martedì 6 novembre 2012

Niente di più vero.



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Legge elettorale: premio col 42,5%. Rutelli: “Così non lo prende Grillo”.


Legge elettorale: premio col 42,5%. Rutelli: “Così non lo prende Grillo”


L'emendamento presentato dal leader di Api votato da Pdl, Lega, Udc e Mpa. Pd furente: "Il dialogo è finito. Vogliono una leggere per impedire la governabilità". Bersani: "Qualcuno teme che governiamo noi". Ora lo scontro si sposta in Aula. Ma Casini assicura: "E' l'inizio dell'accordo".

Via libera della commissione Affari Costituzionali del Senato a un emendamento alla legge elettorale che prevede che per conquistare il premio di maggioranza una coalizione debba superare una soglia del 42,5% (oggi invece lo prende la coalizione a prescindere dalla percentuale). A favore dell’emendamento presentato da Francesco Rutelli, oltre al suo gruppo Api, anche la LegaUdcMpa e Pdl. Il senso del provvedimento dell’ex sindaco di Roma? E’ lui a spiegarlo: “Evitare che Grillo prenda il premio di maggioranza”. Contrari Pd e IdvSi tratta della seconda approvazione, nel giro di poche settimane, che avviene con i voti della “vecchia maggioranza” (cioè il centrodestra che vinse le elezioni del 2008), anche se in questo caso ha avuto la presenza – decisiva – delle forze di centro dell’Udc e dell’Api di Rutelli. Che dice: “Una soglia significativa è la condizione base per evitare avventure. Il Sicilia il primo partito è stato quello di Grillo e la prima coalizione quella di centrosinistra – è il ragionamento dell’ex sindaco di Roma –  Occorre una soglia alta per avere un premio di maggioranza per governare altrimenti il rischio è che il primo partito che ottiene il premio è Grillo. Ed è un rischio molto alto”.
Un emendamento anti Grillo, quindi. E Rutelli non lo nasconde. “Qui si tratta – aggiunge – di mettere a punto un sistema che consenta a una coalizione di governare, altrimenti diventa una legge truffa. O c’è una maggioranza coerente e adeguata che ottiene il premio per il governo oppure è bene redistribuire il premio in modo che sia il parlamento a formare la coalizione che sceglie il premier anziché affidare il tutto a un terno al lotto”. Secondo il leader dell’Api “non si può dare il 55 per cento” dei seggi “a chi prende il 30 per cento” dei voti, “sennò lo prende Grillo”.
Tutto ciò accade nella stessa giornata in cui il segretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani aveva avvertito: “Sulla legge elettorale non si fanno colpi di mano da parte di maggioranze spurie. Il Pd è pronto a discutere in commissione ma no a votazioni random né a forzature”. Il no a qualsiasi forzatura è per Bersani uno dei due punti fermi. L’altro è la garanzia di governabilità. “Serve attenzione alla governabilità perché l’Italia si trova davanti a tantissimi problemi e la colpa più imperdonabile sarebbe allestire una legge elettorale che in premessa inibisse la governabilità”, ha avvertito. Detto questo, ha proseguito, “siamo assolutamente pronti a discutere. La commissione deve continuare una discussione che porti a una soluzione ben fatta, non con votazioni random e l’idea di forzare la mano che potrebbe avere qualcuno. La soluzione è possibile e noi abbiamo qualche idea”. E sempre oggi il presidente del Consiglio Mario Monti aveva auspicato un accordo tra i partiti anche se aveva avvertito che anche il governo potrebbe avere gli strumenti tecnici per intervenire, in questo sostenendo anche il nuovo appello del presidente della Repubblica.
