giovedì 14 aprile 2016

Atlante, il fondo salva-banche: cos'è e come funziona. - Andrea Telara

Nell'infografica realizzata da Centimetri il Fondo Atlante. © ANSA

Ecco i meccanismi con cui presto opererà il frutto dell'accordo raggiunto tra i nostri maggiori gruppi creditizi e il Governo.


Tutti i dettagli non sono ancora definiti ma la strada sembra ormai segnata: presto nascerà un nuovo fondo per aiutare le banche italiane e ricapitalizzarsi e a liberarsi delle sofferenze. Si chiamerà Atlante ed è il frutto di un accordo raggiunto tra i maggiori gruppi creditizi del Paese, con la regia del governo. Ecco, di seguito, una panoramica su come funzionerà questo nuovo organismo.

Cos'è Atlante

Sarà un fondo d'investimento con una strategia di gestione che, nel gergo degli addetti ai lavori, viene definita “alternativa”, perché non acquista i più comuni strumenti finanziari negoziati sul mercato come le azioni e i bond, ma altri prodotti come le obbligazioni bancarie subordinate che hanno un profilo di rischio medio-alto.

Chi lo gestirà

Le attività di gestione sono affidate a Quaestio Sgr, una società di diritto lussemburghese che opera sotto la guida di Alessandro Penati, docente di finanza alla Cattolica. Quaestio è partecipata dalla Fondazione Cariplo (37%) e da altri soggetti istituzionali come la Cassa dei Geometri. Consulenti dell'operazione saranno lo studio legale Bonelli Erede e Bank of America-Merrill Lynch.

Quanti soldi avrà a disposizione

Atlante dovrebbe avere una dotazione di 6 miliardi di euro, la cui maggior parte sarà investita da una serie di soggetti già individuati. Le fondazioni bancarie metteranno circa 500 milioni, altri 3 miliardi arriveranno dalle banche (in particolare, 1 miliardo sarà versato soltanto da Intesa e UniCredit). Poi dovrebbe aggiungersi anche la Cassa Depositi e Prestiti, con un investimento di almeno 500-600 milioni di euro, lo stesso previsto per Sga, una società a proprietà pubblica che è nata negli anni '90 per salvare il Banco di Napoli. Oltre ai 6 miliardi di dotazione iniziale, il fondo Atlante potrebbe disporre di altre risorse, raccolte indebitandosi.

Le Hawaii presentano il piano per divenire rinnovabili al 100%.

Le Hawaii presentano il piano per divenire rinnovabili al 100%

La principale utility dello Stato americano spiega come passare ad un’alimentazione completamente a base di rinnovabili entro il 2045. 

(Rinnovabili.it) – Meno di 30 anni per divenire completamente sostenibile sotto il profilo energetico. Questa la scommessa delle Hawaii, che si candida così a divenire banco di prova per l’indipendenza energetica degli USA. La principale utility energetica dello Stato, la HECO, ha presentato al regolatore un nuovo piano di sviluppo che punta diritto all’obiettivo del 100% di energie rinnovabili entro il 2045. Il programma, elaborato assieme alle sue controllate Maui Electric e Hawaii Electric Light Company, è stato presentato ufficialmente la scorsa settimana e si concentra in gran parte sulla modernizzazione della rete e, naturalmente, sulle fonti alternative come il fotovoltaico e l’energia eolica.

Secondo HECO, le Hawaii hanno già raggiunto oltre il 23% di energie rinnovabili nella produzione del 2015, e il percorso verso il 100% è a portata di mano. Cinque saranno le direttive perseguite per non mancare il bersaglio (il cui programma sarà comunque aggiornato ogni 5 anni):

– L’implementazione di una smart grid con l’installazione di una rete wireless moderna,         contatori intelligenti e altre tecnologie finalizzate ad ammodernare la rete elettrica esistente e migliorare l’integrazione delle risorse energetiche distribuite.
– L’emissione bandi per proposte di progetti  focalizzati sull’energia rinnovabile, con una capacità complessiva di oltre 350 MW da sviluppare entro il 2022.
– L’implementazione di comunità basate sull’energia rinnovabile, al fine di consentire ai clienti che non possono permettersi di istallare un impianto fotovoltaico domestico di riceverne comunque i benefici.
– Studiare e sviluppare sistemi di  immagazzinamento dell’energia, sia su scala utility, che a livello domestico.
– Favorire una maggiore penetrazione del fotovoltaico integrato su i tetti delle abitazioni.

Il piano si concentrerà anche su microreti e gas naturale; secondo le previsioni elaborate al computer per il 2045, il mix hawaiano dovrebbe includere: 1.215 MW di tetti solari,  36 MW di fotovoltaico in feed-in-tariff, 872 MW di fotovoltaico su scala utility, 529 MW di energia eolica onshore, 800 MW di energia eolica off-shore, 21 MW di energia idroelettrica e 118 MW di energia geotermica.

Siamo ancora più piccoli nel nuovo albero della vita. - Eleonora Degano

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L’albero della vita come ci appare oggi, inclusa la diversità degli organismi di cui non abbiamo che il genoma. Da Nature Microbiology

L'albero ha guadagnato rami per oltre 1000 nuovi tipi di batteri e archei scoperti negli ultimi 15 anni. Su Nature Microbiology il lavoro degli scienziati di Berkeley.

