lunedì 31 maggio 2010

Fini e i “suoi” si giocano il futuro in sette giorni - Paolo Flores d'Arcais


il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2010


Cosa faranno i “finiani” da grandi, cioè nei prossimi giorni, quando si tratterà di approvare o bocciare la legge-golpe contro le libertà e la sicurezza degli italiani? L’onorevole Italo Bocchino, il ventriloquo più accreditato del presidente della Camera, e l’onorevole Augello, in odore di “più malleabile”, hanno manifestato soddisfazione dopo l’incontro con i pasdaran del Caimano, Alfano e Ghedini.

L’accordo infatti sarebbe stato raggiunto (nel mondo di Arcore il condizionale è obbligatorio) sulle seguenti modifiche: per i giornalisti che pubblicano intercettazioni (legali) solo (sic!) un mese di carcere, e anzi il diritto a pubblicarne riassunti (“quanto è buono Lei…”), e per gli editori ridotta la multa minima da 64 mi-la euro a 25 mila e quella massima da 465 mila a 300 mila.

Nulla di nuovo per i magistrati, invece, che alle intercettazioni efficaci per le indagini in sostanza dovranno rinunciare, come dichiara perfino un magistrato misuratissimo quale il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini. Con l’aggravante, anzi, dell’efficacia retroattiva, attraverso l’azzeccagarbuglio di una norma transitoria che secondo un altro magistrato misuratissimo, il presidente dell’Anm Luca Palamara, provocherà “un vero sterminio tra le inchieste in corso”.

La tattica di Berlusconi è fin troppo smaccata: dividere i giornalisti dai magistrati, qualche contentino ai primi e giro di vite senza pietà sui secondi. Come se la posta in gioco fossero i diritti (per B. disgustosi privilegi) di magistrati e giornalisti, anziché le libertà e la sicurezza dei cittadini. Libertà di essere informati, di non essere ridotti al black out sistematico sui fatti, come i sudditi del fascio o della nomenklatura brezneviana, e sicurezza che crollerebbe, con criminali di ogni risma cui la libertà dalle intercettazioni sarebbe vera manna di impunità e incentivo al delitto.

Per l’accoppiata Bocchino-Augello questo secondo aspetto della legge-golpe non sembra un problema, la parte su intercettazioni e magistrati va bene così. Ma così, cricche e stupratori, mafiosi e grassatori, sorridono e ringraziano. E infatti l’onorevole Granata, diversamente finiano, promette un altolà, magari alla Camera, proprio su questa seconda parte, sul “tana libera tutti” che suonerebbe per i delinquenti l’invereconda quantità di lacci e lacciuoli posti alla possibilità di efficaci “pedinamenti ” tecnologicamente aggiornati.

Qui non si tratta ovviamente di dedicarsi a ridicole sottigliezze politologiche sulle diverse “anime” della già troppo circoscritta “fronda” finiana. Ma chiunque capisce che la questione è di fondo: se davvero la scelta di Fini è ben rappresentata dalla soddisfazione querula e insopportabilmente pimpante con cui l’onorevole Bocchino ha difeso ad “Annozero” tutte le nefandezze ammazza-indagini della legge-golpe (neanche Ghedini avrebbe saputo fare di meglio – cioè di peggio, s’intende), anziché dalle perplessità e conseguenti altolà (sperando che non arrivino precisazioni a “passo del gambero”) dell’onorevole Granata, non si tratterà di una qualsiasi contingente preferenza del presidente della Camera per uno o l’altro dei suoi “bracci destri”.

Si tratterà di un’ipoteca sulla scelta esistenziale ed etica, e dunque più che mai politica, che su questi temi l’onorevole Fini alla fine dovrà fare, come tutti gli italiani del resto, tra due modelli nei rapporti tra eroismo e mafia: quello di Paolo Borsellino e quello di Vittorio Mangano. Su questi temi, infatti, “tertium non datur”, perché la zona grigia di una mancata scelta radicale, quali che siano gli argomenti addotti e la buonafede di chi li enuncia, ha sempre fatto comodo a mafie sempre meno solo kalasnikov e sempre più sofisticatamente intrecciate con attività finanziarie, cricche di appalti e ponziopilatismi della politica.

Sappiamo quale sia stata la scelta di Berlusconi. Coerente in ogni sua manifestazione, sia verbale che fattuale. Di Fini conosciamo quelle verbali, anche reiterate, che in politica però – se politica seria – contano zero. A partire da lunedì, quando la legge-golpe pro-crimine e contro le indagini sarà discussa e votata in aula al Senato, sapremo anche la sua scelta fattuale, che darà l’imprinting morale e il marchio politico al suo futuro e alla sua credibilità.


