domenica 31 dicembre 2017

Aumenti 2018: dalle autostrade alle poste, tutti i rialzi che ci aspettano.



Non ci sono solo le bollette di gas e luce. Dal primo gennaio, una serie di aumenti tariffari cambieranno i prezzi di ticket, trasporti e prodotti postali.

Elettricità. Gas. Rifiuti. Ticket. Banche. Poste. Autostrade. Assicurazioni. E poi professionisti, artigiani, trasporti. Con l’inevitabile ricaduta su alimenti e prodotti agricoli. Una stangata da quasi mille euro in più a famiglia che nel 2018 si troverà aumenti e rincari di bollette e tariffe in quasi tutti i settori. Persino i sacchetti biodegradabili della spesa saranno a pagamento.

Non ci sono solo le bollette di gas e luce. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha annunciato aumenti che vanno dal 5,3% per l’elettricità al 5% per il gas a famiglia per il primo trimestre 2018. Un record soprattutto per l’energia elettrica dovuto, spiega l’Autorità, a vari fattori, tra cui la ripresa dei consumi (+1,6% la domanda elettrica nei primi undici mesi del 2017), ma anche alla «minore disponibilità della generazione idroelettrica nazionale per la scarsa idraulicità del periodo»: il 2017 è stato l'anno più arido degli ultimi 200 anni. Per il gas, l’aumento invece è più «naturale», essendo legato alla stagione invernale. Ma tutto ciò si traduce in una spesa a famiglia di 535 euro (+7,5%) per l’elettricità e di 1.044 euro per il gas.

Sempre dal primo gennaio, costerà di più viaggiare in autostrada. Autostrade per l’Italia ha annunciato «l’adeguamento tariffario» pari all’1,51% per il «recupero del 70 dell’inflazione reale e la remunerazione dei nuovi investimenti effettuati». Ma salgono i pedaggi anche di Autostrade Meridionali (+5,98%), Autovie Venete (+1,88%), Torino-Milano (+8,34%), Milano Serravalle (13,91%, Strada dei Parchi (+12,89%). Record per la Aosta Ovest-Morgex: +52%. Aumenti «inaccettabili» per il presidente dell’Unione nazionale consumatori Massimiliano Dona: «Significa mandare in tilt i bilanci di quei pendolari costretti a prendere quella tratta».

L’Osservatorio dell’Adusbef ha calcolato in circa mille euro (980) la spesa in più che ogni famiglia dovrà affrontare nel nuovo anno, non solo per tariffe e pedaggi ma anche per i consumi. Secondo l’associazione ci saranno rincari medi di 25 euro per le assicurazioni auto, 40 euro per i pedaggi stradali, 97 per altri costi di trasporto, 49 per la Tari (nonostante le «tariffe pazze» dei Comuni che verranno rimborsate), 156 euro per professionisti e artigiani, 55 euro per i ticket sanitari, 18 euro per le tariffe postali e 38 euro per i servizi bancari. «Si profilano ulteriori salassi per i cittadini — dice Elio Lannutti, presidente di Adusbef —, mentre, secondo le stime dell’Istat, cresce il rischio povertà o esclusione sociale con oltre 18 milioni di persone a rischio: nulla di buono aspetta i consumatori italiani e questi incrementi per molte famiglie sono insostenibili, è urgente una seria azione del governo per controllare e contrastare ogni aumento ingiustificato». Dal primo gennaio scatta anche l’obbligo dell’uso di soli sacchetti biodegradabili per gli alimenti. Vietati quindi tutti i sacchetti di plastica usati finora per insaccare carne, verdura e la spesa in generale. Tutti i negozianti dovranno rifornirsi di sacchetti compostabili. La novità avrà però un costo per i consumatori: si va da un minimo di 1 centesimo a sacchetto a cinque centesimi. Un’altra mini «stangatina» che alla lunga peserà sulle tasche degli italiani, anche se per Legambiente «è sbagliato parlare di caro-spesa: l’innovazione — dice il direttore generale Stefano Ciafan i— ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo intorno ai 3 centesimi». Infine, sorpresa di fine anno per i ciclisti: tutti gli amanti delle due ruote non professionisti che si dilettano in gare e passeggiate cicloturistiche dovranno pagare un canone annuale di 25 euro alla Fci, la Federazione ciclistica italiana.

lunedì 25 dicembre 2017

Buone feste.


sabato 23 dicembre 2017

L'intruso del Sistema Solare è una cometa interstellare.

Rappresentazione artistica di Oumuama, probavilmente una cometa interstellare protetta da una spessa corazza di molecole organiche (fonte: ESO/M.Kornmesser) © Ansa
Rappresentazione artistica di Oumuama, probavilmente una cometa interstellare protetta da una spessa corazza di molecole organiche (fonte: ESO/M.Kornmesser) RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA/Ansa.

Protetta da una corazza di molecole organiche.


