venerdì 11 ottobre 2013

TOTO'-LETTA, PEPPINO E LA MALAFEMMINA.


La curva di Laffer: superato un certo limite, cui corrisponde il gettito massimo Tmax, all'aumentare dell'aliquota si riducono gli incassi per lo Stato.

Come sempre fanno le autorità che provano a passare per incapaci ma sanno benissimo dove vogliono andare a parare, visto che l'eccessiva pressione fiscale ha causato il decadimento di tutti gli indicatori economici del paese, la soluzione è stata brillantemente individuata in un ulteriore aumento delle tasse. Stante la difficoltà di reperire ulteriori possibilità di prelievo, per risolvere la cosa diverse fonti stanno suggerendo all'esecutivo di valutare l'opportunità di chiedere l'anticipo dell'anticipo. Obbligandoci in pratica a versare a fine anno non solo il 105% delle tasse per il 2014, ma anche quelle del 2015, 2016 e 2017. 

Il che è proprio quello che faceva Totò in "Totò, Peppino e la Malafemmina", in una delle scene più divertenti di quel film. Volendo comperare una collana a una bella ragazza, ma non disponendo dei contanti necessari, pensò di farsi dare seduta stante da un suo fittavolo le pigioni anticipate per gli anni a venire.
A fronte della sua richiesta, il fittavolo gli dice: "ma se vi ho già pagato '56, '57 e '58". Allora Totò gli risponde: "Si, ma siamo fuori col '59!" 

Dunque, quello che in un'altra epoca era materia di comicità grottesca, oggi per lo Stato è divenuto un canone istituzionale per la gestione di economia e tributi, proprio secondo la logica del “Punto, punto e virgola e due punti.

Il problema è che, come abbiamo visto, il passaggio dell'IVA dal 20 al 21%, invece di produrre un aumento del gettito ha causato una sua diminuzione. Lo stesso avverrà, e in proporzioni maggiori, in conseguenza dell'ulteriore aumento al 22%.
I motivi ce li spiega la curva di Laffer. Con l'aumento dell'IVA al 22% si avrà un'ulteriore contrazione del gettito. In primo luogo perché induce una crescita dei prezzi, ben superiore all'entità del mero aumento della tassa. Il motivo sta nel fatto che vi si sommano i costi maggiori indotti da quello stesso aumento riguardanti materie prime, trasporto, accise carburanti e spese fisse di distribuzione. Di fronte all'aumento di costi del prodotto finito, le persone, che vedono ulteriormente ridursi il potere d'acquisto del loro reddito, non solo acquisteranno un numero minore di beni, ma tenderanno ad acquistarne sempre di più economici. Questo si tradurrà necessariamente anche in un calo del PIL, in un minore gettito Irpef e in un'ulteriore caduta della domanda aggregata, andando ad acuire la componente da sovrapproduzione della crisi ora in corso, che è tra le più importanti al riguardo. 

Effettuando un prelievo percentualmente maggiore, ne deriva un'ulteriore riduzione della massa monetaria circolante, rendendo più grave quella che è un'altra causa primaria della crisi, la penuria di contanti nelle mani di famiglie e aziende.


La risposta più ovvia di fronte a tutto questo, anche da parte degli organi di presunta informazione, è l'invettiva nei confronti degli sprechi, quando invece sarebbe più corretto iniziare finalmente a comprendere che misure simili vengono adottate in modo consapevole da una casta di governanti collaborazionisti dei poteri esterni al paese. Il loro fine è aggravare quanto più possibile la crisi utilizzata per sottrarre al paese la sua sovranità e ridurlo al destino neocoloniale voluto dai reggitori degli equilibri internazionali.
Dopo 30 anni di presunti errori, e tutti a senso unico, è la stessa legge delle probabilità a gridare a squarciagola che le tesi di "pasticcionismo" oggi tanto in voga non hanno più credibilità alcuna.

Se si omette questo passaggio essenziale, si finisce soltanto con il dare ulteriore sostegno alle azioni contrarie all'interesse del paese eseguite da chi sarebbe ora venisse obbligato a risponderne di fronte alla corte marziale.

Detto questo, per molti è ancora difficile comprendere che il debito pubblico non è un vero problema. Almeno fino a che uno stato è sovrano, quindi è padrone della propria moneta e ha una banca centrale che opera quale prestatore di ultima istanza. I detrattori di questa tesi sostengono che usando i mezzi propri della sua sovranità, uno stato crea inflazione perché stampa moneta per colmare il deficit.
Questo è palesemente falso, come dimostrano innumerevoli esempi della storia passata. Ad esempio con le enormi spese del piano Marshall, gli Stati Uniti hanno creato inflazione oppure le premesse per il boom economico degli anni '60?

Arrivando al presente, nel giugno 2012, il Commissario Europeo Michel Barnier ha reso noto che tra il 2008 e il 2012 l'UE ha approvato aiuti alle banche per 4.500 miliardi di euro. 
Una somma pari al 37% del PIL totale europeo.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/07/il-megasostegno-dellue-alle-banche-4500-miliardi-di-aiuti-di-stato-in-3-anni/256429/
Eppure non c'è stata maggiore inflazione. 
Con quegli stessi soldi si sarebbero azzerati i debiti pubblici di Italia, Grecia e Spagna messi insieme, evitando le sofferenze alle quali si sono assoggettate decine di milioni di individui, oltre a centinaia di suicidi. E ancora sarebbero avanzate le somme necessarie per un poderoso rilancio dell'economia di tutta la zona UE.
Invece si è preferito dare quei soldi alle banche, affinché potessero gettarli nel buco nero delle perdite causate dalla febbre del gioco al casinò della finanza globale.
Oltretutto senza migliorare di un grado la loro situazione economica, come ha ammesso lo stesso Barnier, dichiarando che nonostante la loro mole quegli aiuti sono serviti praticamente a nulla. 