Scusate il ritardo - Marco Travaglio



30 maggio 2010
Con la dovuta calma, una decina d’anni di ritardo non di più, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e l’on. Walter Veltroni, membro dell’Antimafia, scoprono che le stragi del 1992-’93 furono “subappaltate a Cosa Nostra” per spianare la strada a “una nuova forza politica” (Grasso), a una “entità esterna” (Uòlter): una roba talmente misteriosa che l’ha intuita persino Cicchitto. E tutti a meravigliarsi, a scandalizzarsi, ad accapigliarsi sulla sconvolgente novità. Chi scrive lo disse in tv a Satyricon nel 2001 e lo scrisse conElio Veltri ne L’odore dei soldi, mentre decine di altri libri, in Italia e all’estero, giungevano alle stesse conclusioni. Per avermi consentito di dirlo, da 9 anniDaniele Luttazzi non può più lavorare in tv, né sotto la destra né sotto la sinistra. Intanto Grasso, da procuratore di Palermo, assieme al Csm estrometteva dal pool antimafia tutti i pm che indagavano su quella pista. E Veltroni, segretario Pd nel 2007-2009, elogiava Berlusconi “interlocutore indispensabile sulle riforme”, rivendicava il dovere di “non attaccarlo più” e poneva fine all’“éra dell’antiberlusconismo” (peraltro mai iniziata).

Si dirà: oggi ci sono novità, parlano
Ciancimino jr e Spatuzza. Nulla, però, al confronto delle sentenze che da anni immortalano i moventi delle stragi e della nascita di Forza Italia. Nel 1998, archiviando B. e Dell’Utri indagati a Firenze per concorso nelle stragi del 1993, il gip Soresina scrive che i due hanno “intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista”; esiste “un’obiettiva convergenza degli interessi politici di Cosa Nostra rispetto ad alcune qualificate linee programmatiche della nuova formazione (Forza Italia, ndr): 41 bis, legislazione sui collaboratori di giustizia, recupero del garantismo processuale asseritamente trascurato dalla legislazione dei primi anni ‘90”. Al punto che “l’ipotesi iniziale (il coinvolgimento di B. e Dell’Utri nelle stragi, ndr) ha mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità”. Nel 2001 la Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta condanna 37 boss per la strage di Capaci e, nel capitolo “I contatti tra Riina e gli on. Dell’Utri e Berlusconi”, scrive che nel 1992 “il progetto politico di Cosa Nostra mirava a realizzare nuovi equilibri e nuove alleanze con nuovi referenti della politica e dell’economia”. Cioè a “indurre alla trattativa lo Stato ovvero a consentire un ricambio politico che, attraverso nuovi rapporti, assicurasse come nel passato le complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato”.

Nel 2004 il Tribunale di Palermo condanna Marcello Dell’Utri a 9 anni per concorso esterno in mafia e scrive che nel ‘93 Provenzano “ottenne garanzie” che l’indussero a “votare e far votare per Forza Italia”, con cui aveva “agganci” pure il boss stragista
Bagarella. Garanzie fornite da Dell’Utri, che ha avuto “per un trentennio contatti diretti e personali” con Cosa Nostra svolgendo una “attività di costante mediazione tra il sodalizio criminoso piú pericoloso e sanguinario del mondo e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi, in particolare la Fininvest”, nonché una “funzione di ‘garanzia’ nei confronti di Berlusconi”. Nei “momenti di crisi tra Cosa Nostra e la Fininvest”, Dell’Utri media “ottenendo favori” dalla mafia e “promettendo appoggio politico e giudiziario”. Rapporti che “sopravvivono alle stragi del 1992-93, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla ‘vendetta’ di Cosa Nostra”. Forza Italia nasce nel ’93 da un’idea di Dell’Utri, il quale “non ha potuto negare” che ancora nel novembre ’93 incontrava Mangano a Milano, come risulta dalle sue agende, mentre era “in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica”. Infatti Dell’Utri prometteva “alla mafia precisi vantaggi politici e la mafia si era vieppiù orientata a votare Forza Italia”. Ora lo scoprono pure Grasso e Uòlter. Non è mai troppo tardi. Ma che riflessi, ragazzi.

da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010

Peter Gomez sulle intercettazioni dà una lezione a marco taradash - omnibus 24 maggio 2010



30 maggio 2010
Gli emendamenti al ddl Alfano annunciati venerdì dal Pdl, in vista del dibattito che si aprirà domani pomeriggio nell'aula del Senato, non cambiano la sostanza del rischio-bavaglio.