L'intruso del sistema solare, Oumuamua, potrebbe essere una cometa interstellare rivestita di una corazza di molecole organiche che l'avrebbe protetta durante il suo lungo viaggio nella Via Lattea e durante il suo saluto al Sole. Lo indica la ricerca pubblicata sulla rivista Nature Astronomy e condotta in Irlanda, nella Queen's University di Belfast, dal gruppo coordinato da Alan Fitzsimmons e Michele Bannister.

Il rivestimento di materiale organico avvolgerebbe un nucleo di ghiaccio e si sarebbe formato dal bombardamento di raggi cosmici nel corso di milioni o addirittura miliardi di anni.
Individuato il 19 ottobre 2017 dal telescopio Pan-STARRS 1 nelle Hawaii, Oumuamua e' davvero singolare, con il suo colore grigio-rossastro e la forma affusolata simile a quella di un sigaro. Sulla base delle prime osservazioni era stato classificato come un asteroide proveniente da un'altra stella e ricco di metalli; si è anche ipotizzato che fosse fatto di materia oscurainvisibile e misteriosa.

Il sospetto che fosse una cometa arrivata da un'altra stella gli astronomi l'avevano avuto subito, ma le osservazioni successive alla scoperta avevano dimostrato che l'avvicinamento al Sole non aveva generato i getti di vapore tipici delle comete. Oumuamua infatti si e' avvicinato a 37 milioni di chilometri dal Sole senza subire danni

Adesso analizzando il modo in cui Oumuamua riflette la luce si sono osservate somiglianze notevoli con i pianetini e le comete fatte di ghiacci ricchi di carbonio, ''la cui struttura - ha rilevato Fitzsimmons - e' modificata dall'esposizione ai raggi cosmici''.
Una simulazione ha poi dimostrato che , durante il passaggio ravvicinato al Sole, un mantello di molecole organiche dello spessore di mezzo metro potrebbe avere impedito che il suo nucleo di ghiaccio evaporasse

Per Bannister e' affascinante che ''il primo oggetto interstellare scoperto somigli a un corpo celeste del nostro Sistema Solare e questo suggerisce che il modo in cui e' nata la nostra famiglia di pianeti potrebbe essere simile al modo in cui si formano i sistemi planetari attorno alle altre stelle''.

giovedì 21 dicembre 2017

Antimafia dispone confisca beni Matacena per 10 mln. -

L'ex parlamentare di Forza Italia è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e attualmente latitante a Dubai.

La Direzione Investigativa Antimafia di Reggio Calabria ha eseguito un provvedimento di sequestro e confisca di beni, emesso dalla Corte di Assise d'Appello di Reggio Calabria, nei confronti dell' armatore ed ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e attualmente latitante a Dubai. La confisca riguarda 12 società in Italia e all'estero, conti bancari, immobili e un traghetto in servizio nello Stretto di Messina, per un valore complessivo di oltre 10 milioni di euro.
Matacena, già condannato definitivamente, nel 2014, a tre anni di reclusione dalla Corte di Cassazione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stato riconosciuto quale uomo politico di riferimento delle cosche reggine a salvaguardia dei loro interessi.
Successivamente, è rimasto coinvolto nelle indagini svolte dalla Dia di Reggio Calabria che hanno portato all'emissione di diverse ordinanze di custodia cautelare in carcere, oltre che nei suoi riguardi, anche a carico di sua moglie Chiara Rizzo, per intestazione fittizia di beni, e dell'ex Ministro dell'Interno Claudio Scajola, per averlo aiutato a sottrarsi alla cattura.
Nel giugno 2017, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, su proposta della Procura Distrettuale, aveva confermato la "pericolosità sociale" di Matacena, disponendo nei suoi confronti il sequestro di alcune disponibilità finanziarie e di un immobile all'estero.
Con il nuovo provvedimento, la locale Corte di Assise di Appello, evidenziando che la maggior "parte dei beni che costituiscono il patrimonio del Matacena sono frutto di attività illecite e/o di reimpiego dei loro proventi", e ravvisando "una oggettiva quanto marcata sproporzione" tra gli investimenti effettuati e i suoi redditi dichiarati, ha disposto il sequestro e la confisca di 12 sue società (per l'intero capitale sociale o in quota parte), di cui 4 con sede nel territorio nazionale (Villa San Giovanni, Reggio Calabria e Roma) e 8 all'estero (Isole Nevis, Portogallo, Panama, Liberia e Florida), nonché di disponibilità finanziarie collocate in conti esteri.
Le società sono attive prevalentemente nel settore armatoriale, immobiliare e di edilizia. Oggetto di sequestro e confisca sono anche 25 immobili aziendali, oltre ad una grossa motonave di oltre 8.100 tonnellate di stazza, utilizzata per attività di traghettamento veicoli e passeggeri nello Stretto di Messina.
Il valore complessivo del patrimonio oggetto del provvedimento odierno supera i 10 milioni di euro. Le aziende sequestrate proseguiranno la loro attività con amministratori giudiziari designati dalla locale Autorità Giudiziaria.

