giovedì 10 novembre 2016

La madre di tutte le domande si impone: come mai la candidata sostenuta da “i poteri forti” ha perso alla grande? - Sergio Di Cori Modigliani

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   Trump e consorte                                                                           Jess Ventura

Inattesa vittoria a sorpresa di Donald Trump? Proprio per niente. Era annunciata.
Si tratta, piuttosto, dell’auto-distruzione della dinastia Clinton, un suicidio amorevolmente assistito da un Barack Obama stanco e miope, che dopo otto anni alla Casa Bianca ha gettato la spugna e si è fidato di una persona come Hillary Clinton, da lui saggiamente licenziata 4 anni fa, con la frase e non farti mai più vedere da queste parti. Si vede che Obama non ha letto bene le immortali tragedie sul potere scritte da William Shakespeare, dove gli arrogantoni super ambiziosi -di solito anche permalosi – covano risentimento, voglia di rivincita, ambizioni megalomani e finiscono per cavalcare gli insondabili binari della dimensione mentale personale, spacciandola per fatti reali e oggettivi. La realtà (che ci piaccia o meno, quella esiste, al di là delle nostre paturnie e interpretazioni soggettive che vengono pure diffuse nel mondo virtuale) era chiara, visibile, sotto gli occhi di tutti. E in Usa lo sapevano tutti che non vi era alcun dubbio che Trump avrebbe vinto. Vi cito qui di seguito un testo del più celebre antagonista statunitense pubblicato 50 giorni fa. E’ un articolo del regista documentarista Michael Moore (http://michaelmoore.com/trumpwillwin/) oppure più estesamente su http://www.alternet.org/election-2016/michael-moores-5-reasons-why-trump-will-win. il cui titolo è: “I cinque motivi per i quali Donald Trump vincerà le elezioni a novembre e nessuno lo può fermare“. Inizia con “miei cari concittadini, ho davvero delle pessime notizie per tutti voi…..” elaborando e argomentando, con profonda conoscenza delle contraddizioni del suo paese, le diverse valenze che hanno costruito l’inarrestabile successo di Donal Trump.
E’ una sorpresa anche per gran parte degli italiani. La nostra stampa, per lo più, ci ha riferito ciò che diceva la CNN e dell’America, quella vera, ci ha detto poco o nulla. Stavo in Usa, nell’ estate del1980 e lavoravo come corrispondente per “Il Lavoro” di Genova diretto da Giuliano Zincone (lui ed Oriana Fallaci erano in Vietnam nel 1964 e i loro reportage sul corriere della sera e su L’europeo erano epici, perchè veri, scritti sotto le bombe vere, stando al fronte sulla linea di fuoco. Impagabili.) C’era la campagna elettorale e il candidato indipendente che aveva sbaragliato ogni concorrente dentro il partito repubblicano era Ronald Reagan, definito un clown senza alcuna possibilità di vincere. Riuscii allora a farmi accreditare e mi conquistai il posto sull’autobus che seguiva il tour di Reagan attraversando tutti gli stati. Non c’era nessun altro giornalista italiano, se ne stavano a Manhattan e Washington (Los Angeles non esisteva ancora come piazza). La grande spinta degli anni’70 era finita, la società era cambiata ed era chiaro -seguendo il carrozzone reaganiano- che lui avrebbe vinto. Ricordo l’editoriale sulla prima pagina del corriere della sera, il giorno prima della votazione, scritto dal decano dei corrispondenti, Ugo Stille (di lì a breve sarebbe diventato il direttore) il cui titolo era “Perchè Reagan non ha alcuna possibilità di vincere”. Anche Lucio Manisco su Il Messaggero scriveva le stesse cose, e Sergio Segre su l’Unità e tutti gli altri: descrivevano un’America che da anni non esisteva più. In questi giorni si è poco parlato dell’articolo di Michael Moore (che è anche poco girato in rete) e degli interventi delle femministe post-moderne statunitensi capeggiate dalla grande intellettuale Camille Paglia, con il suo “too easy darling” (trad. “troppo facile, tesoro mio”) nel quale attaccava Hillary sostenendo che era un pessimo esempio per le femministe essendosi rifiutata di usare il suo cognome perchè mi è utile usare il cognome di mio marito. “Un’immagine obsoleta della donna, falsa e ipocrita come lei”, ha sentenziato l’autorevole femminista. Così come sarebbe stato opportuno andare a intervistare Susan Sarandon, che ha guidato la sinistra antagonista contro Hillary. O i grandi sindacalisti dei comitati di base di fabbrica a Detroit, nel Michigan (lì ha perso le elezioni la Clinton) quelli con i quali si era incontrato e scontrato Marchionne nel 2010, i quali hanno votato per Trump. Così come ha votato per Trump la