di
Roberto Natale

I ripensamenti sono sempre bene accetti, ma stavolta è impossibile considerarli vere aperture. Gli emendamenti al ddl Alfano annunciati venerdì dal
Pdl, in vista del dibattito che si aprirà domani pomeriggio nell’aula del Senato, non cambiano la sostanza del rischio-bavaglio. Le sanzioni a carico degli editori sono state ridotte di un terzo, ma è difficile esultare: l’importo massimo rimane pur sempre di 310 mila euro, comunque sufficienti per “suggerire” al proprietario del giornale di diffidare pesantemente direttore e redazione dal pubblicare qualsiasi notizia troppo cara. E soprattutto non si può spacciare come grande conquista di libertà il fatto che in materia di cronaca giudiziaria si torni alla formulazione uscita dalla Camera, ripristinando la possibilità di pubblicare “per riassunto” il contenuto degli atti giudiziari prima dell’udienza preliminare e tenendo fermo il divieto totale di pubblicazione delle intercettazioni fino alla conclusione delle indagini preliminari, anche se i testi non sono più coperti dal segreto. È questo il punto decisivo, che continua a motivare la nostra netta contrarietà: ciò che è pubblico perché è stato portato a conoscenza delle parti coinvolte deve anche poter essere pubblicabile; anche per non aprire la strada a un’informazione allusiva o ricattatoria, in cui chi ha letto gli atti può mandare torbidi messaggi a mezzo stampa alle persone coinvolte nelle inchieste.

Se l’esigenza è quella di difendere meglio la privacy, come dicono i sostenitori del provvedimento e come anche noi giornalisti vogliamo, è a portata di mano una soluzione perfettamente compatibile col nostro dovere di cronisti e col diritto dei cittadini di sapere: al momento in cui le carte dell’indagine stanno per diventare pubbliche, il magistrato di una “udienza-filtro”, sentite accusa e difesa, elimina dagli atti le parti (testi delle intercettazioni inclusi) che riguardano terze persone estranee o anche le persone sotto inchiesta, ma per aspetti privati che non hanno nesso con l’indagine. È su questo versante che talvolta l’informazione ha sbagliato, mettendo in pagina anche questioni intime che non erano notizie, ma gli errori possono essere evitati senza impedirci di raccontare i fatti di interesse pubblico. Il ministro Alfanocontinua a ripetere in forma di slogan che “la riforma garantisce la libertà di informazione”, ma evita di spiegare che col suo testo sarebbe rimasto ignoto il caso (la casa) Scajola e che dei trapianti infami della clinica Santa Rita di Milano si sarebbe saputo dopo anni.

Argomenti così forti che quasi tutti i direttori dei giornali italiani si sono trovati uniti nell’annunciare che non verranno comunque meno al dovere di informare, “indipendentemente da multe, arresti e sanzioni”. È la stessa unità che, sul diritto-dovere di cronaca, i giornalisti italiani chiedono alle loro rappresentanze. Perché non sempre è stato così, negli ultimi mesi: dalla grande manifestazione di ottobre in piazza del Popolo, che aveva mostrato la ricchezza dell’alleanza coi cittadini, il segretario dell’Ordine nazionale aveva preso le distanze con una scelta polemica che certo non ha rafforzato la categoria. Come non l’ha rafforzata qualche timidezza di troppo, da parte dell’Ordine, su un tema che invece meritava e merita una vera e propria campagna pubblica. Ora è urgente recuperare un convinto impegno comune: la lunga battaglia contro il ddl Alfano, tra le aule del Parlamento italiano e – se sarà necessario – la Corte europea di Strasburgo, può e deve essere vinta.

*Presidente
Fnsi




Morto l'attore Dennis Hopper - Alessandra Baldini


30 maggio, 15:29


NEW YORK - Giovane ribelle con James Dean, hippie davanti e dietro la macchina da presa nel film simbolo della protesta anni Sessanta Easy Rider: Dennis Hopper, personaggio effervescente, anticonformista e anti-establishment del cinema americano, è morto oggi a Venice in California. Aveva 74 anni. Hopper è morto per complicazioni del cancro alla prostata di cui era da tempo malato. Con lui, ha detto l'amico Alex Hitz, si erano raccolti i suoi cari.

Adesso si ricorda di lui la lunga carriera, oltre 50 anni di cinema a partire da Gioventù Bruciata (1955) e Il Gigante (1956) con il mentore James Dean, ai personaggi folli di Apocalipse Now di Francis Ford Coppola, Velluto Blu di David Lynch e Speed del 1994 di Jan De Bont con Keanu Reeves e Sandra Bullock. Ma la fama di Hopper è intrinsecamente legata alla motocicletta e a Easy Rider, il film con Peter Fonda e l'allora sconosciuto Jack Nicholson, che gli è valso una delle due nomination all'Oscar (con Fonda e Terry Southern per la migliore sceneggiatura, l'altra nomination sarebbe arrivata nel 1986 per il dramma strappacuore Hoosiers). Easy Rider è considerato uno dei più grandi film della storia del cinema americano: i suoi protagonisti in Harley Davidson, gli spacciatori Wyatt (Fonda) e Billy (Hopper), popolarizzarono il mito della vita 'sulla strada', il fumo e l'amore libero nelle comuni. Hopper fece da apripista a una nuova era nel cinema in cui la vecchia guardia di Hollywood fu costretta a cedere il passo a una giovane generazione di cineasti come Coppola e Martin Scorsese.