SCOPERTE – L’albero della vita, che ci mostra le relazioni fondamentali di discendenza tra i diversi gruppi tassonomici di organismi, ha appena cambiato volto. E si è fatto decisamente più complesso, una volta guadagnati i “rami” di oltre 1000 nuovi tipi di batteri e archei scoperti nel corso degli ultimi 15 anni dai ricercatori di Berkeley. “La nuova rappresentazione non tornerà utile solo ai biologi che si occupano di ecologia microbica, ma anche ai biochimici alla ricerca di nuovi geni e ai ricercatori al lavoro sull’evoluzione e sulla storia del pianeta Terra”, commenta Jill Banfield, tra gli autori del nuovo albero appena pubblicato su Nature Microbiology.
Per “leggerlo” funziona sempre allo stesso modo: le estremità dei rami rappresentano la vita sulla Terra oggi, mentre i rami che li collegano al tronco segnalano le relazioni evolutive tra i vari organismi. Un ramo che si divide in due in prossimità delle punte significa che gli organismi hanno un antenato comune recente, mentre uno che si biforca più vicino al tronco implica una divergenza evolutiva che risale a un passato più lontano.
La vera rivoluzione ha avuto inizio quando gli scienziati hanno potuto ricercare il genoma dei batteri direttamente nell’ambiente, senza la necessità di coltivarli in laboratorio: molte specie dipendono in maniera simbiotica – come spazzini o parassiti – da altri batteri o animali, perciò non riescono a sopravvivere da sole. Il nuovo albero della vita e ci dimostra, una volta in più, che gli eucarioti non sono che una minuscola parte della biodiversità, un termine che usiamo sempre più spesso ma senza davvero considerare l’enorme quantità di organismi che abbraccia. Da una seconda visualizzazione per il nuovo albero, in cui gli organismi vengono raggruppati in base alla distanza evolutiva e non sfruttando la tassonomia, emerge che circa un terzo della biodiversità deriva dai batteri, un terzo dai batteri che non siamo in grado di coltivare in laboratorio e meno di un terzo da archei ed eucarioti.
Il gruppo di Banfield ha lavorato in collaborazione con più di dieci colleghi che hanno sequenziato le nuove specie, aggiungendo ai genomi già noti più di un migliaio di altri non ancora pubblicati. Hanno costruito un albero fondato su 16 geni che codificano per proteine nei ribosomi, includendovi più di 3000 organismi, uno per ogni genere di cui abbiamo un genoma del tutto (o quasi del tutto) sequenziato a disposizione. Piante, esseri umani e animali non-umani sembrano molto meno importanti, ora. “È il primo albero a tre domini basato sul genoma a incorporare questi organismi non coltivabili”, conferma Banfield, “e rivela l’enorme portata di queste linee di discendenza ancora poco conosciute”. Perché in effetti di loro non abbiamo che il genoma, che è comunque sufficiente a offrirci una prospettiva nuova sulla storia della vita sul pianeta.
Dove li abbiamo trovati?
Questi batteri non solo rendono ardua la coltura in laboratorio, ma spesso provengono da luoghi che ai nostri occhi appaiono piuttosto inospitali. Sono i cosiddetti organismi estremofili, che vivono in condizioni di temperatura, salinità o pH estremamente bassi (o alti) e vi prosperano. Un esempio sono quelli delle sorgenti termali di Yellowstone, scoperti sempre dai ricercatori di Berkeley, o i batteri delle distese saline nel deserto di Atacama, in Cile, o ancora quelli che se la spassano nei geiser, nel nostro intestino, sotto i rifiuti tossici o all’interno della bocca di animali come i delfini.
A capire per primo l’importanza di una rappresentazione di questo tipo fu Charles Darwin, che nel 1837 provò a immaginarla in un disegno sul suo taccuino per poi crearne una versione più strutturata, comparsa sul suo libro L’Origine delle specie (1859).
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L’albero della vita di Darwin (1859). Wikimedia Commons public domain
La sua intuizione era proprio quella di mostrare come gli animali, le piante e i batteri fossero correlati gli uni agli altri. Gli archei non hanno fatto la loro comparsa fino al 1977, quando fu dimostrato che pur essendo monocellulari come i batteri erano organismi separati, e da allora l’albero non ha fatto che arricchirsi fino a includere le scoperte di genomica e biologia molecolare, che hanno integrato le conoscenze tassonomiche. A oggi nel database dell’Integrated Microbial Genomes del Joint Genome Institute sono compresi 30 437 genomi dei tre domini della vita (Bacteria, Archaea ed Eukarya).
Da quella prima di bozza di Darwin l’albero è cambiato parecchio, come abbiamo visto. A saltare subito all’occhio, in quello nuovo, è un grosso ramo descritto dagli scienziati di Berkeley come “candidate phyla radiation”, scoperto solo di recente e composto unicamente da batteri simbionti. Apparentemente, al suo interno troviamo circa la metà della diversità evolutiva dei batteri a noi nota. “Quest’incredibile diversità significa che esiste un numero a dir poco incredibile di organismi di cui stiamo appena iniziando a conoscere le peculiarità, il che potrebbe cambiare la nostra comprensione della biologia”, dice Brett Baker, co-autore dello studio e oggi ricercatore al Marine Science Institute dell’Università del Texas ad Austin.