giovedì 24 agosto 2017

"Dopo 16 anni di errori, dall'Afghanistan dobbiamo solo andare via". Intervista al generale Franco Angioni. - Umberto De Giovannangeli



"Non dobbiamo uscire dall'Afghanistan per paura, ma per mettere a frutto le esperienze, anche negative, di questi sedici anni di errori". A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa all'HuffPost, è il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri. "L'Afghanistan così come l'Iraq c'insegnano – sottolinea Angioni – che lo strumento militare, anche quando si rivela necessario, non deve mai sostituire una strategia politica o surrogarla, perché quando è così, si producono solo disastri".
Generale Angioni, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di rilanciare la presenza militare degli Usa in Afghanistan e si accinge a chiedere anche agli alleati di seguirlo su questa strada. Dobbiamo farlo anche noi?
"Direi proprio di no. E non per viltà ma per lungimiranza. Vede, il fatto è che quando si commette un grave errore, gli errori successivi sono come le onde sussultorie di un terremoto seguito all'onda principale. Il problema dell'Afghanistan nasce nell'ottobre del 2001 e si chiama George Bush. Dopo lo choc dell'11 Settembre, la turbativa mondiale, e non solo americana, è stata grande. Ma l'errore maggiore è conseguente all'attacco alle Torri Gemelle, quando Bush, avendo individuato le cause e i colpevoli di quell'attacco, non aveva alcuna necessità di reagire in maniera massiccia, bombardando a tappeto quattro città dell'Afghanistan e uccidendo molti afghani, inconsapevoli del perché di tale tragedia. L'obiettivo dichiarato dalla Casa Bianca e dal Pentagono di quell'azione militare era di catturare due personaggi: Osama Bin Laden e il Mullah Omar. Ma per raggiungere un tale risultato non era necessario intervenire in maniera così massiccia e devastante su una popolazione inconsapevole dei motivi, quando invece sarebbe stato più opportuno e produttivo lavorare con l'intelligence al fine di punire giustamente i veri colpevoli. Cosa che è stata fatta successivamente e non attraverso operazioni massicce, invasive. Bin Laden è stato "punito" non con i bombardamenti a tappeto, ma attraverso un sistematico lavoro d'intelligence che, al momento opportuno, ha consegnato il capo di al-Qaeda nelle mani delle forze scelte statunitensi. Ma non basta. Dopo nemmeno tre anni dall'inizio dell'avventura afghana, lo stesso George Bush, decide di invadere l'Iraq. Giustizia il dittatore iracheno, Saddam Hussein, e senza una strategia politica affida il governo di questo Paese a una moltitudine di dirigenti impreparati e disonesti. Il risultato è che i seguaci di Saddam, soprattutto gli ufficiali del disciolto esercito iracheno, si riuniscono e danno spessore militare allo Stato islamico. Molto si parla e si favoleggia su Abu Bakr al-Baghadi, ingigantendone le capacità operative, invero alquanto mediocri, tralasciando il fatto che nella catena di comando militare dell'Isis il ruolo chiave l'hanno giocato gli ex ufficiali di Saddam. A questo punto una domanda sorge naturale...".
Qual è questa domanda, generale?
"Dopo 16 anni non pensiamo che sia finalmente giunto il tempo di porre fine a questa successione ininterrotta di errori politici?
La risposta, sia pure indiretta, offerta da Donald Trump non induce all'ottimismo. Qual è in merito, e sulla base della sua lunga e impegnativa carriera di comando militare, la sua opinione?
"Occorre finalmente adottare una linea politica di prospettiva e non di inutile vendetta. Nessuno mette in discussione la necessità di contrastare lo Stato islamico e quanto di esso rimane, sia in Iraq e Siria che, soprattutto, in Afghanistan, dove i talebani hanno ricevuto una potente cura ricostituente dalla dabbenaggine politica internazionale e dal sostegno di Paesi arabi e musulmani che venivano considerati alleati. L'attuale presidente degli Stati Uniti nella sua campagna elettorale tumultuosa aveva promesso di mettere la parola fine all'avventura afghana. L'opinione pubblica americana era preoccupata non tanto dal fine ma dal "come". Invece, delusione cocente, siamo costretti a constatare che queste promesse elettorali sono state tradite. Trump anche in questo è deludente. La decisione annunciata finirà per fornire benzina a un incendio che invece stava estinguendosi. E' tempo di dire basta. Il problema afghano-iracheno va risolto d'intesa con tutti i Paesi interessati e stavolta sotto la guida delle Nazioni Unite, e alla luce di una strategia di lungo termine che deve necessariamente dimostrarsi attenta ed efficace sul piano dei diritti umanitari, rinunciando a percorrere itinerari nati sull'errore politico e che nel corso di questi sedici anni hanno aggiunto errori ad errori. In Afghanistan, è bene ricordarlo, l'Italia ha pagato un alto tributo di vite umane garantendo un impegno sul campo, e questi nostri ragazzi in divisa vanno ricordati con onore e affetto. Essere alleati, sinceri e impegnati, non significa essere vassalli. A volte, dire dei "no" è prova di forza politica e non di debolezza o codardia. L'Afghanistan può essere il banco di prova"

Così cambierà l’Euribor, il tasso-guida dei mutui. - Maximilian Cellino e Marco Ferrando

