sabato 9 giugno 2012

Bellissima!



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Trattativa Stato-mafia, indagato l’ex ministro dell’Interno Mancino. - Giuseppe Pipitone


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L’ultimo indagato nell’inchiesta sulla Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle Stato è un membro di spicco delle istituzioni. L’ex presidente del Senato Nicola Mancino è infatti accusato dalla procura di Palermo di aver rilasciato false dichiarazioni durante le sue audizioni davanti ai magistrati. “Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose” aveva detto perentorio il sostituto procuratore Nino Matteo subito dopo l’audizione di Mancino davanti la quarta sezione penale di Palermo durante il processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Oggi proprio per Mancino è scattato l’avviso di garanzia per falsa testimonianza.
Ad inguaiare l’ex dirigente della Democrazia Cristiana sono state le varie discrepanze emerse durante i confronti con altri esponenti politici , come Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, che come lui erano in carica nel periodo 1992 – 93, ovvero durante il governo guidato da Giuliano Amato. Mancino, Scotti e Martelli sono stati sentiti a più riprese dagli inquirenti palermitani ma i loro ricordi sulle dinamiche politiche dell’epoca sono apparsi in certi casi assolutamente inconciliabili. La discrepanza più evidente è emersa in merito all’avvicendamento tra Scotti e lo stesso Mancino alla guida del Ministero dell’Interno il 28 giugno del 1992
Scotti, sentito per l’ultima volta nei giorni scorsi dalla procura di Palermo, aveva raccontato come fosse all’epoca intenzionato a rimanere al Viminale anche nel nuovo governo Amato. All’improvviso però erano sorte delle complicazioni riguardo alla sua riconferma. Complicazioni che avevano portato alla sua nomina al vertice del ministero degli Esteri e alla conseguente designazione di Mancino come ministro degli Interni. “Sono andato a letto credendo di essere nominato il giorno dopo ministro dell’Interno e invece mi sono svegliato Ministro degli Esteri” aveva raccontato Scotti ai magistrati palermitani.
Molto diversa invece la ricostruzione di Mancino. Completamente diversa in effetti. “Chiamai Scotti per convincerlo ad accettare il ruolo di Ministro dell’Interno” ha detto l’ex presidente del Senato nella sua deposizione al processo Mori, raccontando anche che fu lo stesso Scotti “a non volere più ricoprire l’incarico di ministro, dato che nella Democrazia cristiana avevamo deciso che chi entrava nel governo doveva dimettersi da deputato”.
I magistrati palermitani hanno registrato gravi differenze anche nel confronto tra Mancino e l’allora guardasigilli Claudio Martelli. L’ex numero due di Bettino Craxi ha raccontato agl’inquirenti di un suo incontro con Mancino nel luglio del 1992, in cui si sarebbe lamentato per le attività non autorizzate dei Ros. Secondo la procura palermitana proprio in quei giorni il capo dei Ros Mario Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno (entrambi indagati nella trattativa) incontravano in segreto don Vito Ciancimino. Mancino però ha negato nettamente che quei colloqui tra il Ros e Ciancimino siano stati oggetti di discussione con Martelli: “Abbiamo parlato di altro e in particolare dell’opportunità di lavorare in sintonia”.
Un altro nodo da sciogliere per l’ex ministro dell’Interno è rappresentato anche dall’incontro che avrebbe avuto con Paolo Borsellino il primo luglio del 1992, il giorno del suo insediamento al Viminale. Prima di una parziale ammissione durante le deposizione al processo Mori, Mancino aveva negato a più riprese l’incontro con Borsellino, arrivando a sostenere di non ricordare di aver stretto o meno la mano al giudice che sarebbe poi stato assassinato in via d’Amelio il 19 luglioseguente.
Dopo la notizia dell’indagine a suo carico per falsa testimonianza Mancino, che è stato di recente anche vice presidente del Csm, ha reagito con tranquillità “Non mi sorprende la notizia della mia iscrizione nel registro degli indagati. Il teorema che lo Stato, e non pezzi o uomini dello Stato, abbia trattato con la mafia è vecchio di almeno venti anni, ma non c’è ancora straccio di prova che possa confortarlo di solidi argomenti. Per quanto mi riguarda, sono stato ministro dell’Interno e ho difeso lo Stato dagli attacchi della mafia, che ho combattuto con fermezza e determinazione”.