Allora, forse, sarebbe il caso una volta e per tutte di iniziare a spiegare le questioni nei termini corretti. Cominciando dal fatto che i criteri di macroeconomia, quelli cioè cui risponde uno stato, sono molto diversi da quelli microeconomici che devono essere osservati da chi amministra una famiglia o un'azienda.

Non a caso i problemi del nostro paese hanno avuto inizio proprio nel momento in cui c'è stato prima il divorzio tra Tesoro e Banca centrale, e poi quando ha perso completamente la sovranità.
Nel momento in cui è avvenuto quel divorzio, secondo Europa Kaputt di Antonio Rinaldi il debito pubblico italiano era al 58,46% del PIL Stiamo parlando del 1981. Altre fonti danno quel valore al 57,7%. 
Va ricordato che il divorzio fu il frutto di un accordo sottobanco tra Ciampi, a capo di BdI, e Andreatta, Ministro del Tesoro, che non venne sottoposto al vaglio di Camera e Senato. 
I rappresentanti del Popolo, peraltro, si sono guardati bene dal sollevare obiezioni a cose fatte, una volta che il provvedimento venne ufficializzato.
In seguito gli artefici del divorzio hanno sostenuto di averlo fatto per il bene del paese, ovverosia per costringere la classe politica a ridurre le spese a deficit e quindi il debito pubblico. Che invece ha avuto un andamento opposto alle intenzioni dichiarate da Andreatta e Ciampi, causando danni enormi al paese e alla cittadinanza. In merito ai quali non sono mai stati messi di fronte alle loro responsabilità. Uno di essi, anzi, è considerato paradossalmente una specie di padre della Patria. 

In realtà, uno dei veri obiettivi era di abbattere i salari, imponendo una deflazione che desse la possibilità di annullare quello che Andreatta definì “il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dall’accordo tra Confindustria e sindacati”. Infatti, nel 1984 con gli accordi di San Valentino la scala mobile fu indebolita e nel 1992 definitivamente eliminata. 
Anche oggi, come allora, le presunte “necessità” di bilancio pubblico sono la leva attraverso cui ridurre il salario, in Italia e in Europa. Con la differenza che oggi l’attacco si estende al salario indiretto, cioè al welfare.

L'indice del costo del lavoro per unità di valore aggiunto ha avuto un crollo a partire dal 1981, culminato nel 1998. Da allora in poi ha avuto solo un recupero modesto. (fonte ISTAT)
Riguardo al debito pubblico, siccome non è un elemento assoluto, cioè a sé stante ma speculare, deve necessariamente corrispondere al credito di qualcun altro. 
Nella fattispecie alla ricchezza dei cittadini, perché è soltanto per mezzo della spesa a deficit che lo stato può perseguire una politica di crescita, sviluppo, fornitura dei servizi e aumento del benessere. 
Vediamo il perché. 
Se lo stato persegue il pareggio di bilancio, non fa altro che tassare per l'esatta quantità di denaro che ha messo in circolazione. A questo proposito va ricordato che l'emissione di moneta è compito che per ovvi motivi la legge assegna in esclusiva allo Stato. Quindi nessun altro può farlo al posto suo. 
Dunque, se lo Stato inizia col dare 100 soldi ai cittadini ma a fine anno gliene chiede indietro altrettanti, o addirittura di più in base alla politica dell'avanzo primario, non solo toglie ai cittadini tutti i soldi che gli aveva dato, ma ne pretende addirittura degli altri. Che i cittadini non saprebbero più dove prendere, trovandosi nelle condizioni di cedere allo Stato beni materiali o immobili. 
A quel punto, di grazia, quei cittadini con che cosa sopravviveranno?
Con che cosa costituiranno le imprese e realizzeranno i prodotti che contribuiscono allo sviluppo del paese?
Con cosa pagheranno le spese di istruzione, quelle mediche e di assistenza alla popolazione anziana?
Non a caso, da quando la gabbia dell'Euro ha tolto la possibilità agli stati di spendere a deficit non c'è più alcuna crescita. E anzi gli stati dell'Eurozona sono tutti nelle posizioni di coda delle statistiche relative. Compresa la virtuosa Germania, che si trova al 16mo posto degli stati peggiori. Non solo la crescita si è arrestata, ma c'è stato un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita e della quantità e qualità dei servizi. 
Tornando al divorzio Tesoro-BdI, dopo di esso, nel giro di 12 anni, il debito pubblico è passato dal 58,46% del 1981 al 115,66% del 1993 (fonte Europa Kaputt di Antonio Rinaldi su dati BdI). 

Quindi è più che raddoppiato nel giro di 12 anni. Davvero un attestato di competenza per i signori Ciampi e Andreatta, che per mezzo dell'artificio costituito da quel divorzio pretendevano di costringere il paese a ridurlo. 

Andamento del rapporto debito/PIL 1960-2012. Prima del divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia il debito pubblico era sotto al 60%. Dal momento del divorzio ha avuto un'impennata che dopo un breve intervallo successivo all'ingresso nella zonaEuro, dal 2008 ha ricominciato a crescere a ritmo ancora maggiore. (fonte Europa Kaputt di A. Rinaldi su dati Banca d'Italia)
Hanno così dimostrato ancora una volta che agendo per mezzo di sotterfugi ci si rimette in rispettabilità, e soprattutto si creano danni potenzialmente di portata incalcolabile.
Ma attenzione, quello è il dato percentuale, che non tiene conto della crescita del PIL avvenuta nel frattempo, che nel valore a prezzi concatenati è passato da 809.019 milioni di Euro del 1981 a 1.032.013 del 1993, dati ISTAT, con un aumento pari al 127,5%, che va a influire sul valore effettivo del debito. 
Facendo due conti, si vede che il 58,46% di 809.019 equivale a 473.110 milioni di Euro, mentre il 115,66% di 1.032.013 è 1.193.626 milioni di euro. Pertanto la crescita percentuale del debito calcolata sui valori assoluti è stata superiore al 252%. Che suddivisa per 12 anni fa il 21% tondo per ogni anno.
Altro che aumento, qui ci troviamo di fronte a una vera e propria deflagrazione. 
Causata da scelte con le quali si pretendeva di ridurre un debito e invece lo si è fatto esplodere. Sottraendolo per giunta, e questa è la cosa più grave, dal controllo dello Stato, ovvero dalla sua banca centrale per metterlo nelle mani della speculazione internazionale, che ovviamente vi ha lucrato somme enormi. http://www.cobraf.com/forum/coolpost.php?reply_id=123470958 
E ha preteso interessi sempre maggiori, che ormai sono la parte di gran lunga preponderante del nostro debito.

