima del termine della legislatura, se ne va. Ma all’indennità di fine mandato ha diritto lo stesso. Lo stabilisce l’articolo 3 della legge regionale numero 12 del 20 marzo 1995: “Ai consiglieri cessati in corso di legislatura, a quelli non rieletti, o che non si ripresentino candidati, nonché ai loro aventi causa in caso di decesso, spetta una indennità di fine mandato nella misura dell’ultima indennità annuale di funzione lorda percepita per ogni legislatura; nel caso di frazione della medesima il conteggio è determinato proporzionalmente”. Tradotto: se fosse rimasto al Pirellone tutti e cinque gli anni, Bossi junior si sarebbe intascato una liquidazione da 102mila euro. Di anni sui banchi della Lega ne ha invece passati due: gli euro che gli spettano sono quindi poco più 40mila. E fa niente se si è dimesso in anticipo.

Qualcosa se ne andrà via con le tasse. Ma il Trota non si può certo lamentare, fare il consigliere gli ha fruttato bene: ci sono anche gli oltre 9mila euro guadagnati ogni mese, tra indennità di funzione, rimborsi e diarie, al netto delle ritenute fiscali e dei contributi per indennità di fine mandato e vitalizio. E poi c’è quella parte del finanziamento pubblico ai partiti che, secondo le inchieste giudiziarie, finiva in tasca sua, come i 130mila euro per la laurea in un’università di Londra. E poi le auto, un’Audi A6 e una Smart. Senza tralasciare quelle manciate di 50 euro che di volta in volta gli metteva in mano l’autista, perché potesse pagarsi la benzina e qualche altra piccola spesuccia.

A Franco Nicoli Cristiani, l’ex vice presidente del Consiglio regionale finito in carcere con l’accusa di aver preso tangenti, i 340mila euro di indennità di fine mandato sono stati congelati. Ma sui 40mila euro di Renzo Bossi non si può fare nulla. “Questi sono soldi già accantonati – spiega Alessandro Alfieri, consigliere regionale e vicesegretario lombardo del Pd – sta a lui prenderli o non prenderli. Certo, davanti alle intercettazioni allucinanti che sono uscite, se li rifiutasse, darebbe un segnale importante per recuperare un pizzico di credibilità”.

Secondo Chiara Cremonesi, capogruppo di Sel, “Renzo Bossi sta diventando il capro espiatorio di un Consiglio pieno di indagati. C’è anche l’indennità che Nicole Minetti continua a percepire. E a fine mandato lei si troverà una liquidazione ancora maggiore di quella di Bossi”.

Qualche mese fa era stata proposta in Aula l’abolizione dell’indennità di fine mandato e del vitalizio cui i consiglieri hanno diritto compiuti i 60 anni. Alla fine però, con l’approvazione della legge regionale numero 21 del 13 dicembre 2011, i tagli sono stati rinviati alla prossima legislatura: così si è salvata anche la buonuscita del Trota. “Questo è il peccato originale che il Consiglio avrebbe potuto cancellare – commenta Gabriele Sola, vice capogruppo dell’Idv – sarebbe bastato un po’ più di coraggio quando si è discusso della riduzione dei privilegi della Casta regionale”.

Sole24Ore, bilanci in rosso. Tagli per i lavoratori, bonus per il manager. Giovanna Lantini




Nonostante un buco di 8,4 milioni l'Ad ottiene un aumento del 20%. Contratto di solidarietà per i giornalisti. Pensionamenti anticipati e tagli in redazione. Gli ammortizzatori costeranno all'Inpgi 6 milioni.

Non importa che Il Sole 24 Ore sia in perdita e che i tagli siano all’ordine del giorno. Il bonus dell’amministratore delegato non si tocca. Nel 2011 Donatella Treu, che guida il gruppo editoriale della Confindustria, ha portato a casa 150. 479 euro di “bonus e altri incentivi”, oltre a 550 mila euro di stipendio. In totale 700. 479 euro.