Etruria, il clamoroso autogol della Boschi. - Francescomaria Tedesco

Etruria, il clamoroso autogol della Boschi

Qualcuno deve aver suggerito a Maria Elena Boschi di dire di non aver mai esercitato “pressioni” su Federico Ghizzoni o altri per le questioni inerenti a Banca Etruria. In effetti si tratta di un tentativo di spostare l’asse della questione da un interessamento imbarazzante e indebito a “pressioni”
In questo modo, Maria Elena Boschi dopo aver costruito l’obiettivo polemico di paglia (le ‘pressioni’) può dire di non essere smentibile. Come se la sola stessa presenza di una ministra che ha il babbo implicato a vario titolo nella gestione del crack di una delle banche interessate non fosse di per sé una situazione anomala.
Ma i renziani compatti: “Tutto ok, noi ineccepibili”. 
Ricordo un concorso universitario in cui un professore, presidente della commissione esaminatrice che avrebbe dovuto valutarlo e candidato unico disse che al momento della decisione lui era uscito dalla stanza. 
Tanto più che emerge che sì, niente “pressioni”, hanno detto all’unisono sia Giuseppe Vegas che Ghizzoni, ma un certo interessamento un po’ insistente di sicuro, se si pensa che Renzi durante due dei primi tre incontri con Vincenzo Visco gli chiede di Banca Etruria e dell’oro aretino, inducendo il governatore nel primo caso a non rispondere su materie coperte da segreto ex art. 7 del Testo unico bancario e nel secondo a un sorriso di circostanza per la stranezza della domanda.

Si è appreso poi che anche la stessa Maria Elena Boschi ha chiesto sia a Vegas che a Visco di Banca Etruria. Nessuna delega da parte di Pier Carlo Padoan, peraltro l’unico investito, sempre secondo il Tub, a discutere con Bankitalia di quelle questioni. Inoltre, ieri è emerso che anche l’amico intimo di Renzi, suo braccio destro ed ex candidato dell’allora premier come responsabile della cyber security (nomina poi stoppata da Mattarella), era intervenuto presso Ghizzoni perché gli era stato chiesto (Carrai dice da un proprio cliente) “di sollecitarti per una risposta su Etruria”.
Il mantra di Renzi-Boschi è “preoccupati per il territorio” e “nessuna pressione”. Se un ministro della Repubblica o il presidente del Consiglio dei ministri chiedono qualcosa, e con insistenza, su una questione dalla quale si sarebbero per opportunità dovuti tenere distanti un miglio, non è una pressione? Tutti preoccupatissimi per Etruria e per la Toscana (anche se la Costituzione dice che il parlamentare “rappresenta la Nazione”, art. 67) e neanche un cane a chiedere, che so, l’acquisizione, per dire, di Banca delle Marche. Dice Ghizzoni: “non mi ha detto acquisite Banca Etruria!”. Ma questa non sarebbe una pressione, bensì un vero e proprio ordine, come quando dico al cane “Sitz!” per farlo sedere.

Cos’è una pressione, una testa di cavallo nel letto? Un coltello puntato alla gola? Pressione è un’altra cosa, la pressione dipende anche dal ruolo della persona che ti chiede di fare o non fare una cosa. Ma per capire la gravità della cosa c’è una persona che più di tutti può dirlo: Boschi stessa. L’attuale sottosegretaria aveva detto a proposito del libro di Ferruccio De Bortoli, nel quale l’ex direttore del Corriere della Sera scriveva che Boschi aveva chiesto a Ghizzoni “di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria”, di essere in presenza di “affermazioni evidentemente diffamatorie”, minacciando prima querela (mai giunta e ora impossibile per decorso dei termini) e di volere poi un risarcimento in sede civile dal giornalista e da altri (ma De Bortoli dice di non aver ricevuto, al momento, alcunché).
Ora Ghizzoni conferma quasi alla lettera la ricostruzione di De Bortoli. Dunque, se la logica non fa difetto, aver chiesto a Ghizzoni di “valutare l’acquisizione di Etruria” è per Boschi stessa una cosa grave, gravissima, tanto che chi lo dicesse si beccherebbe una querela e una causa civile per risarcimento. Ma la Boschi lo ha chiesto, come dice Ghizzoni confermando De Bortoli. Dunque la gravità del fatto è la stessa Maria Elena Boschi ad averla certificata, parlando di quel fatto – prima che Ghizzoni lo confermasse – come una cosa inaudita, grave, mai avvenuta. Fosse stato tutto normale, Boschi avrebbe detto “Sì, ho chiesto a Ghizzoni di valutare l’acquisizione di Banca Etruria, embè?”. E invece la cosa è grave, gravissima. Ipse dixit.