Il totale degli interessi sul debito 1995-2011 equivale al 71% del debito pubblico complessivo.
(fonte Eurostat)
In sostanza, i cittadini italiani si sono visti sottrarre dai loro governanti quantità sempre maggiori della loro ricchezza e dei servizi gestiti dallo Stato, che sono serviti per favorire la speculazione finanziaria internazionale. 
Ora, chi ha causato in prima persona questo disastro non è mai stato chiamato a giustificare le proprie azioni e ad assumersi le proprie responsabilità. Viceversa gli è stata attribuita la più alta carica dello Stato.
Proprio come in "Omega" di Robert Sheckley, che narra di una società in cui la gerarchia sociale è stabilita in base ai crimini perpetrati da ciascuno. Ma se quello è un libro del genere science-fiction, la questione Tesoro-BdI e quanto ne è derivato è solida realtà. 


Oltre a tutto questo, se ancora non fosse più che abbastanza, si è fatto in modo da porre il paese in una posizione molto più esposta agli effetti della crisi economica, come evidenzia il grafico relativo all'andamento del rapporto debito pubblico/PIL nella parte relativa agli anni dal 2007 in poi. 
Quindi la crisi, si badi bene, non è dovuta ai cittadini che hanno voluto vivere al di sopra delle loro possibilità, come certe fonti interessate vorrebbero far credere per attribuirne loro le presunte cause e trovare il pretesto per scaricargliene i costi, ma a una politica economica di feroce classismo e ciecamente deflattiva. 
Che non solo ha decurtato i salari in maniera significativa, ma ha addossato alla comunità quantità di debito enormi e in perenne crescita, malgrado la progressiva riduzione dei servizi offerti dallo Stato. Questo ha determinato l'ingerenza progressivamente maggiore dei poteri esterni, con il risultato di essere espropriati persino della facoltà di decidere come spendere i nostri soldi, cosa per la quale dobbiamo andare a chiedere il permesso a Bruxelles e a Berlino, dove le decisioni in merito sono prese in base a interessi che nulla hanno a che vedere con quelli del nostro paese.


Risultato: impoverimento generalizzato, smantellamento del sistema industriale, economico e del welfare, disoccupazione, demansionamento, spreco e allontanamento delle professionalità, svendita del patrimonio dello Stato che i cittadini hanno pagato con le loro tasse. Ovvero i presupposti necessari affinché il paese non riesca più a risollevarsi, rimanendo indefinitamente nelle condizioni che permettono ad altri di trarre profitto dalle nostre disgrazie. 
Causate da una classe dirigente designata e imposta al fine di ottenere proprio questo risultato.

Clack


http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=12426

Alitalia sull’orlo della bancarotta: gli errori di compagnia e politica. - Andrea Giuricin

Alitalia sull’orlo della bancarotta: gli errori di compagnia e politica

Dalla “ripartenza” del Piano Fenice ad oggi ha accumulato perdite pari a 1138 milioni di euro. Nel 2008 era ripartita "alleggerita" dai debiti, ma negli anni successivi è stata affossata da errori di valutazione strategica combinati con nuove tasse legate all'aeroporto di Fiumicino. Senza contare le gravi responsabilità proprio dei "patrioti" azionisti.

Alitalia verso il salvataggio grazie a un nuovo intervento del capitale pubblico, con l’aumento di capitale finanziato in parte da Poste italiane. Come si è arrivati a questa situazione così critica? La compagnia ha accumulato perdite pari a 1138 milioni di euro dalla “ripartenza” del Piano Fenice ad oggi. La situazione è andata peggiorando negli ultimi due anni, dato che in soli 18 mesi il vettore ha perso quasi 600 milioni di euro. Vi sono forti responsabilità della compagnia? Vi sono responsabilità della politica? A entrambe le domande la risposta è univoca: si. La compagnia aerea è nata con un Piano di sviluppo sbagliato. Troppo concentrata sul mercato domestico e troppo poco sul mercato intercontinentale. Il mercato nazionale è quello maggiormente concorrenziale e aggredibile, mentre quello a lungo raggio rimane in una sorta di oligopolio e d possibile fare i margini maggiori. Lo sapeva la compagnia? Si, lo sapeva.
Perché non ha fatto nulla? Alitalia si aspettava un regalo da parte della politica e questo è arrivato. Il blocco dell’Antitrust per tre anni ha di fatto limitato la concorrenza sul mercato nazionale. Ma non abbastanza. La crescita di Ryanair ed Easyjet e dell’alta velocità hanno minato il piano Fenice. Alitalia inoltre nasceva con l’acquisto degli aerei a corto raggio da parte di Airone e con quegli aerei il management doveva fare il suo piano di sviluppo. Peccato che il vettore avrebbe fatto meglio a concentrarsi sul mercato a lungo raggio, ma ormai non c’erano i soldi. La politica ha inoltre liberato la vecchia “Alitalia” dei debiti, così che Cai potesse partire alleggerita dal peso lasciato ai contribuenti italiani. Ma la politica poi non è stata così perspicace in altri momenti. Nel dicembre 2012, come ultimo atto del Governo Monti, è stato approvato l’aumento delle tasse dell’aeroporto di Fiumicino per circa 11 euro a passeggero per i voli a lungo raggio e 8 euro per quelli a corto raggio.
Alitalia, che stava sviluppando una rete di voli a lungo raggio da Fiumicino si è trovata con 120 milioni di euro l’anno da pagare in nuove tasse. Un aumento che affonda definitivamente le ali della compagnia. La politica regionale ha fatto qualcosa? Certo. Per salvare il buco della “sanità” laziale, la Regione Lazio ha deciso di introdurre l’Iresa, una tassa sull’inquinamento sonoro degli aeroporti che costa ad Alitalia almeno 20 milioni di euro l’anno. Anche in questo caso, l’intelligenza politica ha deciso di tassare maggiormente i voli a lungo raggio. Veniamo agli azionisti. Hanno gravi responsabilità. La mancanza di aumenti di capitale nell’ultimo anno non ha permesso alla compagnia di fare piani di sviluppo, ma solo piani di sopravvivenza. Ora gli azionisti italiani vorrebbero uscire dalla partita. Forse troppo tardi, perché AirFrance-KLM socio al 25 per cento della nuova compagnia ha interesse ad acquistarsi Alitalia a costo zero. Ma quello è il valore dell’azienda indebitata e con 1.138 milioni di euro di perdite in quattro anni e mezzo. L’arrivo del socio pubblico è appoggiato dagli azionisti italiani che vorrebbero forse avere qualcosa dalla vendite delle azioni. Certo, significherà ancora una volta girare ai contribuenti le perdite di Alitalia.
Leggi anche:
Alitalia è salva e italiana. (A spese del contribuente)
Ne è valsa la pena? Lo sapremo tra cinque anni... Giovanni Martino
      