CIFRA che rappresenta uno stipendio da francescano se paragonata a quella intascata da altri manager di Piazza Affari, anche dello stesso settore (l’amministratore delegato uscente della disastrata Rcs, Antonello Perricone, per esempio, l’anno scorso ha incassato 1 milione tondo tondo). Ma che è comunque in deciso aumento rispetto al 2010, quando la Treu aveva incassato poco più di 442 mila euro per 9 mesi e mezzo di lavoro: a parità di durata, la maggiorazione è del 18, 6 %. E non dovrebbe essere collegata ai profitti del gruppo editoriale, che ha chiuso il 2011 in rosso per 8, 4 milioni e una posizione finanziaria netta (le disponibilità liquide al netto di passività e attività finanziarie) dimezzata a 42, 1 milioni. Il bonus, quindi, dev’essere riferito all’andamento dei margini che sono passati dal rosso di 16, 4 milioni del 2010 a un dato positivo per 11, 6 milioni.

Miglioramento che la gestione Treu ha però ottenuto impugnando le forbici: lo scorso anno il Gruppo 24 Ore ha tagliato costi per 31, 1 milioni, in buona parte imputabili al personale (-17 milioni di euro e -127 dipendenti). Nel dettaglio, qualche mese prima dell’esplosione dell’ultima coda della crisi, ad aprile 2011, l’editrice di Confindustria ha ottenuto dal ministero del Lavoro il riconoscimento di un piano di riorganizzazione di 24 mesi, che ha portato al prepensionamento di 110 dipendenti tra grafici e poligrafici. A dicembre, invece, si sono concluse le uscite di 16 giornalisti previste per il secondo anno del biennio di crisi. Un metodo, quello dei tagli, che nella sostanza è già stato replicato per ovviare a un 2012 talmente in salita che all’inizio dell’anno l’azienda ha posticipato al 2014 il termine per il raggiungimento degli obiettivi del piano industriale al 2013, annunciando “un continuativo intervento sul fronte dei costi”.

Poco prima, tra fine 2011 e inizio 2012, il Sole ha inoltre ottenuto dalle rappresentanze sindacali delle testate del gruppo la firma di specifici accordi, “che permetteranno, attraverso il ricorso ai Contratti di Solidarietà e ad altri interventi gestionali, di ottenere, senza traumi sociali, un importante contenimento del costo del lavoro giornalistico oltre a consentire le azioni di rilancio e di sviluppo”. Una strategia sulla quale si è recentemente pronunciato perfino Franco Siddi, il segretario generale dell’Fnsi, il sindacato dei giornalisti, che potrebbe avere qualcosa da ridire sull’assenza di traumi sociali. “La fase è seria anche per la carta stampata, in molte aziende stanno emergendo le insufficienze a livello editoriale e manageriale, nascoste nel periodo d’oro della pubblicità e dei prodotti collaterali”, ha infatti dichiarato in una recente intervista al mensile di settore Prima Comunicazione, puntando il dito contro la corsa agli ammortizzatori sociali da parte delle aziende editoriali che sta iniziando a pesare sulle casse dell’Inpgi, l’istituto di previdenza della categoria.

BISOGNA ricorrere agli ammortizzatori solo quando non ci sono alternative, privilegiando le situazioni di crisi reale. I tagli, poi, stanno toccando giornalisti ancora lontani dalla pensione, per i quali possono scattare solo la cassa integrazione e i contratti di solidarietà – ha detto Siddi – Un ricorso massiccio a questi strumenti, totalmente a carico dell’Inpgi, rischia di determinare squilibri alle casse dell’istituto. Basti pensare che, tra costi diretti e indiretti, per la solidarietà concordata al Sole 24 Ore, dall’Inpgi usciranno 6 milioni di euro”.

Occhio alla truffa. Marco Travaglio





Ci volevano le retate perché le alte cariche dello Stato scoprissero lo scandalo dei “rimborsi elettorali”. Ma ora che persino Napolitano, Fini e Schifani, parlamentari rispettivamente dal 1953, dal 1983 e dal 1996, se ne sono accorti, tutti danno per certo che la legge verrà cambiata.