stragrande maggioranza dei giovani laici (tra i 18 e i 35 anni) in Florida e in Pennsylvania, ragazzi digitali che odiano l’ipocrisia, l’opacità, la menzogna di stato, che non leggono il New York Times e gli editoriali di quelli che in Italia definiamo radical chic, e non seguono i media mainstream perchè si affidano ad altri veicoli di comunicazione che appartengono a un altro sistema mentale: quello della percezione, dell’emotività, e della denuncia di crimini nascosti. La botta definitiva a Hillary gliel’ha data l’uragano di due mesi fa ad Haiti, quello che ha causato circa 5.000 morti e 250.000 persone senza tetto (e senza nessuna assistenza) di cui nessuno ha parlato, ma sono diventati invece argomento principe nella campgana elettorale statunitense per un particolare che giudico fondamentale: la notizia diffusa con ampia documentazione provata da Jill Stein (candidata verde sostenuta dalla Sarandon, Michael Douglas e dalle prime 200 organizzazioni ambientaliste americane) in cui si spiega che la vera ragione di quel terribile disastro non è stata Madre Natura bensì un business gestito dai Clinton. Nel 2010, infatti, quando c’era stato il devastante terremoto (il 12 Gennaio) Hillary si era precipitata nell’isola con aerei pieni di medicinali e cibo pagati dalla sua fondazione, litigando con le associazioni e con ogni altro interlocutore lì presente per dare sostegno (compreso lo scontro con Bertolaso, presente nell’isola, che quasi provocò un incidente diplomatico tra Usa e Italia) riuscendo nel suo intento, cioè assumere il totale controllo degli aiuti per la popolazione locale, gestito dalla sua fondazione benefica. Due anni dopo, la fondazione dei Clinton risultava incaricata della concessione sul demanio territoriale dell’isola che affidò alla American Mining Corporation, la più importante multinazionale del carbone. Questa azienda diede inizio alla più grande opera di deforestazione mai verificatasi nell’America Centrale. Hanno tagliato migliaia e migliaia di palme che da millenni vivevano lì, aprendo 156 nuove miniere di carbone a cielo aperto. E così, l’isola di Haiti è rimasta senza la sua più potente e poderosa barriera di difesa naturale: una selva di giganteschi alberi che fermano e dirottano i venti degli uragani che da sempre devastano la zona. Senza quella difesa, le case dei poveri sono state spazzate via. Questa piccola storiella ha avuto un effetto dirompente nell’immaginario collettivo che è montato sul passaparola della solidarietà umana (quella vera) e la gente indignata ha accusato la Clinton di ipocrisia.
Ma soprattutto il “fattore Jess Ventura”  è stato davvero fondamentale. Un nome che a molti italiani non dice niente. Si tratta di un curioso personaggio, ex attore, ex campione di wrestling, ambientalista, grande complottista, (è la persona nell’immagine in bacheca) il quale nel 1997 scende in politica con una formazione inedita “Il Partito Riformista della Nazione” vince le elezioni e diventa governatore dello stato del Minnesota. Costui diventa un’icona dell’antagonismo anti-sistema. Rimane in carica fino al 2003, attaccando il potere centrale, il capitalismo americano, l’ipocrisia moralistica americana, accusando Hillary Clinton di essere la responsabile della cancellazione dello Steagall Act rooseveltiano con il quale, Bill Clinton, nell’ottobre del 1998, grazie a un decreto presidenziale votato da tutti i repubblicani, consegnava ufficialmente e formalmente l’intera economia planetaria nelle mani della finanza speculativa gestita da Wall Street e dalla City di Londra. La sua elezione fu il grande shock della vita politica americana di quei tempi. Trovò anche uno sponsor, un imprenditore di New York che si precipitò da lui iniziando a finanziarlo per cercare di convincerlo a presentarsi alle elezioni presidenziali del 2000 contro i repubblicani e i democratici. Jess Ventura non accettò (“la politica mi disgusta, è il luogo in cui si incontra il business e la psicopatia mentale” dichiarò abbandonando l’attività pubblica). Il suo sponsor di allora era Donald Trump. Quello fu il colpo di fulmine per l’attuale presidente, e quello fu l’esempio che lui ha deciso di cominciare a perseguire, dedicando i seguenti dieci anni a coltivare le relazioni necessarie e sufficienti per poter essere sostenuti in maniera credibile. Ma Jess Ventura ha iniziato a fare scuola, diventando la prima vera grande icona del cambiamento per la generazione dei millennials, quella che esploderà con “occupywallstreet” nel 2010, dando l’accelerazione imprevista e cercata da Trump.