Girato con un budget da fame, Easy Rider segnò l'esordio di Hopper dietro la macchina da presa: introdusse l'America profonda al mondo degli hippie e all'Età dell'Acquario catturando l'immaginazione di un paese in crisi di identità, travagliato dall'opposizione alla guerra nel Vietnam. Nello stesso anno di Woodstock, Easy Rider divenne uno dei manifesti della controcultura. In seguito, anche a causa di guai personali, Dennis Hopper si era ammorbidito pur restando sempre un personaggio fuori dall'establishment. A marzo gli era stata conferita una stella nella celebre Walk of Fame di Hollywood: l'attore e regista si era presentato all'appuntamento con l'amico di sempre Jack Nicholson pur essendo magrissimo e ormai devastato dalla malattia.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/spettacolo/2010/05/29/visualizza_new.html_1817096559.html


I Servizi alla mafia - Nando Dalla Chiesa


Come spesso accade in questo paese, la verità appare improvvisamente afferrabile quindici, vent’anni dopo. Squarci, lampi di verità. E la speranza di farcela, che stavolta non sia “come le altre”. C’è da giurarci, però, che anche stavolta faranno di tutto perché quei lampi restino tali. I timori di nuovi scoppi criminali volti a intimidire o ricattare o inquinare, sono per questo tutt’altro che campati per aria.
Ma non c’è da affettare alcuno stupore o alcuna offesa incredulità davanti agli scenari che si profilano.
La presenza dei servizi segreti e delle zone d’ombra del potere nelle vicende di mafia è un fatto storico acclarato. E da anni chi non è né vuole essere cieco è costretto a confrontarsi con scampoli inquietanti di verità. Nelle quali l’odore dei Servizi, ma non solo il loro, si riconosce da lontano. La cassaforte svuotata, la notte del delitto, nella casa del prefetto Dalla Chiesa, chiusa anche ai parenti. Il tritolo dell’Addaura e quel rinvio di Falcone alle “menti raffinatissime”, come a indicare una regia esterna a Cosa Nostra. L’assassinio dell’agente Agostino e i suoi misteri. La vicenda di via D’Amelio e il terribile groviglio di piste e di interessi che le è lievitato intorno con gli anni. Le inchieste di Caltanissetta e di Firenze che lambiscono poteri economici di primissimo livello, da Gardini a Berlusconi. Il celebre “papello” di Riina e l’altrettanto celebre trattativa, condotta mentre frana la prima Repubblica. La mediazione di Vito Ciancimino con le testimonianze del figlio Massimo, che scoperchiano le relazioni tra suo padre (agli arresti domiciliari) e Bernardo Provenzano o quel “signor Franco”, uomo delle istituzioni, finalmente individuato in foto accanto a personaggi di governo.
Tutto questo abbiamo davanti, e questa matassa dobbiamo sbrogliare con precisione e senza pregiudizi, perché questa è materia sulla quale non si può sbagliare, né per eccesso né per difetto.
Ma, appunto, bisogna dotarsi di una bussola capace di offrire punti di riferimento certi. Il primo è che la mafia è, in Italia, parte costitutiva del sistema di potere.
Sgradevole all’olfatto, da non portare ai matrimoni (anche se qualcuno ce la porta), ma sempre presente. Il secondo è che la mafia non prende ordini da nessuno.
La mafia fa e chiede favori. Agisce cioè da interlocutore dei differenti soggetti, illegali e legali, che compongono il circuito del potere. Sta in una zona di libero scambio che il nostro ordinamento non dovrebbe tollerare ma tollera. Perché, e questo è il terzo punto fermo, il sistema istituzionale e politico italiano prevede organicamente al proprio interno un alto tasso di illegalità, assolutamente anomalo nel contesto occidentale.
Se questi tre punti fermi sono veri, allora non c’è da rincorrere un’“entità”, un soggetto unico, magari una cupola strutturata, per capire che cosa è accaduto. Bisogna pazientemente e intelligentemente comporre gli scambi possibili e il gioco degli interlocutori possibili. Vagliare chi e perché avrebbe potuto desiderare o decidere una cosa; chi e perché avrebbe potuto avvantaggiarsi – e fino a che punto –, almeno nelle intenzioni, di una particolare scelta criminale. Senza farsi prendere dalla fantascienza ma sapendo che a volte la mafia, e il rapporto mafia-stato, è fantascienza.
E sapendo che lo scambio col diavolo è nella nostra democrazia un metodo.
Non monopolio di questo o quell’altro politico, ma una costante che si trasmette nelle generazioni.
Una cosa abbiamo dunque il dovere di fare. Di aspettare gli esiti del lavoro della magistratura, certo. Ma di non aspettare la conclusione dei processi di terzo grado, se verranno, per sforzarci di dare agli italiani la ricostruzione più attendibile (non “più gradevole”) di quanto è accaduto. Le stragi le ha fatte la mafia. Ma le hanno volute e coperte anche altri: interlocutori stretti, protagonisti della zona di libero scambio. A quei nomi stiamo arrivando.
Quei nomi cercheranno di salvarsi, in tutti i modi.