Il salvataggio di Alitalia è – a nostro avviso - una buona notizia. Che però suscita una serie di importanti interrogativi. Come si è potuti giungere sull’orlo del fallimento? Di chi le responsabilità del disastro? La soluzione scelta per il salvataggio è la migliore? Quanto è costata al contribuente italiano? Può considerarsi una soluzione definitiva? Quali ricadute avrà la vicenda Alitalia sul sistema industriale italiano?

Le cause della crisi
Il maggior azionista di Alitalia era il Tesoro (quindi si trattava di una compagnia pubblica), per cui i suoi debiti sono sempre stati ripianati con fondi dell'erario, cioè con maggiori tasse (o minori servizî erogati agli Italiani). Da quando è stata quotata in borsa, la compagnia ci è costata (tra ricapitalizzazioni e debiti ripianati) circa 13 miliardi di euro, di cui 5 miliardi negli ultimi 10 anni!
Qualcuno potrebbe pensare: “Beh, le tasse dovranno essere pur spese per i servizî pubblici, e i trasporti aerei sono un servizio pubblico importante”. Sbagliato.
Il trasporto aereo è un servizio importante, ma non è un servizio pubblico. I “beni pubblici” sono un categoria rigorosamente delimitata, individuabile solo nei casi in cui non è misurabile l'uso del bene.
Il trasporto aereo è un servizio che può agevolmente essere venduto a chi ne usufruisce. E un bene importante, certo, ma ci sembra difficile sostenere che si tratti di un bene da incentivare, come l’istruzione obbligatoria o l’assistenza sanitaria essenziale... Che questo servizio possa essere offerto da un’azienda sana, semplicemente vendendo il prodotto offerto, lo dimostrano del resto tutte le altre compagnie aeree, le quali non hanno maturato il passivo di Alitalia (o, quando lo hanno maturato per una gestione inefficiente, sono fallite: Pan Am, TWA, Swissair, Sabena).
La verità, dunque, è che il passivo (enorme) di Alitalia è maturato semplicemente per un eccesso di sprechi.
La lista delle spese folli l’abbiamo letta a più riprese sui giornali negli ultimi mesi.
Stipendi (soprattutto del personale di volo) certamente non miseri. Secondo i dati riservati dell'Aea (l'Associazione delle compagnie aeree europee) – Alitalia e i sindacati si rifiutano di fornire i dati! - nel 2006 i piloti hanno avuto uno stipendio complessivo medio di 121mila euro, al lordo delle tasse ma al netto delle indennità, che incidono molto sul reddito finale (si pensi solo alla cosiddetta “indennità lettino” per la monetizzazione del riposo non goduto, che pare sia stata abolita nel 2005, e che poteva arrivare a 1.800 euro al mese). Gli assistenti di volo (hostess e steward) prendono oltre 48mila euro, sempre al lordo delle tasse e al netto delle indennità.
Benefit immotivati come l’auto-pullmino aziendale con autista che andava a prendere e riaccompagnava a casa il personale di volo; distacchi sindacali che comportavano un costo dieci volte tanto quello delle altre compagnie; alberghi cinque stelle per il personale in trasferta anche in Italia; sedi di rappresentanza aperte in Paesi (come il Messico) in cui Alitalia non era più operante.
Si aggiunga la cattiva gestione del personale, cui ha contribuito il potere di cogestione (assunzioni, promozioni) riconosciuto ai sindacati, soprattutto ai potenti sindacati di piloti e assistenti di volo.
Negli ultimi anni, peraltro, si era creata un'odiosa separazione tra personale di serie A (personale di volo e personale di terra con vecchi contratti, molto vantaggiosi) e di serie B (personale di terra neoassunto, con contratti - a parità di mansioni - molto più sfavorevoli e spesso precario).
Ma l’elemento più importante è stato la produttività bassissima: orario di lavoro effettivo medio di 40 ore al mese (sì, avete letto bene: non alla settimana, ma al mese), di molto inferiore a quello della concorrenza (circa la metà), con situazioni paradossali per il personale di volo impegnato in voli che partivano da aeroporti diversi dalla città di residenza. Ad esempio, i membri di un equipaggio di Roma che dovevano effettuare un volo A/R da Malpensa ad un Paese estero timbravano al mattino il cartellino a Fiumicino, ed iniziavano quindi a risultare in servizio; dopodiché prendevano un volo per Milano come passeggeri; arrivavano a Milano, soggiornavano e pernottavano – sempre a spese di Alitalia – per garantirsi il necessario riposo; il giorno dopo si trasferivano a Malpensa per effettuare l’andata del volo che costituiva la loro produttività effettiva; arrivo nella destinazione estera, pernottamento, viaggio di ritorno, e nuovo pernottamento a Milano; il giorno successivo, infine, nuovo viaggio come semplici passeggeri in un volo che li riportava a Roma, e – finalmente – timbratura di fine servizio a Fiumicino. Prima di riprendere servizio, fruivano di tre giorni di interruzione del lavoro tra festività riposo... Insomma: retribuiti per effettuare, in una settimana (di cui quattro giorni considerati come lavorativi a tempo pieno con indennità di trasferta, ecc.) un solo viaggio internazionale!