Il vincitore di queste elezioni è un uomo che è riuscito a sintetizzare e interpretare i malumori autentici del Paese. L’unico oppositore convincente avrebbe potuto essere Bernie Sanders, avrebbe senz’altro vinto. Ma lui era un socialista, e Obama ha compiuto il miope errore di essersi fidato di Hillary cedendo al compromesso con Wall Street che ha voluto sostenere i Clinton. Così come le multinazionali, il grande Corporate America, la spina dorsale dei cosiddetti “poteri forti”. Quest’esperienza è la prova lampante della stupidità di una locuzione come questa. Ma che razza di forza avrebbe questo fantomatico potere se non è neppure in grado di vincere una elezione presidenziale?  La realtà, infatti è molto più complessa, variegata, multi-dimensionale.
Donald Trump, forse, farà del bene all’America. Di sicuro non farà del bene all’Europa di cui, francamente Trump se ne frega.
In quanto europeo sono preoccupato. Ora avremmo  bisogno di una grande compattezza della nostra civiltà, della nostra cultura, della grandiosa eredità del nostro continente. Ma appare molto chiaro che aumenta sempre di più l’insofferenza verso un sistema politico centrale che sta dimostrando di non essere capace nè di comprendere nè di gestire questo momento. Anche perchè non esiste nessun leader politico che ha il coraggio di dire la nuda verità: questa crisi non è superabile, perchè la realtà ha prodotto un inatteso boomerang: il capitalismo è finito, non è più in grado e non sarà mai più in grado di produrre benessere. O si va oltre questo paradigma oppure inevitabilmente finiranno per esplodere guerre civili dovunque e comunque.
Siamo già nel post-Maya.
Donald Trump è il primo presidente di questa fase.
Non sappiamo ancora come interpreterà questo ruolo.
Ma una cosa è certa: così come Ronald Regan ha condotto il mondo verso la fine e il crollo del comunismo senza passare per la guerra nucleare, è probabile che Donald Trump ci condurrà, paradossalmente (da miliardario arrogante) verso la fine del capitalismo, evitando una guerra globale.
Speriamo.
Nel frattempo, le borse crollano? Macchè. Volano tutte al rialzo. Come mai?
Perchè Donald Trump è il vero potere forte, questa è la chiave.
Il potere forte è soltanto quello che vince. Per questo è forte. Perchè vince.

Ddl penale, Pd chiede il rinvio: “Votare dopo il referendum”. Ma Orlando: “Rivalutare data”. Grasso: “Basta rinvii”.

Ddl penale, Pd chiede il rinvio: “Votare dopo il referendum”. Ma Orlando: “Rivalutare data”. Grasso: “Basta rinvii”

Maggioranza e governo ancora in ordine sparso sulla riforma che dovrebbe modificare prescrizione e intercettazioni. Il capogruppo Zanda vuole la discussione, ma solo dopo la consultazione popolare. Il ministro della Giustizia però chiede di rivedere il calendario. Grasso chiede che il Pd si chiarisca le idee.