Andavo alle elementari e non ho mai manifestato per Saccucci - Marco Travaglio



29 maggio 2010
Marco Travaglio replica alle accuse di Graziano Milia,dopo l'articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano mercoledì 26 maggio.

L’altro giorno, sulla prima pagina del
Fatto, mi sono occupato del presidente Pd della Provincia di Cagliari, Graziano Milia, ricandidato a quella carica da tutto il centrosinistra nonostante la recente condanna in appello a 1 anno e 4 mesi per abuso d’ufficio nell’ambito di un mega-scandalo di licenze edilizie facili, sanatorie indebite e autorizzazioni paesaggistiche fuorilegge perpetrate tra il 1999 e il 2003. Il signor Milia mi ha così graziosamente replicato sulla sua pagina Facebook e la sua replica è stata ripresa da un giornale vicino al Pde da vari siti internet e organi di stampa locale: “Non accetto critiche da un ex militante dell' Msi. Il valore dell'antifascismo per me è discriminante. Travaglio faceva parte della falange pura e dura (come oggi) contro gli Ebrei... Se ha cambiato idea mi fa piacere... anche se non dimentico quando manifestò contro l'arresto diSaccucci, deputato dell' Msi accusato di aver ucciso un giovane comunista a Sezze Romano… Io non me ne strafotto se uno difendeva Saccucci, ex parlamentare Msi che uccise un mio compagno di partito… Dice bugie? Sì! L’unica motivazione che oggi si conosce sulla mia vicenda mi assolve, aspettiamo le motivazioni della seconda. Ergo il fascista Travaglio parla senza cognizione di causa. Possiamo chiamarlo a confrontarsi con me, ma chi paga il cachet delle sue esibizioni? Poi non vorrei che facesse come Grillo che firmò una petizione a favore dello scempio dell’Anfiteatro romano di Cagliari”.

Andiamo con ordine.

1) Se anche fosse vero che sono un fascista, missino, falangista e tutto il resto, o un “ex” di tutte queste robacce, il signor (si fa per dire) Milia rimarrebbe un condannato in appello per abuso d’ufficio a 1 anno e 4 mesi e, siccome si ricandida alla presidenza della Provincia di Cagliari, l’argomento del contendere non è il mio presunto passato, ma la sua condanna in appello.
2) Non ho mai militato nell’Msi, né l’ho mai votato, anzi l’ho sempre aborrito, essendo sempre stato un antifascista convinto.
3) Non ho mai fatto parte di falangi, né dure e pure, né molli e impure, né tantomeno contro gli Ebrei, essendo fra l’altro notoriamente un amico dello Stato di Israele.
4) Non ho “cambiato idea” perché, per mia fortuna, non ho mai dovuto pentirmi delle mie idee, diversamente dal signor Milia che milita in un partito che ha dovuto abiurare al proprio passato e cambiare quattro o cinque nomi.
5) Non vedo come questo signore possa “non dimenticare” che io avrei “manifestato contro l’arresto di Saccucci accusato di aver ucciso un giovane comunista a Sezze Romano”, visto che io non ho mai manifestato contro l’arresto di Saccucci, anche perché all’epoca di quel fatto di sangue (28 maggio 1976) avevo 11 anni, abitavo a Torino e frequentavo la quinta elementare.
6) In questa storia c’è soltanto una persona che “dice bugie” e “parla senza cognizione di causa”. E questa persona è il signor (si fa per dire) Milia.
7) Non so a quali mie “esibizioni” e a quali “cachet” si riferisca questo tizio. Se parla del mio lavoro di giornalista free lance, è retribuito dai giornali per cui scrivo; se parla dello spettacolo teatrale di impegno civile Promemoria, in cui racconto da tre anni la storia della Seconda Repubblica, è tutto molto semplice: chi vuole viene a vederlo e paga il biglietto; se parla delle conferenze che tengo in giro per l’Italia, le faccio gratis, mai chiesto un “cachet” in vita mia. L’anno scorso, ad assistere a Promemoria all’anfiteatro romano di Cagliari, vennero 1500 persone (ricordo, incidentalmente, che mi pronunciai in pubblico contro quello che lui definisce “lo scempio dell’anfiteatro romano”); quest’estate, quando tornerò a Cagliari per chi non riuscì a entrare un anno fa, avrò un promemoria in più da raccontare. Così i cagliaritani distratti sapranno chi è il presidente della loro Provincia e chi è il soggetto che il Pd ricandida per quella poltrona.

