mercoledì 8 giugno 2016

La democrazia senza velo. - Paolo Flores d'Arcais



La società belga “G4S Secure Solutions” ha come norma che i dipendenti non possano esibire segni di appartenenza religiosa. Samira Achbita dopo tre anni di lavoro pretende di indossare il velo islamico e l’azienda la licenzia. Il “Centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo” fa causa alla società e la Cassazione del Belgio investe del problema la Corte di giustizia europea, il cui avvocato generale, Juliane Kokott, conclude a favore dell’azienda.

Sumaya Abdel Qader, leader musulmana “progressista” e candidata del Pd al Consiglio comunale di Milano, si indigna: «Mettersi il velo è una pratica religiosa, che dovrebbe essere garantita dall’ordinamento giuridico a tutela della libertà religiosa». Sumaya Abdel Qader ha torto, e con lei i moltissimi “multiculturalisti” di una “sinistra” anti-illuminista che ha completamente perduto la bussola dell’eguaglianza e dell’emancipazione. In una società democratica i simboli religiosi dovrebbero anzi essere vietati in tutti gli uffici e servizi pubblici, scuola in primis (e il divieto dei privati non dovrebbe essere considerata discriminazione).

Un ufficio pubblico è infatti un bene comune, deve appartenere a tutti, non solo ai cittadini diversamente credenti ma a tutti i diversamente miscredenti e atei. Laddove si esibisca o campeggi un simbolo di appartenenza religiosa quello spazio è sottratto a quanti non vi si riconoscono, è confiscato e privatizzato. Che i simboli religiosi consentiti siano più di uno non cambia nulla, lottizza la confisca tra alcune fedi, ma una prevaricazione plurale sempre prevaricazione resta. 

Per garantire eguaglianza bisognerebbe che ogni possibile religione (compreso il “Dio degli spaghetti volanti” la cui Chiesa è ufficializzata negli Usa) e ogni possibile ateismo avessero i propri simboli appesi alle pareti, ma così non saremmo allo spazio comune bensì al bailamme delle identità in conflitto. Esattamente l’opposto dell’eguale cittadinanza, l’unica appartenenza che una democrazia riconosce.

Sumaya Abdel Qader e i “multiculturalisti” di “sinistra” naturalmente sono in buona compagnia, il Papa, niente meno. Non solo il fondamentalista Karol Wojtyla e il teologo della crociata contro la modernità Joseph Ratzinger, per i quali l’aborto è “il genocidio del nostro tempo” (medici e infermieri che rispettano la volontà della donna all’interruzione della maternità messi moralmente sullo stesso piano di un Ss, del resto l’anatema di Wojtyla, perché non vi fossero dubbi, fu pronunciato in Polonia a pochi chilometri da Auschwitz), ma anche il buonissimo e apertissimo Francesco che manda ormai in estasi fior di “laici” in debito di “Senso” e marrani del valore fondante e irrinunciabile della sinistra, l’eguaglianza sostanziale.

Ma questa convergenza, che vorrebbe le fedi religiose come humus per la democrazia contro il pericolo nichilista, e che ha affatturato anche pensatori un tempo di riferimento come Habermas, non fa che rendere esplicita e improcrastinabile per l’intera Europa (se ancora ha una chance di nascere) la necessità di radicarsi in una laicità coerente e adamantina, quella “alla francese”, rettificata anzi in alcune sue “concessioni” (scuole private, ad esempio).

La democrazia per funzionare, infatti, e più che mai per uscire dalla sua devastante crisi attuale, ha bisogno di decretare l’ostracismo di Dio dalla sfera pubblica. Valga il vero.

L’eguale sovranità non consiste nella mera conta delle volontà, ma nell’argomentazione reciproca con cui i cittadini mettono capo alla decisione della legge attraverso la scelta dei loro rappresentanti. Se la sfera pubblica si riduce alla semplice conta di volontà irrelate e non vincolate al dovere di “fornire ragioni”, il terreno è già fertile perché si passi dal “perché sì” del voto al “perché sì” del manganello. Un cittadino, e un politico, devono argomentare le proprie scelte, condizione pregiudiziale (benché non sufficiente) per essere tutti concittadini. Ma ogni argomento-Dio nega il dialogo, è autoreferenziale, ne esclude i non credenti o i diversamente credenti, ecco perché il ricorso alla fede non deve avere spazio nella sfera pubblica. 

Solo i fatti accertati, la logica, e i valori fondamentali della Costituzione (per la nostra, nata dalla Resistenza, suonano “giustizia e libertà”). Se invece si può “argomentare” perché “Dio vuole così” (lo hanno fatto fin troppi presidenti americani) siamo già alla sharia. Che non a caso, con la benedizione di governi “cristiani”, è ormai vigente in molti ghetti delle metropoli europee.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-democrazia-senza-velo/

Flores d'Arcais mi trova pienamente d'accordo.
Oltretutto il simbolismo del velo, in particolare, non sarebbe altro che un rafforzativo della presunta inferiorità, sottomissione della donna nei confronti dell'uomo e, quindi, non farebbe altro che fomentare il femminicidio.

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