E invece? Invece è successo proprio quello che Bersani aveva auspicato non succedesse. Così la capogruppo del Pd in Senato, Anna Finocchiaro, usa toni duri: così, dice, è rotto il dialogo. Questo voto ripropone “la riedizione di una strana maggioranza, una strana coalizione magari con un premier tecnico che garantirebbe il Pdl che così non registra una debacle, la Lega e le opposizioni”. A questo punto, continua Finocchiaro, “i lavori della commissione sono compromessi, ora si va in Aula. Noi presenteremo un emendamento per l’Aula se fisserà una soglia al 40% però un premio al 54% oppure un premio al primo partito del 10-12%”. Coloro che hanno votato l’emendamento Rutelli sulla soglia al 42,5% “sono forze politiche – sottolinea – che vogliono consegnare il Paese ad una situazione dove nessuno vince e nessuno perde”. Noi del Pd, invece, vogliamo una legge che dia stabilità al Paese. Purtroppo si sono avverate le previsioni di Bersani”.
Ancor più duro il commento del segretario democratico. “Sia chiaro che se ci si ferma ad oggi noi non ci stiamo non per noi ma per l’Italia, questo impianto va profondamente aggiustato” ha detto Bersani, secondo cui ”evidentemente c’è qualcuno che per paura che governiamo noi vuole impedire la governabilità del Paese. Ma sul punto della governabilità noi non cederemo in nessun modo”. Il segretario del Pd, poi, ha detto la sua anche sul rapporto con l’Udc e con Pierferdinando Casini: “La strada è lunga, ora vedremo quanti sgambetti” ha risposto Bersani a chi gli ha ricordato che il leader dei centristi aveva assicurato che nella riforma elettorale non avrebbe fatto sgambetti al Pd.
Il Pd, proprio perché aveva odorato l’aria di sconfitta in commissione, era rimasto a consulto per oltre un’ora, alla Camera, sulla riforma della legge elettorale prima della seduta in commissione. All’incontro hanno partecipato, tra gli altri, i capigruppo Dario Franceschini e Anna FinocchiaroMaurizio MigliavaccaLuciano ViolanteGianclaudio Bressa. La linea emersa dalla riunione era stata quella di continuare a trattare sulla riforma per evitare che il Pd si ritrovi isolato da un nuovo asse Pdl-Lega-Udc. Il rischio è infatti, si ragiona in ambienti dei democratici, quello di un voto sulla riforma senza il Pd che potrebbe dare il destro agli altri partiti di intestarsi, indipendentemente dall’esito finale del provvedimento, la volontà di riformare l’attuale legge indicando i democratici come quelli che vogliono mantenere il Porcellum. In realtà il problema, secondo il Pd, non era tanto il premio di maggioranza alla coalizione (42,5%, appunto) quanto l’appendice che i democratici vorrebbero: se nessuno conquisti il premio di coalizione scatterebbe il premio (del 10%) al primo partito. In tal senso, il Pd ha fatto intendere che presenterà un proprio emendamento ad hoc non in Commissione, bensì in Aula.