Da
il Fatto Quotidiano del 29 maggio



Cei, azione zero sui pedofili - Marco Politi


29 maggio 2010
Abusi. La Chiesa italiana fa la sua scelta: azione zero. Sugli stupri del clero l’assemblea dei vescovi decide che un intervento collettivo non serve. Niente “tolleranza zero” come negli Usa, niente linee guida come quelle che autorizzano in Germania a chiamare a rapporto il singolo presule disattento, niente commissione d’inchiesta come in Austria, niente numeri verdi né referenti cui possa rivolgersi la vittima. L’esempio inglese citato dal direttore dell’Osservatore Romano – una task force in ogni parrocchia–viene definito “non un’indicazione per l’Italia”. Troppo persino per una giornalista cattolica, che in conferenza stampa ha chiesto al cardinal Bagnasco: “Scusi Eminenza, ma allora uno deve chiamare il centralino della diocesi dicendo: sono una vittima, mi passi il vescovo?”.

Il comunicato dell’assemblea esalta il “coraggio della verità che, anche quando è dolorosa e odiosa, non può essere taciuta e coperta”: proclamazione surreale mentre i vertici ecclesiastici negano chiarimenti all’opinione pubblica su chi sono e che fine hanno fatto i cento preti delinquenti (numero fornito dalla Cei) già coinvolti in un procedimento. È un fossato tra l’invito di papa
Ratzinger all’azione per dare voce a quanti per decenni non sono stati ascoltati, portando i colpevoli in tribunale, e l’inazione della Cei come organismo collettivo.

Evidentemente prevale nelle gerarchie la paura di scoperchiare il vaso delle violenze. Sostiene Bagnasco che, date le autorevoli indicazioni dei testi vaticani, “non è necessario né opportuno” prendere altri provvedimenti. Tutto è lasciato al “discernimento” dei singoli vescovi. Esattamente ciò che per secoli ha prodotto insabbiamenti e ritardi, che lo stesso Bagnasco ammette “possibili”. Riproporre questo sistema è attendismo e si paga sempre.

da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010


Mussolini ieri, oggi, e pure domani



Beh, non c’è che dire, da quando l’altro giorno il Premier ha citato i diari di Mussolini - Vertice Ocse di Parigi - Maurizio Belpietro ha dato una bella sferzata alla promozione dei Dvd del Duce, che Libero regala ai propri lettori dal 22 maggio. La campagna era partita un po’ in sordina, nelle ultime settimane il succoso regalo era stato stato pubblicizzato solo con piccoli trafiletti, o riquadri interni a Libero, ma dall’exploit Papal-Mussoliniano di Parigi ogni freno storico-inibitorio è crollato, Belpietro ha preso coraggio, sì, evvai, siamo sulla strada giusta, nessuno ora ci potrà fermare, "Berlusconi: mi sento come Mussolini", "Io come Mussolini", "Pd contro Libero sui Dvd Fascisti", "A chi fa paura il Fascismo", "Il Fascismo fa ancora paura?", "I Dvd ai lettori, iniziativa da veri liberali", e così via. Come ben sapete mi ero permesso di chiedere a quelli di Libero chi finanziasse questo preziosissimo dono editoriale - già, mi seccherebbe un tantino pagare l’operazione di tasca mia, che un po’ già è così - ricevendo in risposta un secco "non possiamo dire nulla, su questo non possiamo rispondere". Ma ora gli interrogativi passano ad uno step successivo, l’economia domestica lascia tristemente il passo a megadomandoni etico-politico-morali, mentre il Parlamento lavora di notte per minare alcuni cavilli costituzionali, libertà d’informazione, indipendenza della Magistratura, mentre l’imperativo è sempre più limpido, spompare, svuotare da dentro gli strumenti che garantiscono al cittadino sicurezza e conoscenza, lasciando sul terreno istituzionale involucri vuoti e pericolosi, di facciata, perfetti per garantire l’impunità della cricca. Mussolini ieri, oggi, fa quasi chic parlare di Mussolini, non ci si vergogna nemmeno più, pronunciare quel nome infame, accostarlo al nostro Presidente, persino, quasi volessero esorcizzarne le affinità, mettere le mani avanti, contemporanei bavagli, pillole da addolcire, massì, che volete che sia, il Duce non ha mai fatto male a nessuno, guardate che belli quei pargoli in divisa, "Berlusconi come Mussolini", e allora?, e se fosse così?, e via di paralleli, di diari, falsi magari, ma che importa, Mussolini ieri, oggi, di nuovo sulla scena, senza timori, senza remore, Mussolini ieri, oggi, ma domani?