La qual cosa è considerata, di per sé, positiva. Ma non è affatto detto che sia così. Infatti Alfano, Bersani e Casini non contestano né il principio dei “rimborsi” nè il quantum, che nessuno vuole ridurre: vogliono soltanto creare un ente che ne controlli la gestione una volta incassati. La Corte dei Conti è lì apposta, ma lorsignori preferiscono un’”Authority indipendente”, ciò dipendente da loro come le altre. Insomma una legge-truffa che non cambia nulla se non la facciata. Invece bisogna cancellare sia il principio sia il quantum dei rimborsi, azzerando tutto e tornando allo spirito del referendum del 1993: nessun trasferimento automatico di denaro dallo Stato ai partiti. E, siccome l’attuale Parlamento non azzera un bel nulla, non resta che il referendum Di Pietro, per cancellare i rimborsi e creare un sistema tutto nuovo.

Conosciamo l’obiezione: “così farebbero politica solo i ricchi”. Ma non regge: i ricchi partono favoriti solo se ciascun partito può spendere ciò che vuole. Se invece si fissa un tetto massimo per le spese elettorali, tutti combattono ad armi pari. Nel ‘ 93, subito dopo il referendum che abolì il finanziamento pubblico, il governo Amato lo ripristinò sotto le mentite spoglie di rimborso elettorale, pur modestissimo. Infatti per le elezioni nazionali ed europee del 1994 i partiti ricevettero appena 70 milioni e per quelle (solo nazionali) del 1996 ancora meno: 46,9. Il che significa che possono cavarsela egregiamente con 50 milioni per ogni elezione su scala nazionale. Invece, grazie alla legge del 1999 che prelevava 4 mila lire a ogni iscritto alle liste elettorali, i rimborsi si allontanarono anni luce dalle spese effettive. E la legge del 2006 raddoppiò lo scandalo: rimborso pieno anche per le legislature monche.

Per le politiche 2008, le europee 1999 e le amministrative varie, i partiti hanno dichiarato spese per 100 milioni, ma nel 2013 a fine legislatura ne avranno incassati 503 in cinque anni. Totale negli ultimi 17 anni: 2,3 miliardi erogati contro 579 milioni documentati. Partiamo da questi 579: diviso 17 anni fanno 34 all’anno, contro una media di 135 incassati. Dunque, secondo quel che essi stessi dichiarano, i partiti devono coprire spese per una trentina di milioni l’anno. Con un corsoaccelerato presso il Movimento 5 Stelle, presente in consigli comunali, provinciali e regionali senza un soldo pubblico, si può scendere ancora di parecchio. Ma facciamo finta che ai partiti servano 30 milioni l’anno: come raccoglierli, nel rispetto della volontà degli italiani, più che mai contrari ai trasferimenti pubblici? Sistema misto: in parte donazioni da privati (purchè dichiarate sopra i 5 mila euro e non anonime fino a 50 mila come da legge-golpe 2006); in parte contributi pubblici, ma volontari. Come? Ripristinando la legge Prodi del 1997, che consentiva di devolvere il 4 per mille dei redditi Irpef.

Ma con una decisiva differenza: allora i soldi finivano in un unico calderone che poi i partiti si dividevano in base al peso elettorale (infatti non li versò quasi nessuno); invece ogni contribuente deve poter indicare a quale lista destinare il suo eventuale 4 per mille, a vantaggio dei partiti più credibili e popolari. Fissato il come e il quanto, occorrono poi sanzioni draconiane per chi sgarra: chi spende più del tetto, o presenta documentazione poco credibile, o tiene bilanci opachi, o viola le regole di democrazia interna (congressi, primarie, tessere, candidature, codice etico), paga con la decadenza immediata dei suoi eletti, in più restituisce tutti i contributi privati e pubblici dell’ultimo quinquennio e perde il diritto a incassare quelli del quinquennio successivo: cioè fallisce e chiude bottega. Tutto il resto è truffa.

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Il modello tedesco per la democrazia economica. di Enrico Grazzini




Grazie alla cogestione, nel modello tedesco le aziende non sono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario. Il risultato è che la Germania è uno dei paesi con minori tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori delle famiglie. Un esempio al quale dovrebbe guardare anche l'Italia.