In questo bailamme Pierferdinando Casini trova modo comunque per esultare: “Stanno maturando le condizioni per un accordo sulla legge elettorale. Finalmente”. ”L’individuazione di una soglia era cosa sacrosanta dopo i rilievi della Corte Costituzione” dice Casini. Per il leader dei centristi il testo è “migliorabile”. E non ha nulla a che vedere con il Monti-Bis, sostiene.  Questo sulla legge elettorale, spiega, è “un work in progress. La norma è perfezionabile in Aula, si troverà un’intesa” ed anche nel Pd “lo sanno benissimo che alla fine un accordo si trova”. “Bisognava trovare un punto, altrimenti non se ne usciva” commenta. E il voto contrario del Pd? “Ci sono reazioni di facciata e altre di sostanza. A me interessano le seconde”. Poi sbotta su Twitter: “Basta sceneggiate sulla legge elettorale. Una soglia minima per il premio di maggioranza la chiede anche la Corte Costituzionale. Il Pd, invece di protestare, colga l’ottima occasione per migliorare il lavoro della Commissione. Siamo disponibili a ogni ragionevole modifica”. La ritrovata intesa tra Pdl e Udc è testimoniata anche da un altro fattore: Casini dice le stesse identiche cose (con le stesse identiche parole) di un colonnello del Popolo della Libertà: Fabrizio Cicchitto. “Al netto del confronto avuto col Pd che ci auguriamo possa trovare nei lavori successivi una ricomposizione, comunque è positivo che in Commissione al Senato ci sia stata una decisione perché mette in moto un meccanismo innovativo rispetto all’attuale legge elettorale e quindi crea le condizioni per scriverne un’altra. Ci auguriamo che anche il Pd colga questa occasione per contribuire a scrivere una nuova legge elettorale in una situazione nella quale l’alternativa è il mantenimento della legge attuale”.
Non la pensa così Nichi Vendola, che coglie l’occasione per tornare ad attaccare duramente il leader dell’Udc. ”Al Senato è andata in scena la ‘Notte dei morti viventi’” ha detto il numero uno di Sel, secondo cui “si è ricostruito il centrodestra sulla base della disperazione e con l’obiettivo di rendere ingovernabile il Paese” Poi la stoccata a Pierferdinando Casini che per Vendola “evidentemente ha sentito il richiamo della foresta. Della serie, va dove ti porta il cuore…”.
Acqua sul fuoco, invece, da Gaetano Quagliariello che ha spiegato il timing di quanto accaduto a Palazzo Madama. ”La settimana scorsa ho chiesto una pausa per cercare degli accordi, oggi sono arrivato qui e non ho trovato novità; se ci fosse stata unanimità non ci saremmo tirati indietro su un’ulteriore proroga” ha detto il vice capogruppo del Pdl al Senato. Che poi ha specificato: “Abbiamo votato la soglia ma questo non implica che questo testo non possa essere allargato e specificato. Non abbiamo ancora stabilito cosa accade se non si arriva alla soglia e se si misura con seggi o voti. Diciamo al Pd di scendere dalla torre d’avorio dalla quale ci giudicano per cercare una soluzione per contemperare stabilità e rappresentatività. Per quello che ci riguarda – ha aggiunto Quagliariello – non c’è stata una rottura. C’è l’Aula ma ci sono anche le proposte dei relatori che possono essere ancora fatte in commissione”. E se arrivasse una proposta sul modello D’Alimonte? “Questa proposta – replica Quagliariello – non è ancora arrivata. Se arriverà la valuteremo, se viene fuori non c’è alcuna preclusione”.