Caso Ruffini, sconfitti i gerarchi del Sultano - Giuseppe Giulietti


Un Duce va giudicato anche dai gerarchi che si sceglie, e la regola vale anche per il Sultano che, appena qualche giorno fa, si è autonominato neoduce, con autoironia appena percettibile.

Alla Rai, per esempio, Berlusconi ha inviato pessimi gerarchi che gli stanno combinando un sacco di guai.
Dentro e fuori al telefono gli avevano promesso che si sarebbero sbarazzati di Ruffini, l'ex direttore di Rai Tre, di Santoro, della Dandini, della Gabanelli, di Ballarò e via discorrendo.

Presi da euforia crescente e da servilismo manifesto hanno cominciato a lasciare le impronte ovunque, a sporcarsi le mani di marmellata, ad annunciare scalpi che ancora non avevano conquistato.

Ora più che mai ci auguriamo che Michele Santoro li mandi a quel paese e annunci che il prossimo anno continuerà Annozero, anche perché i patti con questi signori hanno lo stesso valore della carta straccia.

L'ultima clamorosa conferma è arrivata dal tribunale di Roma che, con una clamorosa sentenza, ha imposto alla Rai il reintegro di Paolo Ruffini. Ma quello che è ancora più clamoroso è la motivazione con la quale il giudice ha disposto il provvedimento. Ci sembra utile riportarla per intero.

IL TESTO DELLA SENTENZA
"Indizi gravi, precisi e concordanti'' che collegano la sostituzione di Paolo Ruffini alla direzione di Raitre all'aperta critica al contenuto di alcuni programmi della rete. Ragion per cui la ''delibera di sostituzione del vertice di Raitre non appare dettata da reali esigenze di riorganizzazione imprenditoriale presentando invece un chiaro connotato di motivazione discriminatoria e quindi illecita''. Sono punti centrali dell'ordinanza con cui è stato accolto il ricorso dell'ex direttore di Raitre che aveva lamentato che la soluzione individuata non rispondeva al suo profilo professionale e alle responsabilita' fino ad allora ricoperte. Il giudice del lavoro di Roma Eliana Pacia (RPT Pacia) (terza sezione del tribunale civile), con provvedimento di urgenza ''fa ordine alla Rai di adibire il ricorrente'', Paolo Ruffini, ''all'attività lavorativa come dirigente editoriale direttore di Raitre con adibizione alle mansioni svolte prima del 25/11/2009'', giorno in cui il Cda Rai adottò la delibera di nomina alla direzione di Raitre di Antonio Di Bella, ''sino all'assegnazione di mansioni equivalenti''. La delibera di sostituzione, si legge nell'ordinanza, ''non appare dettata da reali esigenze di riorganizzazione imprenditoriale, presentando invece un chiaro connotato di motivazione discriminatoria e quindi, in quanto tale, illecita ai sensi dell'articolo 15 legge 300/1970''. Questo tenuto conto del ''collegamento'' tra le molte frasi della maggioranza e del Governo sulla ''faziosità'' dei programmi di Raitre e la sostituzione di Ruffini. A ''conferma di tale stretto collegamento - si legge - proviene dal tenore delle dichiarazioni rilasciate dal direttore generale della Rai il 23/09/2009 alla Commissione di Vigilanza sull'attività della Rai nel corso della quale egli ha espresso un aperto disappunto sul fatto che reti del servizio pubblico e quindi pagate dai cittadini fanno - diversamente a suo dire da tutti gli altri Paesi del mondo trasmissioni 'politicamente contro' (il Governo). E se è vero che il Direttore generale non delibera ma ha potere di nomina, tenuto conto delle reiterate e varie dichiarazioni espresse da esponenti del governo, come detto mai smentite, e dalla vicinanza temporale della delibera di novembre - seguita alle dichiarazioni del Direttore generale - può sicuramente affermarsi, sulla base di un giudizio di verosimiglianza, in sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa un obiettivo di collegamento tra la sostituzione del ricorrente e l'aperta critica al contenuto di alcuni programmi voluti e potenziati dal medesimo''. Una sostituzione illecita, quella di Ruffini, si legge nell'ordinanza del Tribunale civile di Roma, terza sezione lavoro, ''ancor prima e a prescindere da ogni considerazione su quanto può desumersi dal tenore della notizia dell'intercettazione telefonica riguardante la conversazione tra Innocenzi e il Dr Masi, riportata nell'articolo del quotidiano La Repubblica del 17/03/2010 versato in atti, che riferisce dell'allontanamento del ricorrente da Raitre, quale mezzo di aggiustamento della Rai, tenuto conto della inutilizzabilità, allo stato delle intercettazioni telefoniche in giudizi diversi da quello in cui le stesse sono state raccolto e del fatto che vi sarebbero indagini in corso presso la Procura della Repubblica di Trani proprio sulla diffusione delle notizie oggetto delle varie intercettazioni''. Il giudice parla anche della ''violazione del diritto alla libertà d'informazione e di critica del giornalista'' che risulta come ''mero riflesso dell'intera vicenda sullo stesso Ruffini seppure è vero, fa notare, che è da condividere quanto sostenuto dalla Rai, ''parte resistente", sul fatto che ''la rete non è assimilabile ad una testata giornalistica seppure essa e' composta anche da giornalisti''. Per il giudice sussiste ''anche il danno grave e irreparabile nel tempo occorrente a far valere il diritto del ricorrente in via ordinaria''. Se è vero, come sostiene la Rai, che occorre ''ancorare il danno irreversibile al depauperamento del proprio acquisito bagaglio professionale'' per il giudice questo pericolo non riguarda tanto ''le materie ad elevato spessore tecnologico o scientifico ma alla qualità e varietà delle mansioni svolte anche in connessione con il ruolo rivestito dal lavoratore nel contesto aziendale e produttivo''. Di fatto Ruffini, si legge ancora nell'ordinanza ''non è stato preposto ad alcuna struttura'' e ancora oggi ''si reca tutte le mattine in Rai dove non gli è affidata alcuna mansione'' (....). Il giudice, prosegue l'ordinanza considera il ricorso ''fondato'' e lo accoglie sostenendo ''sotto il profilo della verosimiglianza del diritto vantato'' che ''sussiste un concreto demansionamento ai sensi dell'articolo 2103 del Codice civile perche''' dopo la delibera di sostituzione Ruffini ''non ha ricevuto sino al 27 aprile 2010'' - quando è stata formalizzata la nuova proposta con Raipremium e Rai educational - ''alcun incarico ed è rimasto del tutto inattivo''. L'incarico di direttore di Raitre conferito nell'aprile del 2002 non prevedeva ''termini di durata''. Nè consta che prevedesse ''una regola implicita di breve durata'' o che l'incarico ''sia venuto meno per ragioni connesse ad esplicite responsabilità professionali nello svolgimento dell'incarico o a ragioni collegate al mancato raggiungimento di risultati obiettivi editoriali''.