Etruria, il mesto calvario di Boschi e Renzi. - Andrea Scanzi

Etruria, il mesto calvario di Boschi e Renzi

Matteo Renzi e Maria Elena Boschi sono dei geni. E lo sapevamo. Ma forse non credevamo che lo fossero così tanto. Sogniamo con loro.
– Fanno di tutto per varare (in ritardo) una Commissione banche. Ci credono così tanto che, per presidente, ci mettono Pier Ferdinando Casini. La vogliono unicamente per dare un contentino ai media e farsi belli.
– La Commissione, che concretamente non servirà a nulla se non forse a far perdere le querele alla Boschi, si rivela l’ennesimo autogol renziano. Boschi e derivati temevano Federico Ghizzoni, ma prima di lui, che ovviamente conferma le parole di Ferruccio De Bortoli, arrivano le pietre tombali di Giuseppe Vegas,Vincenzo Consoli e Ignazio Visco. Persino Pier Carlo Padoan sparge sale sulle ferite. E’ gogna, è calvario. E’ torcida. Si vola.
– Ghizzoni ha citato anche  Marco Carrai, mentre Visco ha fatto capire che Renzi aveva una fissa per Arezzo. Il giglio magico aveva proprio una fissa per Banca Etruria. Daje.

– I renziani, come all’asilo, di fronte al diluvio fingono che ci sia il sole: “Visto? Consoli e Ghizzoni hanno confermato le nostre parole“. Idoli.
– Maria Elena Boschi si conferma il più grande parlamentare grillino di questa legislatura: nessuno come lei fa venire voglia di votare M5S (o chiunque tranne il Pd). E’ davvero la nuova Nilde Jotti. Per distacco.
– Mentre il Pd muore, nessuno tra i piddini non renziani muove foglia. Evidentemente son contenti così.
– I cortigiani, da LaVia alla Fusani fino al poro Cerasa, continuano a difendere il fortino. Sono meravigliosi.
– Nei sondaggi il Pd crolla: 20% o giù di lì. Lo stesso responsabile della comunicazione Matteo Richetti, convinto che negli incontri di partito non ci sia nessuno che lo filmi (genio), tratta ormai Renzi come il poro schifoso. E’ leggenda inesausta. – Ciò nonostante, a marzo Genny Migliore Presidente del Consiglio, Farinetti al Quirinale e Recalcati nuovo frontman dei Pearl Jam.

– Mary Hellen Woods continua a fare più danni della grandine e i sondaggi la accreditano di un potenziale di un milioni di voti: in meno, però. Eppure sta sempre lì. Nessuno, dentro il partito, osa attaccarla. Cosa diamine sa questa donna? Ha visto Sergio Mattarella rubare i Lego a Sandro Gozi? E’ venuta a sapere che da piccolo Orfini si vestiva da Mazinga alle feste in maschera di Drupi? Bah.
– Sono aretino, fiero di esserlo e innamorato della mia città: è bellissima. Per questo, ‘sta cosa che Arezzo sia citata quasi sempre per fatti così mesti mi fa venire un giramento di andrearomani che neanche immaginate.
– L’unico a salvarsi, in un tal dramma generalizzato, è Dario Nardella. Ma solo perché Egli è immanente. Egli non vive, bensì trascende. Egli si eleva fino a divenire puro spirito, Faro e Guida. Luce di noi tutti. A marzo lo voto. Forza Dario.

Buona catastrofe.

mercoledì 20 dicembre 2017

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani.

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani

Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l'aggiudicazione di un giacimento, avvenuta poi nel 2011. Gli imputati sono 15 in tutto, comprese le società Eni e Shell. L'indagine partì da alcune intercettazioni nell'indagine sulla P4.

Claudio Descalzi e Paolo Scaroni sono stati rinviati a giudizio per corruzione assieme ad altre 11 persone e alle società Eni e Shell per il caso Nigeria. Il gup del tribunale di Milano ha stabilito che i 15 imputati, tra i quali c’è anche il faccendiere Luigi Bisignani, dovranno affrontare il processo per la presunta maxi tangente versata dalle due multinazionali del petrolio a pubblici ufficiali e politici nigeriani per lo sfruttamento del giacimento Opl 245.
Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l’aggiudicazione di quel giacimento, avvenuta poi nel 2011. All’epoca dei fatti, Scaroni era numero uno del gruppo petrolifero, mentre Descalzi, scelto come suo successore dall’azionista ministero dell’Economia, guidava la divisione Oil & gas. Esponenti del governo nigeriano avrebbero ottenuto dal gruppo del petrolio e del gas partecipato dal Tesoro 1,09 miliardi di dollari in cambio della concessione per la stessa cifra ai due gruppi dei diritti esclusivi di sfruttamento del giacimento. Di cui peraltro, negli scorsi mesi, la Nigeria ha ripreso il controllo in via cautelare proprio nell’attesa che si concludano “le inchieste in corso e le indagini a carico dei sospetti”.