Si parla molto del “modello tedesco come riferimento di successo ed esemplare per uscire dalla crisi: lo si invoca… perfino per modificare l'articolo 18! Ma si nasconde quasi sempre che uno degli elementi fondativi di questo modello è la co-determinazione: infatti in Germania i rappresentanti dei lavoratori – eletti da tutti i lavoratori, iscritti o meno al sindacato – partecipano al board delle grandi e medie imprese, in posizione (quasi) paritaria con gli azionisti, gli shareholders. 

In questo articolo vogliamo illustrare due studi che dimostrano i vantaggi strategici – per i lavoratori e per stesse aziende, e per l'economia nel suo complesso – di questo modello. Ci pare infatti opportuno aprire un dibattito, che oggi in Italia è molto carente, sulla opportunità di introdurre un sistema analogo anche nel nostro paese. 
Recentemente Colin Crouch nel “Potere dei giganti” ha denunciato il pericolo costituito dalle corporations sia per la democrazia che per una vera competizione di mercato; e ha auspicato come antidoto all'involuzione post-democratica la reazione della società civile [1]. Luciano Gallino nel suo “Finanzcapitalismo” propone di contrastare la speculazione finanziaria anche grazie ad un'azione mirata e socialmente responsabile dei fondi pensioni [2]. 

Questo contributo vuole focalizzare l'attenzione sull'ipotesi che, per uscire in maniera equa e duratura dalla crisi, sia innanzitutto indispensabile cominciare a introdurre forme di democrazia nelle aziende. Altrimenti rischiano di diventare generiche o illusorie le altre soluzioni, magari ultrasindacaliste – e quindi basate sempre e solo sulla lotta sindacale più o meno antagonista – o iperpoliticiste – cioè fondate sulla sopravvalutazione della possibilità che politiche industriali illuminate, keynesiane, verdi e di sinistra, possano modificare dall'alto la realtà delle imprese e dell'economia, senza partecipazione dei lavoratori nelle aziende. 

Il nostro assunto di partenza è invece che la democrazia dal basso sia essenziale non solo in politica ma soprattutto nell'economia: senza un potere reale, anche se necessariamente parziale, dei lavoratori sulle strategie delle imprese sarà difficile difendere l'occupazione e modificare l'economia, e quindi anche la politica e la società. Di più: senza che gli utenti e i lavoratori partecipino direttamente negli organi direttivi degli enti di servizio pubblico è impossibile che gli interessi del pubblico stesso siano effettivamente rappresentati. 

Pochi sanno che la Mitbestimmung è stata introdotta in Germania nel 1951 grazie a un referendum indetto dal potente sindacato DGB da cui risultò che oltre il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario era disposto a scioperare per ottenere i diritti di cogestione. Il cattolico Konrad Adenauer fu quindi costretto ad accettare la Mitbestimmung, che pure la confindustria tedesca ha fin dall'inizio, e poi sempre, duramente avversato, fino a chiedere (ma inutilmente) alla Corte Costituzionale tedesca di abrogarlo in quanto contrario al diritto costituzionale della proprietà privata. Nel 1951 iniziava così la politica di codecisione (quasi) paritaria, che nel 1976 è stata estesa dal governo socialdemocratico di Willy Brandt alle aziende nazionali ed estere di tutti i settori industriali con più di 2000 addetti (sotto i 2000 i lavoratori possono eleggere un terzo dei rappresentanti nei consigli di sorveglianza). Così in Germania per legge dello stato il lavoro come tale (cioè senza che i lavoratori siano obbligati a partecipare al capitale e agli utili aziendali) è rappresentato nei consigli di sorveglianza che definiscono le strategie delle imprese, nominano i manager e controllano il loro operato.