Guido Ravoet (Imagoeconomica)
Guido Ravoet (Imagoeconomica)

Affidabile, più volatile ma non troppo, agganciato il più possibile alla realtà e non alle supposizioni di un manipolo di banchieri. Non è facile trovare un indice che soddisfi i tre requisiti, ma all’European Money Market Institute (Emmi) ce la stanno mettendo tutta per offrire ai mercati entro fine anno un nuovo Euribor: da tempo si ritiene inappropriato un tasso, com’era anche il Libor travolto dagli scandali, frutto di una consultazione quotidiana tra un gruppo ormai ridotto a 20 banche, e non a caso le norme europee sui benchmark prevedono che quello attualmente in uso venga pensionato entro fine 2019.
Ma serviranno almeno un paio d’anni di tempo per modificare migliaia di pagine di contratti e centinaia di algoritmi, dal momento che oggi al tasso nelle sue varie scadenze sono agganciati 180mila miliardi di euro (compresi mille miliardi di mutui): di qui l’accelerata della task force istituita a Bruxelles presso l’Emmi, l’ente che governa le sorti dell’Euribor dagli albori, dove il segretario generale, Guido Ravoet conferma che «l’obiettivo che ci siamo dati è quello di avere una versione definitiva del nuovo schema entro la fine del 2017».
Dopo aver sancito tre mesi fa (si veda Il Sole 24 Ore del 10 maggio scorso) il fallimento della sperimentazione di un possibile nuovo indice basato sulle sole transazioni di mercato, troppo sottili per arginarne la volatilità, il gruppo di lavoro si è messo all’opera pancia a terra per studiare una nuova soluzione ibrida, che consenta di «basarsi sulle transazioni quando appropriate e disponibili, e nel caso in cui non lo siano consenta di usare altri dati», dice ancora Ravoet. Da giugno, secondo quanto risulta, il gruppo di lavoro si è riunito una volta ogni due settimane, con due incontri a Bruxelles, uno a Parigi, un altro a Londra e un altro ancora a Milano, più una serie di conference call: la settimana prossima riprenderanno i lavori e per i più ottimisti già alla fine di settembre o al massimo all’inizio di ottobre si potrebbe materializzare qualche passo in avanti.
«Puntiamo ad avere la nuova metodologia pienamente in vigore entro la fine del 2019», aggiunge il segretario generale dell’Emmi. Ma il 2020 è dietro la porta, e la strada ancora lunga: fissato il nuovo indice ci sarà da sperimentarlo, poi da avviare una consultazione, ottenere il via libera dalle varie authority competenti e quindi dare il tempo alle banche di prepararsi a una rivoluzione dal punto di vista formale, ma anche sostanziale.
La riforma dell’Euribor «è una specie di ordigno», dice un banchiere interpellato da Il Sole. Una bomba che non è detto faccia danni (l’auspicio è proprio questo), ma che in ogni caso è destinata a rivoluzionare il mercato dei mutui retail e corporate, quello dei derivati nonché le norme di funzionamento delle tesorerie delle banche, che viaggiano a ruota. Il tema, in pratica, è delicatissimo e qui si fonda la necessità di uscire dalla logica per certi aspetti autoreferenziale delle “telefonate” (cioè le rilevazioni mattutine sui tassi applicati dalle singole banche), per affidarsi ai prezzi reali, cioè alle transazioni, soldi prestati o impiegati, effettivamente condotte sul mercato. «Il problema è che con l’inondazione di liquidità proveniente dalla Bce in questo momento il mercato è diventato molto sottile», spiega un funzionario di tesoreria di una media banca italiana: pochi scambi, molta volatilità. E in più un panel ormai ristretto a 20 sole banche (nel 2012 erano 44) non aiuta: anche perché 9 di esse sono europeriferiche e i tassi applicati - e segnalati ogni mattina alle 11 - inevitabilmente risentono di chi presta a chi.
Così, se una maggior volatilità rispetto a oggi sembra inevitabile, altre questioni restano aperte. «Un panel allargato sarebbe senz’altro un segnale del commitment dell’intera comunità bancaria nel processo di riforma, dal momento che ogni istituto ne fa uso», si fa notare dall’Emmi. Ma, come già accaduto in passato a più riprese, c’è chi non disdegnerebbe l’intervento diretto della Bce, se non altro vista la mole di dati quotidianamente raccolta a Francoforte. Sul punto Ravoet non si esprime puntualmente, ma ci va vicino: «Emmi giudica positivamente qualunque iniziativa da parte delle istituzioni che possa aiutare il processo di riforma», dichiara a Il Sole. Certo è che l’Emmi governa anche l’Eonia, l’indice calcolato sulle operazioni overnight (a brevissima scadenza), per il quale Bce secondo diversi osservatori potrebbe avere una qualche forma di preferenza vista - appunto - la base transazionale.
Dunque per l’Euribor, con la valanga di attivi collegati, siamo all’ultima chiamata. Se seguirà le sorti del Libor una riforma potrebbe non essere garanzia di sopravvivenza: giusto a fine luglio, il responsabile della britannica Fca, la Financial conduct authority, Andrew Bailey, ha dichiarato che la revisione non è stata soddisfacente, dunque il parametro dovrà essere pensionato entro il 2021. Con buona pace dei 350 trilioni di prodotti finanziari che si porta dietro.