Nell’avviso conclusioni indagini di un anno fa i pm hanno descritto i passaggi dell’intera operazione. Nella loro ricostruzione si legge che Scaroni diede “il placet all’intermediazione di Obi”, intermediario nigeriano, “proposta da Bisignani e invitando” Descalzi “ad adeguarsi”. Entrambi, sia Scaroni che Descalzi, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano dell’epoca Jonathan Goodluck “per definire l’affare” relativo al giacimento. La presunta mazzetta e il prezzo dell’acquisto sono equivalenti perché l’ex ministro del Petrolio Etete alla fine degli anni ’90 si ‘autoassegnò’ la concessione a costo zero, tramite la società Malabu e attraverso prestanome. Quindi i soldi pagati al governo nigeriano furono riversati al politico, che li avrebbe usati anche per “immobiliaereiauto blindate“.
Secondo quanto riferito da De Pasquale alla Corte di Londra nel settembre 2014, gli 800 milioni di dollari partiti nel 2011 verso due conti correnti intestati alla Malabu di Etete servivano per pagare presunte tangenti a funzionari e politici africani, ai manager Eni e agli intermediari esteri, da Obi a Bisignani all’imprenditore Gianluca Di Nardo, che mesi fa ha scelto il rito abbreviato come Obi. Ai dipendenti del gruppo petrolifero, all’ex ambasciatore russo Ednan Agaev, a Bisignani e Di Nardo sarebbe stata destinata secondo i pm anche un’altra tranche, circa 215 milioni, sequestrata però nell’estate 2014 dalla magistratura inglese e svizzera.
L’indagine era partita dopo l’acquisizione da parte dei pm delle intercettazioni dell’indagine del 2010 dei colleghi di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio sulla cosiddetta P4, in cui era coinvolto anche Bisignani, che ha patteggiato un anno e 7 mesi. Dalle intercettazioni dell’indagine napoletana era emerso l’intervento di Bisignani sui vertici dell’Eni di allora. Intercettato, parlava al telefono con l’ex numero uno Scaroni e anche con Descalzi.
Il processo inizierà il 5 marzo 2018. Nel frattempo Eni ha diffuso una nota per ribadire la “piena fiducia” del consiglio d’amministrazione dei confronti di Descalzi, la cui carica è stata rinnovata lo scorso marzo dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pm: “Eni esprime piena fiducia nella giustizia – scrive la multinazionale – e nel fatto che il procedimento giudiziario accerterà e confermerà la correttezza e integrità del proprio operato”.

Etruria, Ghizzoni: “La Boschi mi chiese se potevamo valutare un intervento. Poi arrivò il sollecito di Marco Carrai”.

Etruria, Ghizzoni: “La Boschi mi chiese se potevamo valutare un intervento. Poi arrivò il sollecito di Marco Carrai”

L'ex ad di Unicredit conferma quanto rivelato da Ferruccio de Bortoli. E chiama in causa anche l'imprenditore amico di Renzi: "Mi mandò una mail, diceva che gli era stato chiesto di sollecitare una risposta. Pensai chi poteva averglielo chiesto e esclusi che fosse stata la banca. Risposi che avremmo parlato direttamente con l'Etruria. Il 29 gennaio 2015 decidemmo di non investire".