50 anni dopo la fatidica data del 1951, in Italia, l'amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne – alfiere del capitalismo anglosassone per cui le imprese devono soddisfare solo gli interessi e gli appetiti degli shareholder, senza curarsi delle ricadute sociali e ambientali delle attività aziendali – indiceva (e riusciva a vincere) un altro referendum a Mirafiori. I dipendenti sono stati posti di fronti all'alternativa se continuare (forse) a lavorare senza diritti e senza rappresentanze sindacali scelte da loro stessi, o se invece rimanere disoccupati perché le produzioni venivano spostate all'estero. A (stretta) maggioranza i lavoratori italiani – purtroppo senza alcuna voce e rappresentanza negli organi direttivi della Fiat – hanno dovuto chinare il capo e accettare di continuare a lavorare senza diritti. Il modello tedesco di co-determinazione (Mitbestimmung) ci sembra importante soprattutto alla luce dell'attuale debolezza dell'azione sindacale che, per quanto sacrosanta e indispensabile, risulta purtroppo assai poco efficace e incisiva nelle fasi di crisi dell'economia – e quando le multinazionali come la Fiat possono spostare le loro unità produttive (e anche la sede!!) dove e come vogliono. Comunque, Italia a parte, la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese si è diffusa anche fuori dalla Germania, e cioè in 12 paesi dell'Unione Europea, come vedremo.

Si discute molto su quali siano gli effetti della Mitbestimmung sulle attività delle imprese e sull'economia in generale. Noi esporremo qui molto sinteticamente i risultati di due interessanti ricerche. La prima è intitolata “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards” ed è stata condotta sulle aziende tedesche quotate in borsa [3]. La seconda è uno studio comparativo dell'ETUI, European Trade Union Institute, sulle performance dei diversi paesi europei con o senza democrazia industriale [4].

La prima ricerca indica chiaramente che le aziende cogestite non solo non soffrono a causa della gestione congiunta e del potere duale, ma che anzi guadagnano in competitività rispetto a quelle governate secondo il modello proprietario e gerarchico tradizionale. La condizione del successo è però che non siano (solo) i sindacati a decidere chi siederà nel board aziendali ma i lavoratori stessi.
“La rappresentanza dei lavoratori nel board delle imprese apporta competenze molto preziose nel processo decisionale delle aziende, e fornisce un potente strumento per monitorare le decisioni degli azionisti e il comportamento del management. Inoltre maggiore è il bisogno di coordinamento aziendale, maggiore è anche l’efficacia della rappresentanza del lavoro. Però questi vantaggi non si verificano quando la rappresentanza è nominata dai sindacati (e non eletta dai lavoratori)” [5]. 

Lo studio comparativo dell'ETUI analizza invece le performance dei paesi che hanno adottato forme avanzate di cogestione rispetto ai paesi più arretrati. I 27 Paesi UE sono divisi in due gruppi: il primo include 12 paesi che garantiscono diritti “forti” di partecipazione (in termini di diritti all'informazione, alla consultazione e alla partecipazione) - Austria, Czech Republic, Denmark, Finland, France, Germany, Luxembourg, the Netherlands, Slovakia, Slovenia, Spain e Sweden -; e l'altro gruppo di 15 paesi che invece concede scarsi o nulli diritti di rappresentanza - Belgium, Bulgaria, Cyprus, Estonia, Greece, Hungary, Ireland, Italy, Latvia, Lithuania, Malta, Poland, Portugal, Romania e United Kingdom.
 
Ognuno dei due gruppi conta per circa la metà del PIL della UE. Hanno quindi uguale importanza in termini economici. I due gruppi sono stati confrontati sugli otto indicatori utilizzati da Eurostat per misurare il progresso in confronto ai cinque principali obiettivi Europa 2020, che sono:
- percentuale del 75% di occupati sulla popolazione dai 20 ai 64 anni
- spese per ricerche sviluppo pari a 3% del Pil
- raggiungimento dei traguardi europei 20-20-20 (20% di tagli alle emissioni di gas inquinanti; 20% di energie rinnovabili sul totale e 20% di riduzione dei consumi di energia) 
- la percentuale di uscita dalla scuola primaria sotto al 10% e almeno il 40% della popolazione dai 30 ai 34 anni con una laurea
- almeno 20 milioni di persone fuori dal rischio di povertà e di esclusione

I risultati sono evidenti ed espliciti: rispetto a tutti i cinque gli indicatori del programma Europa 2020 senza alcuna eccezione i paesi che hanno adottato legislazioni più favorevoli alla cogestione sono molto più performanti degli altri. Questo significa che se si vogliono raggiungere gli obiettivi del programma europeo occorre incentivare la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese.