Consideriamo questi sprechi inaccettabili non in nome di un facile pauperismo, o del disconoscimento della professionalità degli addetti; ma semplicemente perché si tratta di sprechi coperti anche col denaro pubblico. Al confronto, sono moralmente molto più rispettabili gli ingaggi milionarî dei calciatori.
Per questo motivo, sono state davvero stucchevoli le proteste di piloti e assistenti di volo che definivano “mortificante” il nuovo contratto proposto da CAI (Compagnia Aerea Italiana, la cordata di imprenditori italiani sollecitati da Berlusconi a presentare un’offerta e che hanno infine acquistato le attività di Alitalia). Alcune frange si illudevano che il vecchio andazzo potesse continuare, che ci fossero ancora i margini per chiedere allo Stato nuovi interventi economici. Va dato atto al Governo di aver tenuto il punto, chiarendo che un’epoca, quella delle partecipazioni statali (Alfa Romeo-AlfaSud, Motta, Cirio, Banco di Napoli, ecc.) e degli sprechi di denaro pubblico, è definitivamente tramontata.
L’altro spreco era costituito dagli esuberi di personale. Un solo esempio al riguardo: l’attività di trasporto cargo aveva 180 piloti per 5 aerei !!! In totale, gli esuberi di Alitalia sono stati calcolati in circa 3.000 persone (che salgono a 7.000 calcolando nel totale precedente i dipendenti AirOne – che confluisce nella nuova compagnia -, i precarî, i dipendenti dei servizî esternalizzati).
Possiamo considerare uno “spreco” dar lavoro a migliaia di famiglie? In astratto no. Lo Stato deve cercare di creare le condizioni economiche perché tutti possano lavorare. Ma non lo deve fare assumendo direttamente. La via da percorrere è quella di favorire il lavoro ‘vero’, produttivo; non l’assistenzialismo mascherato, che distoglie risorse dalla crescita economica del Paese.
E però: quando la “frittata” è fatta, quando i lavoratori in eccesso sono stati assunti, si possono mandare “in mezzo a una strada”? Le “ristrutturazioni” aziendali non sono un meccanismo crudele?
Attenzione: la crescita economica delle società si basa proprio sull’aumento di produttività del lavoro, che rende necessario un minor numero di lavoratori per produrre gli stessi beni del passato, e libera nuove energie in nuove produzioni (altrimenti avremmo ancora i fabbricanti di ghette per scarpe...).
Certo, poche decine di esuberi sarebbero facilmente assorbibili dal mercato del lavoro; migliaia no, o almeno non subito. È per questo che è stato utile l’impegno diretto degli ultimi Governi nel trovare una soluzione di salvataggio che non rendesse gli esuberi un problema di dimensioni tragiche; ed è per questo che esistono gli ammortizzatori sociali. (Anche se va detto che sette anni di “disoccupazione” retribuita, garantiti ai lavoratori che non verranno riassunti nella nuova Alitalia, sembrano un favoritismo inspiegabile rispetto ad altri lavoratori. Prima quelle persone torneranno a lavorare, prima daranno il loro contributo alla crescita economica.)
Inoltre, sarà importante un impegno delle istituzioni per favorire la formazione e il ricollocamente del personale in cassa integrazione, anche mediante l'incentivazione di nuovi distretti produttivi nelle zone di residenza della maggior parte dei lavoratori che hanno perso il posto.
Infine, tra le principali fonti di spreco dobbiamo evidenziare le strategie industriali sbagliate. In particolare, il tentativo di fare di Malpensa un “hub”, ossia uno snodo di scambio tra voli a lungo raggio (intercontinentali) e voli a medio e corto raggio cosiddetti “di federaggio” (che devono far affluire i passeggeri per i voli intercontinentali). Ebbene, Alitalia (e l’Italia) non ha un traffico aereo sufficiente per poter sostenere due hub(Malpensa e Fiumicino). Malpensa, in particolare, è assolutamente inadeguata allo scopo: lontana da Milano (si trova in provincia di Varese) e mal collegata; troppo “vicina”, in termini di concorrenza, rispetto ad un grandissimo aeroporto internazionale come Francoforte; soggetta anche alla spietata concorrenza locale fatta da molti aeroporti spuntati come funghi nel Nord Italia.
Scommettere su Malpensa ha significato le spese di spostamento del personale che abbiamo ricordato in precedenza. Senza il gradimento del mercato: la stessa Alitalia aveva quantificato in 200 milioni il buco prodotto annualmente da Malpensa.