Non solo l’allora ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, che come rivelato nel suo ultimo libro dall’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli effettivamente nel dicembre 2014 gli chiese di valutare l’acquisizione di Banca Etruria. Nella sua attesa audizione davanti alla Commissione bicamerale di inchiesta sulle banche, l’ex numero uno di Unicredit Federico Ghizzoni ha sganciato una bomba su tutto il Giglio magico renziano. Chiamando in causa anche Marco Carrai, sodale di Matteo Renzi, presidente di Aeroporti Firenze e membro del consiglio direttivo della Fondazione Open, che organizza la Leopolda. “Mi mandò una mail per sollecitare una risposta. La mia reazione fu di pensare chi poteva avere chiesto un sollecito da parte del dottor Carrai. Esclusi che fosse stata la banca. Risposi che il nostro canale di comunicazione sarebbe stato direttamente con l’Etruria, avremmo risposto a loro una volta finita la valutazione”.
I primi contatti con il tramite di Mediobanca – Il “primo contatto” che Unicredit ebbe con Banca Etruria, ha rivelato Ghizzoni, “fu il primo settembre 2014. Marina Natale, allora responsabile fusioni e acquisizioni (m&a) della banca, fu contattata da Mediobanca che agiva come advisor per l’Etruria alla ricerca di investitori. Fummo contattati con una lettera e ci fu chiesto se eravamo interessati a esaminare il dossier per un eventuale ingresso nel capitale. Rispondemmo immediatamente che non c’era interesse da parte nostra”. Poi il 6 e 7 settembre 2014, nel corso del Forum Ambrosetti di Cernobbio, “incrociai la ministra Boschi ma non ci fu nessun tipo di contatto con lei”. Il primo incontro tra Ghizzoni e l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Gentiloni, fu l’11 settembre a Palazzo Chigi, presente il capo delle relazioni istituzionali di Unicredit: “Fu un incontro di natura istituzionale, si parlò delle politiche del governo Renzi e molto in generale delle banche, ma non su specifiche banche, in questo incontro non ci fu nessun riferimento a Banca Etruria”.
A fine ottobre 2014 fu direttamente l’Etruria a chiedere un incontro con Ghizzoni, “menzionando alla mia segretaria che ne erano al corrente organi istituzionali. Personalmente pensai alla vigilanza, a Banca d’Italia”. Intanto il 5 novembre Roberto Nicastro, allora direttore generale, “mi disse che era stato contattato dal presidente Rosi per sondare l’interesse di Unicredit”. Il 4 novembre, alla festa per i 15 anni di Unicredit, la Boschi aveva chiesto all’ad se potevano sentirsi nelle successive settimane, prima di fine anno.
In seguito il 3 dicembre 2014, ci fu il primo incontro tra Ghizzoni, il suo assistente, Rosi e l’allora advisor della banca Paolo Gualtieri (poi commissario dell’Etruria). “Mi fu illustrata la situazione, mi dissero che doveva trovare un investitore in tempi rapidi in quanto c’era il rischio di commissariamento. Mi furono illustrati l’avvio della trasformazione in spa e l’idea di separare bad bank e good bank, oltre al’ipotesi di ridurre di 400 persone la forza lavoro e di tagliare le filiali. mi si chiese se c’era interesse di intervenire nel capitale. Risposi che la vedevo molto complicata per i tempi stretti e perché stavamo tutti aspettando la definizione dei nuovi capital ratio da parte della Bce e la risposta era attesa per gennaio e prima di quella data era difficile avviare operazioni che richiedevano assorbimento di capitale”. In ogni caso l’istituto di Piazza Gae Aulenti riconsiderò il dossier visto che la situazione era cambiata rispetto a settembre: la palla fu passata alle strutture tecniche per le loro analisi. “A quanto mi disse Gualtieri prima di venire da Unicredit c’erano stati contatti a quanto so, anche se non ho assoluta certezza, con il mondo delle popolari. Perché Unicredit e non Intesa? Perché Intesa aveva già una posizione forte in Toscana e quindi era più semplice chiederlo a Unicredit, per un discorso di complementarietà territoriale”.
L’incontro con la Boschi: “Mi chiese se era pensabile un’acquisizione” – Il 12 dicembre, mentre i suoi uffici stavano dunque già esaminando l’operazione, Ghizzoni ebbe con la ministra “un incontro fissato dalle segreterie”, sempre a Palazzo Chigi, a tu per tu. “Affrontammo il tema specifico delle banche in crisi. La ministra Boschi mi manifestò la sua preoccupazione non tanto per le banche in crisi del suo territorio, Mps ed Etruria, quanto che cosa questo avrebbe comportato in termini negativi come impatto su famiglie e piccole imprese in termini di erogazione del credito. La ministra mi chiese se era pensabile per Unicredit valutare l’acquisizione o un intervento sulla popolare dell’Etruria, sulla base di questa preoccupazione. Dissi che non ero in grado di dare nessuna risposta e che Unicredit avrebbe deciso solo nel suo interesse. Un ceo di una banca come Unicredit deve mettere in chiaro che è la banca che prende la decisione e questo messaggio fu assolutamente condiviso dal ministro Boschi”.
La ministra “fu cordialenon avvertii pressioni da parte del ministro, ci lasciammo con l’accordo che l’ultima parola spettava a Unicredit che avrebbe deciso solo nel suo interesse. Da allora non ci sono stati ulteriori contatti”. Una “pressione“, ha poi chiarito Ghizzoni rispondendo a una domanda dei commissari, “sarebbe stata se mi avesse detto di acquisire la banca, invece lei mi chiese se era pensabile. Anche dal punto di vista semantico fa la differenza. Sentire pressioni è anche soggettivo. Io dissi che non potevo dare una risposta subito, avrei incaricato i miei. Quindi la richiesta non ha leso la nostra capacità di decidere in maniera indipendente“. Quanto al fatto che Pier Luigi Boschi fosse vicepresidente della banca, “sapevo ovviamente della parentela di Boschi con il padre ma per me non era una cosa rilevante, magari lo era per il ministro ma per me no”.