Tav, in Francia la Corte dei conti boccia il progetto: “Costi alti e ricavi a rischio”. - Andrea Giambartolomei


Tav, in Francia la Corte dei conti boccia il progetto: “Costi alti e ricavi a rischio”


Nel parere fornito al primo ministro Ayrault, i magistrati rilevano il raddoppio dei costi della linea ferroviaria Torino-Lione. E citano studi secondo i quali l'opera non produrrà profitti neppure in uno scenario di ripresa economica. Il 3 dicembre vertice Monti-Hollande.

costi sono aumentati troppo, da 12 a 26 miliardi di euro, e il flusso delle merci è diminuito. Sono alcune delle critiche al progetto dell’Alta velocità Torino-Lione espresse dalla Corte dei Conti francese. Ieri i magistrati contabili di Parigi hanno pubblicato il parere, fornito al primo ministro Jean-Marc Ayrault a inizio agosto, in cui vengono elencati i dubbi sul progetto. Si tratta di un documento importante in vista del vertice sul Tav tra Mario Monti e François Hollande a Lione il prossimo 3 dicembre.
“Il carattere internazionale del progetto, la sua anzianità e la sua complessità rendono difficile esprimere delle raccomandazioni”, scrive il presidente della Corte Didier Migaud, che chiede di non trascurare soluzioni alternative, cioè i miglioramenti della linea esistente, e di considerare delle misure per spostare il traffico transalpino dalla strada alla ferrovia. I costi del progetto vanno considerati in maniera sistematica, consiglia, tenendo conto della situazione finanziaria del Paese, della rendita dell’opera e della sua capacità di far crescere l’economia. Il documento della Corte ripercorre diverse obiezioni sollevate dai No Tav sul versante italiano
I costi. Nel documento di quattro pagine, la Corte rivede l’aumento del budget del programma di studio e dei lavori preliminari, “stimato inizialmente a 320 milioni, poi a 371, è stato portato a 534,5 a partire dal marzo 2002, in seguito a 628,8 milioni nel programma del 2006. Le stime presentate alla conferenza intergovernativa del 2 dicembre 2010 l’hanno portato a 901 milioni”. Questo costo, quasi triplicato è dovuto alla realizzazione delle discenderie (gallerie), ai problemi geologici e, sul versante italiano, alle proteste e alla variazione del tracciato (da Venaus a Chiomonte), ricorda il presidente Migaud.
Per la parte comune del progetto, i dati del giugno 2010 prevedevano 10,259 miliardi di euro “senza spese finanziarie, manodopera e studi preliminari”, quasi due miliardi in più rispetto al 2003. Nel complesso, la stima del costo globale del progetto è passato da 12 miliardi nel 2002 a venti miliardi nel 2009 e poi a 26 miliardi “secondo gli ultimi dati comunicati dalla direzione generale del Tesoro”.
I flussi. Il progetto è stato “concepito in un contesto di forte crescita dei traffici attraverso l’arco alpino”, scrive Migaud, per questo ora bisognerebbe rivalutare i flussi. Nel 1991, negli anni in cui venne lanciata l’idea della Torino-Lione, il rapporto Legrand prevedeva che i passaggi di mercisarebbero più che raddoppiati tra il 1987 e il 2010, ma già nel 1993 uno studio riteneva che quel rapporto sovrastimasse i passaggi e la crescita. Poi, dal 1999, i traffici sono diminuiti: da una parte la chiusura temporanea del Monte Bianco, dall’altra l’apertura di nuove vie in Svizzera, la fine dei transiti notturni e la crisi. Tutti i passaggi tra Francia e Italia ne hanno risentito, fatta eccezione di Ventimiglia su cui arrivano i flussi dalla Spagna. Solo nel 2035, ricorda la Corte citando uno studio dei flussi voluto da Ltf (Lyon-Turin ferroviaire, società che gestisce l’opera), è prevista la saturazione della linea storica.
Per queste ragioni, tra costi eccessivi e dubbi incassi dei pedaggi, la Corte dei conti ritiene che il progetto abbia una rendita poco certa. Anzi, sottolinea Migaud, “secondo gli studi economici voluti nel febbraio 2011 da Ltf sul progetto preliminare modificato, il valore attuale netto è negativo in tutti gli scenari”, che siano di crisi o di ripresa.
Tuttavia la politica non sembra turbata dal documento. Nella sua risposta a Migaud, il premier Ayrault ribadisce le intenzioni politiche del governo, gli impegni internazionali e in particolare gli accordi con l’Italia. Domani saranno invece i senatori delle regioni francesi interessate dalla linea, Rhones-Alpes e Savoia, a lanciare un appello a sostegno del Tav.

Trattativa, i pm: “Berlusconi e Dell’Utri approdo” del patto con la mafia. - Giuseppe Pipitone


Trattativa, i pm: “Berlusconi e Dell’Utri approdo” del patto con la mafia


I magistrati depositano una memoria al processo di Palermo contro i 12 presunti responsabili del "patto scellerato" tra boss e uomini delle istituzioni. L'ex premier non è indagato, ma viene indicato come colui che, arrivato al governo 1994, assicura "garanzie" a Cosa nostra insieme al suo braccio destro. Nel documento di 22 pagine la ricostruzione, più storica che giudiziaria, di quei fatti.