Di chi le responsabilità del disastro?
Alitalia non è stata un’eccezione, ma una delle ultime espressioni di un sistema-Italia basato sullo sfruttamento di risorse pubbliche mediante l’indebitamento. Un sistema divenuto insostenibile, cui hanno però partecipato – indistintamente – tutte le forze sociali e politiche.
sindacati, innanzitutto. Lo hanno candidamente ammesso in questi mesi.
La loro responsabilità non è stata solo quella di aver contribuito alla cattiva gestione, ma anche quella di aver rifiutato quasi sino all’ultimo le proposte di rilancio della compagnia.
Lo scorso anno, i potenziali acquirenti del bando per la privatizzazione indetto dal governo Prodi (Air France, Airflot, Lufthansa, AirOne, una cordata americana) erano frenati soprattutto dalla difficoltà delle relazioni con i sindacati. Anche al ritiro di Air France, che era restato l’unico acquirente ammesso dal governo Prodi alla trattativa privata, contribuì in maniera rilevante l’ostilità sindacale, oltre che quella annunciata da Berlusconi.
Che l’offerta CAI di questi mesi fosse l’ultima spiaggia (visto che il tempo per cercare alternative era agli sgoccioli) era stato compreso da Cisl e Uil, ma non ancora dalla Cgil, che ha rischiato di arrivare alla rottura solo per ottenere qualche consenso in più e per favorire una (ormai impossibile) soluzione diversa da quella promossa dall’avverso governo Berlusconi.
In secondo luogo, le responsabilità del disastro investono i partiti politici. Di tutti i colori.
Il primo governo Prodi, nel 1998, inaugura Malpensa (col bel risultato che conosciamo). Nel 2001, al termine dell’esperienza del centrosinistra, il risultato operativo della compagnia era negativo per 266 milioni di euro l’anno.
Negli anni successivi (secondo e terzo governo Berlusconi) le cose sono anche peggiorate: 465 milioni di perdite nel 2006.
Colpa dell’ascesa delle compagnie low cost, certo; ma anche dell’incapacità dell’azienda di adattare le proprie strategie al nuovo scenario. La Lega Nord, con la sua strenua difesa di Malpensa, e l’imposizione dei suoi uomini al vertice della compagnia (Giuseppe Bonomi, presidente dal 2003 al 2004), ha dato il suo bel contributo alla causa.
Nel 2006 torna al governo la sinistra, ma le cose non cambiano. Si decide – giustamente – di privatizzare e vendere l’azienda. Ma non si fa nulla per rassicurare i potenziali acquirenti rispetto alle proteste dei sindacati; i quali “tenevano duro”, perché sapevano che il Governo non avrebbe avuto il coraggio di dire no a ulteriori rifinanziamenti. La posizione di rigore sostenuta da Prodi e Padoa Schioppa, infatti, era isolata rispetto alle pressioni esercitate dai partiti della coalizione.
E si arriva ai giorni nostri. Veltroni prima incoraggia la resistenza della Cgil. Poi, quando si accorge di essere restato col cerino in mano e di non potersi assumere – con Epifani – la responsabilità del fallimento, inverte precipitosamente la rotta e inventa la sceneggiata dell’incontro di mediazione a casa sua. Il presidente della CAI Colaninno, che è amico della sinistra e padre di un “ministro” del “Governo ombra” di Veltroni, non nega a Veltroni il favore di prestarsi alla sceneggiata, anche per offrire ad Epifani una resa onorevole. Ma lo stesso Colaninno, quando al Tg1 ringrazia tutti i protagonisti che hanno contribuito alla felice conclusione della vicenda, non cita Veltroni.
(Su Di Pietro stendiamo un velo: giudicò umiliante l’offerta di Air France, e oggi la rimpiange...)
Quanto a Berlusconi, abbiamo detto delle responsabilità per il periodo 2001-06. Oggi ha dimostrato che la cordata italiana non era una boutade. Ma se il piano che ha imposto sia veramente il migliore lo potremo sapere solo nel prossimo futuro, come stiamo per spiegare nel seguito dell’articolo.
Infine, non sono da meno le responsabilità degli amministratori succedutisi nel tempo. Che hanno presentato bellissimi piani industriali, senza avere il coraggio di attuarli e di resistere alle pressioni politiche e sindacali. Questi amministratori non hanno neanche trascurato di concedersi lucrose liquidazioni al termine della loro esperienza: Gianfranco Cimoli 3 milioni di euro (!) per tre anni di lavoro.