C'era anche una Santabarbara nella Bat-casa di Moratti junior. - Emilio Randacio



Mitra, carabine e pistole nel loft irregolare del figlio dell'ex sindaco che aveva un poligono di tiro e che ospitava, all'interno del box, un jeeppone Cherokee e quattro Harley Davidson.


La piscina con il ponte levatoio era solo uno dei mille optional. Nella residenza di via Ajraghi del figlio dell’ex sindaco Letizia Moratti, non mancava praticamente nulla. Annesso al poligono di tiro (uno dei dettagli inseriti dopo aver visto l’ultimo film di Batman), fatto appositamente costruire dal trentatreenne Gabriele, c’era anche la teca dove custodire le armi, un box dove parcheggiare la collezione di Harley Davidson (quattro), o il jeeppone (un Cherokee). 

L'interno della casa in stile Batman Gli optional del loft di via Ajraghi

Tanti dettagli che emergono dalle migliaia di pagine con le quali il procuratore aggiunto, Alfredo Robledo, la scorsa settimana ha chiuso l’indagine a carico di Gabriele Moratti (difeso dallo studio SaponaraNardo), del titolare dell’impresa edile che ha costruito la «reggia» (Ezio Maldi), dell’architetto che ha firmato il progetto (Fabrizio Santuccio, difeso dall’avvocato Antonio Rodontini) e del tecnico del Comune che doveva vigilare sulla regolarità del cantiere (Sabrina Di Pietro, difesa da Roberta Quagliata). Tutti accusati di aver ristrutturato "5 unità immobiliari" in via Airaghi 30, accatastate ufficialmente come laboratori, cambiandone la destinazione d’uso senza permesso. 

Lo scandalo risale al 2010 quando l’allora consigliere dell’opposizione Basilio Rizzo presenta un’interpellanza per conoscere lo stato della pratica urbanistica dell’abitazione del figlio del sindaco. A fine luglio, una pattuglia del Comune viene spedita in via Ajraghi per un sopralluogo. Nel loro verbale, però, i tecnici registrano «l’impossibilità di accedere allo stabile per mancanza del proprietario». Per sapere se realmente quella megaresidenza sia abitata, nonostante la legge lo vieti, passeranno 60 giorni. Il 28 settembre i tecnici di palazzo Marino, dopo aver contattato il proprietario (Gabriele Moratti), hanno accesso finalmente alla casa. E davanti ai loro occhi, lo scandalo non sembra così evidente. 

Qualcosa è successo in quei due mesi. E a svelarlo ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria, è l’imprenditore che ha arredato l’immobile (spesa di 500mila euro). Secondo il suo racconto, la casa era abitabile «dal novembre del 2009». La sua azienda ha pensato a tutto: «Presso l’immobile abbiamo realizzato al piano terra la botola, la cucina, la libreria e un armadio guardaroba. Nel soppalco, una camera padronale con cabina armadio, progettata per contenere la collezione di armi, con annesso bagno». Un elenco interminabile che dimostra come quando Letizia Moratti era seduta sulla poltrona più importante di Palazzo Marino, il figlio, arredava la sua nuova casa (prezzo al rogito 1milione e 400mila euro), in barba alla legge.