di Manolo Lanaro
La mail dell’amico di Renzi: “Mi è stato chiesto di sollecitarti” – In ogni caso secondo Ghizzoni gli uffici di piazza Gae Aulenti continuarono a valutare il dossier come se nulla fosse accaduto. “Non c’era nulla da nascondere: incontrando un paio di colleghi, tra cui anche il capo del settore fusioni e acquisizioni, dissi del colloquio in cui c’era stata la richiesta e dissi ‘voi continuate a lavorare in totale indipendenza senza interferenza da parte di nessuno’. L’analisi fu fatta da tecnici in assoluto rispetto e l’analisi si fece in totale indipendenza”. Mentre la due diligence era ancora in corso, il 13 gennaio, “mi arrivò una mail da Marco Carrai: “Solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti per una risposta nel rispetto dei ruoli”. La mia reazione fu di pensare chi poteva avere chiesto un sollecito da parte del dottor Carrai. Esclusi che fosse stata la banca. Decisi però di non chiedere nessun chiarimento. Il nostro canale di comunicazione era solo la banca, quindi risposi che stavamo lavorando e alla fine avremmo contattato i vertici di Etruria e comunicato loro le conclusioni”. Ghizzoni ha poi precisato che aveva conosciuto in precedenza Carrai nella veste di presidente di Aeroporti di Firenze e consulente nel settore della sicurezza informatica. “Non l’ho mai considerato come interlocutore politico”, perciò “l’ho considerato come un privato che si interessava di una questione che non gli competeva”.

Conclusioni che furono negative: “La risposta alla banca l’abbiamo data il 29 gennaio 2015. Abbiamo deciso di non investire per più di una ragione. Nel frattempo era arrivata una comunicazione Bce, i ratio patrimoniali erano stati alzati e quell’investimento richiedeva un assorbimento di capitale di 27 basis point (25 erano un miliardo). Quindi non c’era la possibilità di investire questo capitale senza avere ritorni certi. E il portafoglio, anche della good bank, sembrava non di buona qualità. Poi c’era i tema di avere l’ok della Bce”.


Dopo il commissariamento di Etruria nel febbraio 2015 Banca d’Italia, che “era informata” delle trattative sull’Etruria, si rifece viva “e tenni con il capo della vigilanza Carmelo Barbagallo una conference call il 24 febbraio 2015. Mi disse che lo scenario era cambiato e mi chiedeva se rimanevamo sulle nostre posizioni”. Ghizzoni confermò il no della banca a un’operazione.

L’attivismo di Carrai sulle banche – L’interesse particolare di Marco Carrai per il mondo bancario non è senza precedenti. Molti ricorderanno l’editoriale di Ferruccio de Bortoli uscito sul Corriere della Sera il 3 ottobre del 2016 in cui l’ex direttore del quotidiano di via Solferino criticava duramente la gestione governativa dell’ennesima crisi del Monte dei Paschi di Siena. Secondo de Bortoli, tra il resto, era stato il manager fiorentino vicino al premier ad annunciare all’ad del Monte Fabrizio Viola la sua sostituzione con Marco Morelli. “La notizia è totalmente falsa“, aveva fatto sapere Carrai. Promettendo però che avrebbe provveduto a “ritirare immediatamente la querela non appena il dottor de Bortoli riterrà di riconoscere il suo errore“. Cosa effettivamente successa nel giro di poche ore, quando de Bortoli ha diffuso via Facebook una nota in cui si legge: “L’errore è mio. Da una verifica con il destinatario, l’sms di Carrai risulta inviato dopo la telefonata di Padoan”. Tuttavia, prosegue, “la domanda che formulavo nel mio articolo resta legittima e colgo l’occasione per rivolgerla al dottor Carrai. Mi aspetto una risposta ugualmente sincera. Qual è il suo ruolo nella vicenda Monte Paschi e, in particolare, nella sostituzione di Viola con Morelli?”. Non sono ancora pervenute risposte.

Università, il governo scrive male il bando: saltano 6mila finanziamenti per associati e ricercatori. - Lorenzo Vendemiale


Università, il governo scrive male il bando: saltano 6mila finanziamenti per associati e ricercatori

Gli esecutivi Renzi e Gentiloni avevano stanziato 45 milioni di euro per 15mila contributi, ma i criteri di accesso ai fondi erano troppo (e inutilmente) stretti. Risultato: le borse di studio sono diventate 9mila, oltre il 35% si è perso per strada, nonostante ci fossero altri 5mila posti da assegnare e oltre 17mila domande arrivate.