La soluzione scelta per il salvataggio è la migliore?
Innanzitutto, bisogna apprezzare l’elemento essenziale: si tratta di una privatizzazione, cioè la soluzione che restituisce ad Alitalia la sua dimensione naturale di società che produce servizî per il mercato.
Alcuni avevano proposto la soluzione del fallimento, secondo un principio di rigoroso rispetto delle regole liberiste: chi sbaglia paga, e ciò costituisce un monito per la correttezza degli altri operatori economici. Con la vendita degli slot (diritti di atterraggio negli aeroporti) e degli aerei sarebbe stato ripianato gran parte del debito. Ma si tratta di una posizione astratta e integralista, che non tiene conto di come lo stesso obiettivo – il corretto impiego delle risorse – possa essere perseguito anche con mezzi più morbidi, che evitino conflitti sociali insanabili (20.000 persone senza lavoro) e la dispersione di un patrimonio industriale che può ancora essere validamente impiegato. Del resto, proprio un'astratta intransigenza impedì all'amministrazione USA di intervenire in tempo per frenare la crisi del 1929.
(Si tenga presente che tra i fautori del fallimento non possono essere annoverati quei dipendenti Alitalia che applaudirono il momentaneo ritiro dell’offerta da parte della CAI: la loro invocazione del fallimento era puramente strumentale, un modo di alzare la posta della trattativa e ottenere l’intervento pubblico.)
L’acquisto da parte della CAI è la forma di privatizzazione migliore che era possibile ottenere?
La proposta presentata da Air France nella primavera del 2008 aveva un valore complessivo di 2,5 miliardi di euro. La compagnia francese si sarebbe accollata debiti e obbligazioni di Alitalia, ed avrebbe anche versato 300 milioni di euro per le azioni.
Altre offerte simili (o forse ancora più convenienti) sarebbero potute arrivare se, anziché il metodo della trattativa privata, fosse stato seguito quello dell'asta competitiva, offrendo ai potenziali acquirenti garanzie su ammortizzatori sociali e chiarendo ai sindacati che non c'era più nessuna possibilità di finanziamenti pubblici.
L’acquisto da parte di CAI, invece, è molto meno conveniente per lo Stato. Alitalia viene scissa in due: una bad company che si accolla tutti  debiti e che resta di proprietà pubblica; e una good company – quella acquistata da CAI - nella quale vengono conferite tutte le risorse della vecchia compagnia. Il costo per CAI è stato solo di 1 miliardo di euro: 400 milioni al commissario liquidatore per acquistare i beni e rimborsare in piccola parte i creditori, 300 milioni a Toto, per i beni di AirOne, e 300 milioni di capitalizzazione (di questi soldi, già 250 ne rientreranno con l'ingresso quale socio di minoranza di Air France).
In definitiva, il costo complessivo della manovra finanziaria di salvataggio dell’Alitalia (un costo ulteriore rispetto a quelli storici che abbiamo inizialmente evidenziato), secondo le stime elaborate da KRLS Network of Business Ethics e dallo Sportello del contribuente e diffuse il 27 settembre, tenuto conto anche del prestito ponte di 300 milioni di euro (necessario per prendere tempo da aprile ad oggi), dei mancati introiti dell’offerta iniziale di Air France e dei debiti di AirOne (accollati alla bad company), non è inferiore a 3,1 miliardi di euro (un esborso straordinario di 172 euro per ogni italiano)!
Senza contare i 2 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali.
A questi costi palesi se ne aggiungono altri indiretti: quelli sostenuti dagli utenti-consumatori delle nuova compagnia, che per un certo periodo di tempo pagheranno biglietti più alti della norma a causa della mancanza di concorrenza.
La fusione di Alitalia e AirOne, infatti, crea una situazione di quasi monopolio nella rotta più affollata e più redditizia, quella Roma-Milano. Il decreto governativo salva-Alitalia ha espressamente stabilito una deroga di tre anni al rispetto delle regole sulla concorrenza. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha già giudicato questo periodo immotivatamente lungo, chiedendo che sia ridotto a sei mesi.
Infine, i costi occulti. Gli azionisti della cordata CAI non hanno nessuna esperienza nel settore del trasporto aereo (ad eccezione del proprietario di AirOne). Sono stati convinti a partecipare all’iniziativa per la pressante insistenza di Berlusconi. Si tratta di benefattori che hanno a cuore i supremi interessi del Paese? O hanno ricevuto garanzie precise dal Presidente del Consiglio che il rischio imprenditoriale sarà coperto da “ritorni” nelle altre attività da loro gestite?
“A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca”, diceva Andreotti. Vedremo nei prossimi anni se gli interessi di questi azionisti in settori su cui hanno incidenza le scelte pubbliche (infrastrutture, edilizia) saranno agevolati da tali scelte. Per ora notiamo che il socio di CAI Carlo Toto, proprietario di una AirOne oberata dai debiti, facendola entrare nella nuova compagnia si salva dall'evenienza di un fallimento, e intasca - come visto - bei soldi; e che l'advisor dell'operazione, la banca Intesa San Paolo, coinvolgendo Toto nella cordata ha anche azzerato i rischi di sofferenza verso AirOne, di cui era il principale creditore. 
Come si giustificano queste spese abnormi?

L’italianità: un nodo ancora da sciogliere
Berlusconi ha voluto affossare la proposta Air France, rinunciare all'ipotesi di asta competitiva e promuovere la cordata di imprenditori italiani in nome della “italianità” dell’azienda, della necessità di avere una “compagnia di bandiera”. Il gioco (l’italianità) vale la candela (l’enorme – seppur ultimo – esborso pubblico)?
La proprietà nazionale (non necessariamente pubblica) di beni e servizî di interesse strategico non è una sciocchezza. Lo abbiamo sottolineato a proposito delle banche (quando molti contestarono ferocemente – e strumentalmente – la politica di italianità seguita dall’ex governatore Fazio). E vale anche per il trasporto aereo.
Una compagnia straniera operante sul mercato italiano, al momento di creare le necessarie sinergie con aeroporti esteri, potrebbe avere la tendenza a privilegiare questi ultimi: ad esempio, anziché stabilire una rotta diretta Fiumicino–Los Angeles (o Malpensa–Los Angeles), potrebbe scegliere Parigi (Francoforte)–Los Angeles; gli utenti italiani che vogliono andare a Los Angeles, o gli americani che vogliono venire in Italia, dovrebbero passare per l’aeroporto hub di Parigi (Francoforte), collegato agli aeroporti italiani con voli di federaggio. I vantaggi turistici e commerciali per i Paesi dotati di hub sono evidenti.
Oggi, dunque, quelli che irridevano all'italianità delle banche si sono fatti paladini dell'italianità del trasporto aereo. (Un'eccezione, forse, viene dal ministro dell'Economia, Tremonti. Il quale, nella veste di maggior azionista delle compagnia, avrebbe dovuto essere in prima fila nella gestione della vicenda. E invece si è tenuto in disparte.)
Tutto bene, dunque? La spesa sostenuta dallo Stato può ritenersi compensata dalle ricadute economiche che verranno al sistema-Paese dalla presenza di una compagnia di bandiera? Lo sapremo tra cinque anni...
Infatti, per stare sul mercato globale servono compagnie in grado di fare rilevanti economie di scala. Compagnie di grosse dimensioni, o che abbiano accordi di sinergia con altre compagnie. La nuova Alitalia ha dunque la necessità di scegliere un forte partner straniero, che sicuramente entrerà nell’azionariato con una propria quota. Ora che le relazioni industriali sono mutate, e i sindacati interni hanno dovuto accettare di muoversi con una controparte privata, le compagnie estere sono tornate a dimostrare il loro interesse.
Il decreto governativo adottato per l’Alitalia ha posto agli azionisti italiani la condizione di non alienare la loro partecipazione per almeno cinque anni. Ma questa condizione è recepita solo nello statuto di CAI (che potrà essere cambiato al verificarsi di determinate condizioni, come la quotazione in borsa). Fra cinque anni, in ogni caso, potrebbe accadere che imprenditori che non hanno vocazione per questo tipo di attività industriale decidano di vendere la loro quota, realizzare l’eventuale plusvalenza, e lasciare campo libero ad una grande compagnia straniera. Ciò accadrebbe subito dopo le prossime elezioni politiche (il termine dei cinque anni non è casuale), così Berlusconi non potrebbe essere accusato in campagna elettorale di aver sponsorizzato un’italianità rivelatasi insostenibile...
(Nel 2009 abbiamo già assistito al rientro di Air France, con una partecipazione di minoranza - il 25% - che le è costata molto meno di quello che avrebbe speso - in proporzione - con l'offerta iniziale. Non è irrealistica la prospettiva di tornare infine al punto di partenza - il controllo pieno di Air France -, con la semplice differenza di un maggiore esborso dei contribuenti, e di un grande affare fatto da Air France e dagli imprenditori della cordata italiana che avranno ceduto la loro quota...)