Risultati analoghi sono stati rilevati in uno studio precedente (dati 2006) che metteva a confronto i due gruppi di paesi rispetto agli obiettivi fissati dal trattato di Lisbona.


Correlation does not imply causation. Ma questi studi dimostrano in modo inequivocabile almeno due cose:
- la cogestione certamente non danneggia le aziende e l'economia, come invece vorrebbero i neoliberisti accecati dall'ideologia antisindacale e antisocialista e a favore del potere monocratico di azionisti e manager
- la cogestione può dare un contributo essenziale all'occupazione e allo sviluppo economico sostenibile delle economie più avanzate.

In Germania, nei paesi scandinavi e del nord Europa si è affermato un modello di condivisione per la gestione strategica delle imprese grazie al quale i lavoratori e i sindacati da una parte collaborano per lo sviluppo dell'impresa, e dall'altra esercitano però una forma effettiva di controllo e di contro-potere verso gli azionisti e i top manager. I lavoratori e i sindacati hanno un potere limitato e minoritario rispetto a quello della proprietà: tuttavia possono affermare un vero controllo dal basso in termini di informazione e di consultazione: e il loro diritto di veto – per esempio nel caso importantissimo delle localizzazioni all'estero, delle chiusure di impianti, delle fusioni e delle acquisizioni aziendali – è sostanziale e non puramente nominale. La cogestione non comporta però la fine dei conflitti e la subordinazione sindacale, anzi: il conflitto sindacale è regolamentato ma è un diritto riconosciuto e ampiamente esercitato.

Grazie alla cogestione, nel modello tedesco le aziende non sono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario, come invece avviene nel sistema anglosassone dominante in Europa. Il risultato è che la Germania è uno dei paesi con minor tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori delle famiglie. La confindustria tedesca tenta costantemente di restringere la co-determinazione, affermando che frena la competizione: ma anche grazie all'introduzione della Mitbestimmung la Germania è diventata la principale potenza manifatturiera – e quindi finanziaria e politica – in Europa. 
Per questi motivi anche in Italia ci sembra indispensabile cominciare a discutere non solo del “modello tedesco” di articolo 18... ma anche dei meriti della Mitbestimmung e della crisi del modello anglosassone di corporate governance. 

La Mitbestimmung offre dei vantaggi che ci sembrano ampiamente dimostrati; ovviamente è però anche criticabile e – come tutte le cose – non è certamente priva di rischi. Sul piano giuridico in Italia la co-determinazione sembra possibile grazie all'articolo 46 della Costituzione (quello forse meno applicato) per cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende". Sul piano politico occorrerebbe considerare che la questione della democrazia economica potrebbe interessare tutta l'opinione pubblica democratica – la sinistra ma anche ampi settori cattolici e perfino i liberali più radicali –, e non solo i lavoratori delle fabbriche e i sindacati. Come l'acqua e il nucleare – su cui sono già stati vinti i referendum – il problema della democrazia nell'economia è infatti trasversale e riguarda tutti i cittadini. Perché allora la sinistra italiana sembra avere paura di discutere apertamente e a fondo questa questione strategica di democrazia? 

Ovviamente è molto difficile introdurre forme di Mitbestimmung nel nostro paese: le resistenze confindustriali sono molto forti. Questo però non è un motivo sufficiente per scartare a priori una discussione approfondita, teorica e politica, sulla democrazia industriale. 

NOTE

[1] Il potere dei giganti, Colin Crouch, Laterza, 2012,
[2] Finanzcapitalismo, Luciano Gallino, Einaudi, 2011
[3] “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards”, Journal of Financial Economics, 2006, Larry Fauver e Michael E. Fuerst 
[4] The European Partecipation Index: a tool for Cross National quantitative comparison, Sigurt Vitols, European Trade Union Institute, Ottobre 2010.
[5] “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards”, già citato.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-modello-tedesco-per-la-democrazia-economica/