Doveva essere una delle grandi novità per rilanciare la ricerca di base: 45 milioni di euro per 15mila finanziamenti a ricercatori e professori associati dell’università italiana. Un anno dopo, le borse di studio sono diventate appena 9mila: oltre il 35% si è perso per strada, per colpa di un bando scritto male che prevedeva un tetto massimo di assegnatari, a prescindere dal numero effettivo dei partecipanti. Così circa 6mila domande sono state bocciate, nonostante in teoria ci fossero altri 5mila posti da assegnare.
IL FFABR NELL’ULTIMA MANOVRA – A fine 2016 il governo Renzi-Gentiloni (il provvedimento fu pensato dal primo, ma approvato in via definitiva dal secondo) istituì nella Legge di Bilancio il nuovo Fondo per il finanziamento delle attività base di ricerca (anche noto con l’impronunciabile acronimo Ffabr): 45 milioni in più da spendere su progetti di vario ambito, una misura che avrebbe dovuto aiutare gli atenei del nostro Paese, alle prese con una cronica mancanza di risorse. Non tutti furono proprio entusiasti della notizia: il fondo fu bollato come l’ennesimo “bonus” da parte di Renzi al mondo dell’istruzione, c’è chi (come la Fisv, Federazione Italiana Scienze della Vita) parlò persino di “paghetta per i ricercatori”. Ed in effetti sono solo 250 euro al mese, non proprio una fortuna. Ma si trattava pur sempre di una buona opportunità per incrementare i pochi fondi a disposizione per la ricerca. Il progetto ci ha messo un po’ a carburare, generando notevoli aspettative persino al Ministero, se è vero che a inizio anno la ministra Valeria Fedeli (appena arrivata al posto di Stefania Giannini) lo inseriva all’interno delle linee programmatiche del suo mandato. Dodici mesi dopo, possiamo dire che il Ffabr è stato un fallimento.

MANCANO PIÙ DI 5MILA VINCITORI – L’Anvur, la controversa Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca a cui era stato affidato il compito di selezionare le liste dei meritevoli, negli scorsi giorni ha pubblicato l’esito del suo lavoro. Scorrendo gli elenchi degli assegnatari, però, si fa una amara scoperta: i vincitori non sono 15mila, come ci si aspettava e come prevedeva esplicitamente il bando da 45 milioni di euro, ma molti di meno. Per la precisione, 9.446, di cui 7.124 ricercatori e 2.342 professori associati, le due categorie a cui era rivolto il finanziamento. Viene da pensare, in un primo momento, che gli svogliati accademici italiani non si siano neppure degnati di inviare la propria candidatura alla grande occasione che gli era stata concessa dal governo. Ma non è così: le domande, fa sapere l’Anvur, sono state 17.308, comunque più del numero dei posti messi a disposizione.
I CRITERI VOLUTI DAL GOVERNO – Cosa è andato storto, allora? Molto semplice: il bando. I paletti fissati dall’esecutivo, di fatto, rendevano praticamente impossibile l’assegnazione di tutte le borse. Il governo ha voluto che ci fossero dei criteri di selezione, in nome probabilmente dell’ideologia meritocratica che tanto stava a cuore a Renzi. Però invece di prevedere delle semplici graduatorie, con la vittoria di tutti quelli in posizione utile, magari persino con un punteggio minimo da superare come qualsiasi concorso che si rispetti, ha voluto introdurre una percentuale massima di assegnatari: poteva ricevere il finanziamento soltanto il 75% dei ricercatori e il 25% dei professori associati candidati. Un tetto troppo selettivo, specie il secondo, da cui deriva il flop.

Per far sì che ci fossero 15mila vincitori con questi criteri, avrebbero dovuto presentarsi praticamente tutti i ricercatori e professori associati d’Italia. Cosa che ovviamente non è avvenuta, com’era logico che fosse. Un po’ perché il bando prevedeva anche delle cause di esclusione: aver ricevuto altri finanziamenti, essere a tempo determinato o in aspettativa. Un po’ perché poi il Ffabr non era certo la svolta della vita, con i suoi miseri 3mila euro a testa. Togliamo i ricercatori precari (ce ne sono circa 4.500 in Italia), gli accademici già impegnati su altri fronti, o magari semplicemente non interessati, ed ecco che la platea dei partecipanti si riduce fisiologicamente. Alla fine hanno partecipato in 17mila, il 48% dei ricercatori, il 45% degli associati: praticamente uno su due degli accademici italiani, una risposta anche positiva per la prima edizione del bando. Ma insufficiente ad assegnare tutte le borse, visti gli assurdi paletti voluti dal governo: mancano all’appello 5.554 finanziamenti. Ed è andata pure bene che l’alto numero di parimerito in graduatoria abbia fatto sforare leggermente le soglie del 75% e del 25% (sono state esattamente del 77,8% e del 28,7%), altrimenti sarebbero stati pure di più.
LA RICERCA PERDE 16 MILIONI – Il risultato è che dei 45 milioni di euro già stanziati, soltanto 28,4 verranno utilizzati per la ricerca nei prossimi mesi. L’unica consolazione è che gli altri 16,6 almeno non verranno persi del tutto: come previsto da un successivo decreto ministeriale emanato ad agosto dal Miur (che forse aveva subodorato il rischio fallimento), finiranno nel Fondo di finanziamento ordinario delle università italiane (il famoso Ffo), ripartiti tra i vari atenei in base alla loro quota di spettanza. Una redistribuzione a pioggia, insomma, all’interno di un grande calderone che per altro non finanzia solo i progetti di ricerca ma anche tutte le altre varie spese (costi di funzionamento e del personale compresi) delle nostre facoltà. Quanto alla ricerca, pazienza: sarà per il prossimo bonus.