Le altre questioni aperte
Abbiamo visto in precedenza il nodo della deroga alle regole della concorrenza sul mercato italiano.
Resta poi aperta la questione se l’hub italiano debba essere Fiumicino o Malpensa. La soluzione più ragionevole, lo abbiamo visto in precedenza, sembra quella di Fiumicino. Ma la Lega Nord (ed anche uno schieramento trasversale espresso dal Nord Italia) preme per Malpensa, e vorrebbe condizionare a questa opzione anche la scelta del partner straniero (si dice che Lufthansa sarebbe più funzionale a questo disegno, perché potrebbe dirottare su Malpensa alcuni dei voli intercontinentali attivi su Francoforte).
Chi non condivide queste pressioni denuncia che si comincia male: la politica esce dalla porta e rientra dalla finestra. C’è inoltre il timore che un interesse di parte, non supportato dal mercato, possa in futuro creare una nuova crisi ad una compagna salvata con tanto dispendio di denaro pubblico.
(L'ingresso di Air France fa parlare di una vittoria di Fiumicino. Ma la nuova Alitalia afferma di volre puntare anche su Malpensa, a condizione di un ridimensionamento di Linate. La vera battaglia, insomma, sembra vedere schierata Malpensa contro Linate e gli altri aeroporti del Nord).
Lascia molti dubbi anche la scelta, inserita nel nuovo piano industriale, di operare prevalentemente sul medio e corto raggio: proprio i settori dove la concorrenza delle compagnie low cost e della ferrovia ad alta velocità è più forte. Il che lascia presagire l’inevitabile destino di compagnia satellite del partner estero.
Infine, c’è da attendere il responso dell’Unione Europea. Le regole dell’Unione vietano gli aiuti di Stato, perché alterano la concorrenza, e quindi gli interessi dei consumatori e degli operatori che stanno sul mercato con le proprie forze (molte compagnie estere hanno già levato le loro lamentele). Diciamolo con franchezza: l’Italia queste regole le ha clamorosamente violate.
Ma probabilmente prevarrà la ragion politica, e sarà concessa una deroga, come in passato è stata concessa ad altri grandi Paesi che non hanno più scrupoli del nostro nel curare i proprî interessi.
Anzi, proprio la vicenda Alitalia spiega, secondo molti, la scelta effettuata dal governo Berlusconi per il nuovo Commissario europeo che doveva sostituire Frattini (diventato ministro): Tajani alla Direzione Generale dei Trasporti (mentre Frattini era Commissario alla Giustizia, Libertà, e Sicurezza).
(Alla fine la deroga è stata concessa, come volevasi dimostrare, purché vi fosse "discontinuità" tra la vecchia e la nuova compagnia!?)

Quali ricadute avrà la vicenda Alitalia sul sistema industriale italiano?
Colaninno ha trionfalisticamente affermato che il nuovo contratto tra compagnia e dipendenti può fare da apripista nelle relazioni industriali del nostro Paese (proprio in questo periodo sindacati e Confindustria stanno trattando sul rinnovo del modello contrattuale nazionale).
Il contratto Alitalia ha alcuni meriti importanti: legare la retribuzione alla produttività individuale; eliminare i privilegi di alcuni lavoratori (leggi piloti e assistenti di volo) rispetto ad altri della stessa società; eliminare il potere di gestione e di indirizzo che alcuni sindacati interni avevano ottenuto; far partecipare i lavoratori alla produttività collettiva, distribuendo ai dipendenti il 7% degli utili che dovessero maturare.
Si tratta di principî che meritano sicuramente di essere applicati a livello più generale, per rilanciare l’economia italiana.
Nella fase delle nuove assunzioni sono stati però segnalati numerosi abusi, come la penalizzazione delle donne in età di maternità, o del personale che gode di permessi per motivi di salute o l'assistenza a familiari invalidi.
E questi non non sono certo comportamenti che meritano di essere esportati...

P.S.: C.V.D. (come volevasi dimostrare): gennaio 2013, in prossimità della campagna elettorale per le politiche (quindi poco prima di quanto preventivato da Berlusconi) riesplode la crisi di Alitalia, bisognosa di un nuovo salvataggio...

Uccello del paradiso.



http://archiwatch.it/2013/05/16/43178/uccello-del-paradiso/

Nobel pace: assegnato a Opac.


L'organizzazione per la proibizione delle armi non convenzionali e' stata fondata nel 1997.

E' stato assegnato all'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) il premio Nobel per la Pace 2013. L'Opac è stata fondata nel 1997 per dare attuazione al Trattato di interdizione all'uso delle armi chimiche firmato nel 1993.
La notizia era stata anticipata dalla tv norvegese NRK sul suo sito internet. "Anche se il conflitto in Siria può ancora essere definito 'un bagno di sangue', c'è in vista una soluzione per quanto riguarda le armi chimiche", scrive la tv.
L'anno scorso la stessa tv anticipò un'ora prima che il Nobel era stato vinto dall'Ue.