lunedì 22 giugno 2015

L’Italia che sa vivere solo in emergenza. - Bruno Manfellotto

L’Italia che sa vivere solo in emergenza

Nelle situazioni estreme diamo il meglio di noi. Finita la corsa per aprire decentemente l’Expo, 
si riapre un fronte antico: quello dei conti pubblici.


Dunque le lacrime della prof Elsa Fornero ci costeranno quattro anni dopo una decina di miliardi (16 secondo Vincenzo Visco). Il groppo in gola, mentre la ministra pro tempore spiegava la riforma pensionistica, arrivò in diretta tv, la sera di domenica 4 dicembre 2011, alla parola «sacrificio», cioè l’azzeramento dell’indicizzazione al costo della vita delle pensioni superiori ai 1443 euro. Già allora molti temevano che la norma fosse incostituzionale, alcuni ne erano convinti, ma davvero la ministra pro tempore non poteva fare altrimenti, e meno male che lo fece: l’Italia rischiava il default, la fine della Grecia, già si immaginavano i cavalli della Troika abbeverarsi alle fontane di piazza Navona, a un passo dal Senato. E il governo Monti tagliò, tecnicamente, per evitare il commissariamento. Si era in emergenza. Come sempre.

Sì, il bel paese vive in perenne emergenza e solo quando questa incombe, esso si agita si industria si muove risolve. E talvolta riesce pure a dare il meglio di sé. Solo che emergenza chiama altra emergenza. La bocciatura della Corte costituzionale, per esempio, ha cancellato d’un colpo il sogno di attingere al tesoretto di 1,6 miliardi, nascosto nelle pieghe del bilancio pubblico, che Matteo Renzi avrebbe voluto destinare ai redditi più bassi e agli ammortizzatori sociali, riedizione corretta degli 80 euro in busta paga di un anno fa. Ma dieci (o 16?) miliardi sono tanti, due volte il gettito Imu sulla prima casa e più, assai difficili da trovare, e il buco costringerà il governo a una dura legge finanziaria - d’emergenza - e a riaprire le trattative con l’Ue sul contenimento del debito. Altro che avviare un piano Obama.

Anche l’EXPO, si sa, è stato realizzato in emergenza. E a caro prezzo. La corsa finale e un bel po’ di lavori aggiuntivi hanno fatto lievitare i costi: per il Padiglione Italia erano stati messi in conto 63 milioni, ne sono stati spesi 92; per la Piastra, la spina dorsale dell’Expo, il preventivo diceva 165 milioni, non ne basteranno 200; per rispettare l’investimento pubblico di 1,3 miliardi, infine, è stato necessario un robusto taglio ai progetti iniziali. Emergenza, ma legale, sarà anche il dopo Expo in un intreccio di controversie, tagli, ribassi di prezzi, contratti siglati con imprese sotto osservazione e ora all’esame di Raffaele Cantone.

Continuiamo? Sono emergenza continua gli sbarchi dei migranti; la corruzione; la spesa pubblica; la sanità; l’ambiente dissestato. E naturalmente anche il maltempo, i rifiuti, i dopo terremoto che durano per generazioni senza che nessuno vi ponga definitivamente rimedio. Non si programma né si previene. Di conseguenza l’esecutivo si adegua sparando decreti legge, d’urgenza e di emergenza: Berlusconi e Monti ne produssero insieme un centinaio; Enrico Letta più di venti, cifra appena superata dal gabinetto Renzi. In tutto, più o meno 165 decreti presentati in sei anni. In emergenza è stata approvata anche la nuova legge elettorale: a colpi di fiducia. E c’è la drammatica emergenza lavoro per la quale evidentemente non basta il Jobs Act: l’acqua c’è, avrebbe detto lord Keynes, ma il cavallo non beve. Insomma, la madre di tutte le emergenze è ancora la crisi economica. Che ci ricorda, dopo l’ubriacatura muscolare dell’Italicum, che ora bisogna cominciare a governare sul serio.

P.s. Se permettete, vorrei spezzare una lancia a favore dei “gufi”, come li chiama Renzi, quelli seri e intellettualmente onesti, per i quali il mio apprezzamento è pari alla gioia che ho provato per il brillante esordio dell’expo di Beppe Sala & c. Ecco perché: forse, se non ci fossero state le copertine dell’“Espresso” sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nelle imprese appaltatrici, non si sarebbe arrivati alla nomina di Raffaele Cantone a commissario anticorruzione e al suo prezioso lavoro di ripulitura; forse, senza le inchieste dell’“Espresso” sul ritardo nei lavori, non ci sarebbe stato quello scatto d’orgoglio che ha poi consentito di ultimare quasi tutti i padiglioni; forse, se non ci fossero state le domande che “l’Espresso” si è posto sull’uso di quelle immense aree a esposizione ultimata, sarebbe stato rimosso il tema centrale del dopo Expo. Insomma, per farla breve, evviva l’Expo, ma anche i gufi.

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