Il Pd va in conferenza dei capigruppo, al Senato, e chiede il rinvio della riforma penale, l’ennesimo, dopo il referendum costituzionale. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo poche ore, va in tv e chiede di rivalutare quel calendario perché il disegno di legge può essere approvato entro il 4 dicembre. Maggioranza e governo continuano a ballare intorno alla riforma penale, che – fatta e finita – aspetta di essere votata ormai da mesi dall’Aula di Palazzo Madama. Il motivo è sempre lo stesso: la paura di portare in discussione un testo che da una parte può essere stravolto o, peggio, dall’altra può diventare un rischio serio per la sopravvivenza del governo. Da qui le ripetute toccate e fughe di governo e partiti che lo sostengono, con Orlando che da mesi spiega che la legge è pronta per essere votata e dall’altro la maggioranza che – dopo aver chiesto la discussione perfino “immediata” – si è ritrovata prima a far saltare il numero legale in Aula per tre volte in 15 giorni a settembre e poi addirittura a dare la precedenza al ddl cinema. Il risultato è che la legge è stata tenuta nel limbo dal Pd per la reciproca diffidenza dei vari partiti della maggioranza. Così ora è stato il presidente del Senato Piero Grasso a dire al capogruppo Luigi Zanda che il Partito democratico come minimo deve chiarirsi le idee. Da capire se peserà più la voce del governo, qui espressa da Orlando, o i giochi politici della maggioranza. Rinviare a dicembre, per giunta, potrebbe essere ulteriormente rischioso per il fatto che a un certo punto al Senato arriverà anche la legge di bilancio che pretende ritmi serrati e ha limiti temporali obbligati.
Peraltro ora il governo non ha più nemmeno l’alibi dell’opposizione dell’Anm. Il presidente Piercamillo Davigo e il ministro guardasigilli Orlando infatti si sono presentati insieme, con un’intervista doppia, a DiMartedì, su La7, per chiedere di votare la riforma sul processo penale il prima possibile. Aver messo la riforma in calendario dopo il referendum, ha detto Davigo, “rende più aleatoria l’approvazione delle nostre richieste inserite con modifiche nel disegno di legge sul diritto penale e questo vale in qualunque modo vada il referendum”. “Sono d’accordo – ha aggiunto Orlando – spero si riconsideri la ricalendarizzazione”. Il 29 giugno Grasso e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella avevano chiesto di accelerare. Era il 30 giugno 2014 quando Matteo Renzi annunciava in una scenografica conferenza stampa i 12 punti della riforma della giustizia. Dopo oltre due anni la questione resta in alto mare mentre ogni anno decine di migliaia di processi vanno al macero a spese del contribuente.
Il pressing dei Giovani Turchi, la resistenza dei centristi.
In conferenza dei capigruppo Zanda era andato a chiedere di fissare il voto sulla riforma, ma solo dopo il referendum, il 7 dicembre. Un modo per tenere insieme varie sensibilità (votiamo, sì, ma senza scossoni prima della consultazione popolare, già in bilico di suo). Zanda era stato spinto a chiedere di discutere definitivamente la riforma penale in particolare da una pattuglia di senatori del Pd, della corrente di “Rifare l’Italia”, cioè i Giovani Turchi, corrente che esprime lo stesso ministro guardasigilli, Orlando. “È una riforma fondamentale – avevano spiegato in una nota i senatori guidati da Francesco Verducci – Ci sono tutte le condizioni per approvarla presto e bene già in questa settimana”. Ma in conferenza dei capigruppo Grasso ha appunto chiesto al Pd di chiarirsi le idee perché la prossima data sarà l’ultima: il presidente del Senato non ha più intenzione di rinviare il voto finale della legge. E d’altra parte a chiedere di far slittare tutto sine die erano stati sempre nella riunione dei presidenti di gruppo Laura Bianconi per Area Popolare e Lucio Barani dei verdiniani di Ala: una fotografia di quanto è delicato questo passaggio per la maggioranza. Tutte divisioni che in questo momento di “campagna referendaria” si punterebbe ad evitare.
Appelli e garanzie di Orlando
E’ così che si spiega come il voto finale non sia ancora arrivato appelli e garanzie del ministro della Giustizia Andrea Orlando che da una parte aveva mediato per far ritirare emendamenti sgraditi ad Area Popolare e dall’altra si era detto convinto e aveva dichiarato più volte che l’accordo era stato raggiunto (l’ultima volta a luglio), chiudendo ad altre richieste dei centristi in senso garantista. Il ddl penale – che contiene tra l’altro riforma della prescrizione e delle intercettazioni – era uscito dalla Camera il 24 marzo 2015, ma già all’epoca il ministro dell’Interno e leader di Ap Angelino Alfano aveva promesso battaglia in Senato. Ma quando, dopo un confronto lungo e serrato, la riforma è arrivata in Aula i senatori di Area Popolare hanno fatto mancare ripetutamente il numero legale. Un segnale di avvertimento più che chiaro.