I finanzieri mostrano al testimone le foto effettuate dal personale del Comune il 28 settembre. E, dalla risposta, intuiscono quello che è successo. «Dalle foto che mi esibite - risponde il teste - deduco che la situazione riscontrata non è quella che la mia azienda aveva lasciato. Posso affermare che gli arredi sono stati svuotati e spogli di ogni oggetto e i locali riempiti di scatole, attrezzature da cantiere e materiale vario». Dopo lo scandalo, dunque, qualcuno ha tentato di mascherare le irregolarità, inquinare le prove.  Impressionante il numero di armi rinvenute in via Ajraghi. Quattro pistole, un «fucile a pompa marca Fabarm», «una rivoltella Uberti», e una «carabina Beretta». Tutte regolarmente registrate e, probabilmente, pronte per essere usate nel tiro a segno che il giovane Moratti si è fatto costruire nello scantinato.






http://milano.repubblica.it/cronaca/2012/06/09/news/c_era_anche_una_santabarbara_nella_bat-casa_di_moratti_junior-36828193/?ref=HREC1-10

Via Poma: i giudici, su Busco ne' prove ne' movente.



Le motivazioni della sentenza di appello: dubbi sul morso, alcuni punti oscuri.


ROMA - Non ci sono prove per dimostrare che Raniero Busco il 7 agosto 1990 uccise l'allora fidanzata Simonetta Cesaroni; anzi, di più, non c'é un movente dietro l'omicidio e rimangono "inquietanti" interrogativi a rendere oscura una storia che da subito catturò l'opinione pubblica, restando ancor adesso uno dei più bui misteri di Roma. A solo 42 giorni dalla sentenza di secondo grado, i giudici della I Corte d'assise d'appello hanno depositato le motivazioni del provvedimento con il quale il 24 aprile hanno assolto Busco dall'accusa di omicidio aggravato da sevizie e crudeltà, ribaltando la sentenza di primo grado che invece lo aveva visto condannato a 24 anni di reclusione.
Ventinove coltellate, in più parti del corpo: così fu trovata Simonetta negli uffici romani dell'Aiag. Una tragedia sulla quale ci sono state due inchieste; l'ultima nel 2004, quando le prove furono rivalutate alla luce delle nuove tecnologie. Si arrivò all'imputazione di Busco, s'inframezzò con la sua condanna, si è conclusa con l'assoluzione. E alla fine "non vi sono elementi per ritenere provata al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità" di Raniero, si legge tra le righe delle 186 pagine della sentenza. Non vi è prova che in occasione dell'omicidio "fu inferto un morso" a Simonetta; è uno dei 'punti fermi' dei giudici. Anche qualora un morso ci fosse stato, poi, "una sua attribuzione all'imputato non sarebbe scientificamente sostenibile".
Per i giudici, chi uccise Simonetta "ripulì accuratamente la scena del delitto", portando via la maggior parte degli indumenti della ragazza; sul reggiseno e sul corpetto della ragazza "sono presenti tracce di Dna minoritario riconducibili a Busco", ma "non è provato che le stesse siano state rilasciate in occasione del delitto". Chiaro il passaggio della sentenza in merito al movente 'inesistente'. Sostengono i giudici che Simonetta e Raniero avevano certo una relazione che "poteva essere problematica", ma non c'é traccia dell'esistenza di "atti specifici di violenza commessi dall'imputato"; si accenna anche al ritrovamento di "tracce biologiche ed ematiche attribuibili a due diversi soggetti di sesso maschile che non possono identificarsi con Raniero Busco" e non c'é prova che il giovane abbia fornito un "alibi mendace".
Alla fine, i giudici rilanciano anche quelli che definiscono "i punti oscuri della vicenda": la resistenza della portiera Giuseppa De Luca (moglie del portiere Pietrino Vanacore, suicidatosi alla vigilia della sua deposizione nel processo di primo grado) a consegnare le chiavi dell'ufficio di via Poma alla polizia, il fatto che le stesse chiavi non dovessero essere in possesso della donna, e il ritrovamento dell'agendina rossa di Vanacore fra gli effetti personali di Simonetta,benché lui avesse sempre detto di non essere entrato in quell'ufficio prima dell'accesso che avrebbe portato alla scoperta del cadavere. Tutti elementi che non portano "a una tranquillizzante certezza".