La “travagliata” trattativa fra Stato e mafia “trovò finalmente il suo approdo”, nel 1994, “nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi. Lo scrivono i pm di Palermo, coordinati da Antonio Ingroia, nella “Memoria a sostegno di rinvio a giudizio” dei 12 imputati accusati di aver contribuito al perfezionamento del patto tra i boss di Cosa nostra e uomini delle istituzioni tra il 1992 e il 1994. Il documento di 22 pagine riassume 120 faldoni di prove, testimonianze, intercettazioni e documenti. E’ la summa dell’atto d’accusa, in cui l’espressione “Ragion di Stato” fa capolino fino alla fine. Nell’ultimo giorno da procuratore aggiunto a Palermo di Antonio Ingroia, i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno depositato la memoria (qui il documento integrale) per meglio spiegare la richiesta di rinvio a giudizio, firmata nel luglio scorso, per i dodici indagati per quel “patto scellerato”. La settimana scorsa, davanti al gup Piergiorgio Morosini, si era tenuta la prima udienza preliminare del procedimento che vede per la prima volta alla sbarra importanti boss mafiosi insieme ad esponenti politici ed alti ufficiali del carabinieri. Un procedimento che si preannuncia difficile, soprattutto per la delicatezza del reato contestato a quasi tutti gli imputati, ovvero quello disciplinato dall’articolo 338 del codice penale: violenza o minaccia al corpo politico dello Stato (“Trattativa, l’accusa e la difesa”: guarda l’infografica di ilfattoquotidiano.it).
Per meglio chiarire l’oggetto giuridico della loro inchiesta i pm Nino Di MatteoLia SavaFrancesco De Bene e Roberto Tartaglia, coordinati da Ingroia, hanno quindi deciso di fornire a Morosini anche una breve e stringatissima  ricostruzione dei fatti contestati agli imputati. Un analisi cronologica, più storica che giudiziaria, del biennio stragista 92-93, in cui i magistrati fanno un salto indietro  fino al 1989: prima del crollo del muro di Berlino, infatti, “la grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale”. Dopo invece si determina “la fine della giustificazione storica della collaborazione con la grande criminalità”. Ed è per questo che Cosa Nostra recide i rapporti con la politica dichiarando guerra allo Stato, lanciando contemporaneamente segnali di pace.
Una concatenazione di eventi che – secondo i pm – è interpretata da due frasi simbolo. “Una – scrivono – è quella di Riina, che spiega ai suoi soldati: «Dobbiamo fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». L’altra è del boss Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle»”. L’obiettivo strategico di Cosa Nostra è costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché  fosse la mafia  “ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l’ingresso della mafia in politica, tout court”.
Per arrivare alla pace però c’è prima bisogno di fare la guerra. Una guerra in cui i protagonisti sono  “i boss mafiosi Riina, Provenzano, BruscaBagarella e il postino del papello Antonino Cinà, autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia a un corpo politico dello Stato, in questo caso il governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima. L’avvio di una campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell’epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi”.
La minaccia secondo i pm si è realizzata, prospettando  “agli uomini-cerniera (ovvero i politici come Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, e i carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno n.d.a) perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del governo, l’organizzazione e l’esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra”. È in questo contesto che finisce indagato Nicola Mancino per falsa testimonianza.  “Chi condusse la trattativa – scrivono sempre i pm – fece un’attenta valutazione: il Ministro dell’Interno in carica Vincenzo Scotti era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre Mancino veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia Parisi”.
Il ruolo di Parisi, nel frattempo deceduto, sarebbe per i pm molto importante nel periodo in cui l’oggetto principale della trattativa era l’alleggerimento del 41 bis. Il capo della polizia infatti era molto vicino all’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro “che, come emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti Scotti-Mancino e Martelli-Conso, e nella sostituzione di Nicolò Amato col duo Capriotti-Di Maggio, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993”.
La trattativa però non è stata soltanto una delicata partita di scacchi con singoli obiettivi tattici, come salvare la vita agli uomini politici inseriti nella black list di Riina, o alleggerire il 41 bis. “Ma – spiegano i pm – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia”.
E per questo che dalla fine del 1993 in poi la trattativa prosegue dietro le quinte, senza clamore. “Si completò, in tal modo, il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri -Berlusconi (come emerge dalle convergenti dichiarazioni di Spatuzza,  Brusca e Giuffrè)”.  I pm infatti mettono nero su bianco che il nuovo patto Stato-mafia fu siglato nel 1994 ,“non prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena insediatosi”.  Una paragrafo della memoria i magistrati lo dedicano anche a Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno a Cosa Nostra e calunnia, ma anche “fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia), ma a cui, d’altra parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e informazioni, che, laddove ed in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose”.
Spazio anche alle nebulose testimonianze rese negli scorsi mesi dagli esponenti politici dell’epoca. “Questo Ufficio – scrivono i magistrati – è consapevole del fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca (un’amnesia durata vent’anni), che avrebbe dovuto arrestarsi”. Un’amnesia dovuta forse a “una male intesa (perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali”. Una ragion di Stato che però non basta ad evitare il procedimento odierno. Il perché è tutto contenuto nell’ultima frase con cui i pm concludono la memoria: “Si è ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli odierni imputati nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare”.