La maggioranza non si fida di se stessa
Il punto è sempre il solito, infatti: la maggioranza è paralizzata da mesi dalla paura, non vuole portare al voto finale la riforma che lo stesso Orlando, in un’intervista al Corriere di qualche settimana fa, ha definito come quella più “pericolosa” per le stesse sorti del governo. I democratici, in particolare, si trovano tra due fuochi. Da una parte, se non viene posta la questione di fiducia e il voto è “libero”, possono essere presentati emendamenti che – anche con la complicità di qualche voto segreto – possono passare con sinergie trasversali (M5s-Sel-sinistra Pd). E a quel punto il testo avrebbe tonalità meno garantiste e Area Popolare – o parte di questa – potrebbe rifiutarsi di approvare la versione definitiva. Dall’altra, se venisse posta la questione di fiducia, sarebbe un finale da palpitazioni, perché i verdiniani di Ala hanno da tempo annunciato il voto contrario al provvedimento e anche dentro Ncd Udc l’impressione è che Alfano a parole assicuri il controllo pieno delle proprie pattuglie di senatori, ma nei fatti il terreno sia più viscido. I numeri al Senato li conoscono tutti, senza Ala non c’è un cuscinetto di sicurezza e non c’è cosa che irrita gli ex berlusconiani di governo come le questioni della giustizia.
La fiducia bloccata da Renzi
La riprova era stata proprio a settembre quando Alfano – evidentemente non così sicuro dell’atteggiamento dei suoi – aveva chiesto a Orlando di porre la fiducia e il ministro della Giustizia – refrattario alla fiducia – aveva dato il suo ok. Ma tutto era stato fermato dallo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il capo del governo aveva spiegato quella decisione con ragioni di fair-play istituzionale nei confronti dell’Anm: “Non metto la fiducia su un provvedimento per cui i magistrati potrebbero fare sciopero”. Ma nel frattempo è caduto anche quell’alibi poiché Renzi e Orlando hanno incontrato due settimane fa il presidente dell’Anm Davigo a Palazzo Chigi e un eventuale sciopero non pare all’orizzonte.
Davigo: “Non si può fare la guerra su tutto”
Davigo ha dato atto del fatto che Orlando si “è comportato diversamente dai suoi predecessori” e che le ragioni dei magistrati sono state ascoltate anche se non interamente accolte. Al presidente dell’Anm ancora non bastano le modifiche della prescrizione“che non dovrebbe decorrere dopo la sentenza di primo grado” ma “non possiamo fare la guerra su tutto“.
Orlando ha fatto presente che “si fanno le modifiche che consente il quadro politico: all’inizio di questo governo nessuno pensava che avremmo reintrodotto il falso in bilancio, introdotto il reato di autoriciclaggio e rivisto la prescrizione“. Il ministro guardasigilli ha però sottolineato che “se è giusto dare più tempo per fare il processo, non è giusto lasciare che le persone siano sotto processo per tutta la vita“. Da parte sua Orlando ha spiegato che il ddl “ha l’obiettivo di diminuire i processi” con una serie di misure deflattive che possano far sì che i magistrati si concentrino sui reati di maggior allarme sociale. Davigo, toccando l’argomento dell’evasione fiscale, ha contestato la necessità di fare norme sulrientro agevolato dei capitali dato che “tra un anno dagli altri Paesi arriveranno tutti i dati” su chi nasconde i soldi all’estero. Il presidente dell’Anm ha poi riproposto l’idea della “premialità forte” anche fino alla “impunità totale” per chi denuncia la corruzione facendo parte del “sistema”, dato che questo è uno dei reati meno denunciati in assoluto. Orlando ha difeso la scelta di premiare la collaborazione dei corrotti solo con attenuanti perché sull’impunità assoluta “non sono d’accordo nemmeno i magistrati”.