Che altro aggiungere? Non si potrebbe descrivere meglio la natura e il putridume del conflitto di interessi, la volgarità delle parole e delle azioni dei moderni gerarchi sempre pronti ad interpretare e a soddisfare le peggiori voglie del vecchio capo. Adesso cosa racconteranno al Sultano che aspettava la testa delle vittime? Quale altro imbroglio si inventeranno? Tenteranno di mettere sotto tutela Antonio Di Bella minacciandolo di espulsione se non manderà via Dandini, Floris, Gabanelli, Bertolino, Iacona e via discorrendo?

Per altro lo stesso direttore in carica ha già annunciato al
Fatto che non ha intenzione alcuna di obbedire al comando del duce e dei gerarchi.

Per quanto ci riguarda, come Articolo21, a costo di farlo da soli, continueremo a reclamare le dimissioni di chi ha ideato, progettato e portato a compimento il piano di espulsione di Ruffini e vorrebbe ora mettere definitivamente le mani sul palinsesto di Raitre.

Non si tratta di solidarizzare con questo o quel giornalista, questo o quell'autore, ma di impedire che il piano di oscuramento politico e mediatico in stato di avanzata attuazione colpisca a morte una delle ultime isole sopravvissute nel sistema mediatico nazionale.

Un ringraziamento, infine, lo vogliamo rivolgere all'avvocato D'Amati, presidente del collegio dei legali di Articolo21 che, anche in questa occasione, ha difeso le ragioni della libertà di informazione infliggendo una bruciante sconfitta al duce, ai gerarchi, ai loro squadristi.

Giuseppe Giulietti

(29 maggio 2010)

Il premier a casa sua - Paolo Ojetti


29 maggio 2010
Tg1
Per darsi conforto dopo le gaffe sparpagliate fra Roma e Parigi (di cui il
Tg1 non ha dato né mai darà conto), il “premier” sceglie una sede ancora più sicura, il suo Canale 5, angolo ombroso e quieto con Maurizio Belpietro che dirige Libero, ma ha tempo e collaborazioni a disposizione. Ebbene, come dubitare che Berlusconi non dica bene di se stesso? La “manovra” (ormai sembra di parlare di un treno in stazione o di una nave all’ormeggio) è magnifica, raddrizza la barca, ritrova la giusta via, non mette le mani nelle tasche degli italiani (e via, basta con questi riferimenti a un frugare in posti poco decenti) e poi ce la chiede l’Europa, come dirle di no? Se la presidentessa Marcegaglia non apprezza e non vuole fare la ministra, affari suoi, significa che non ha capito il momento magico. Nicoletta Manzione, la conduttrice acqua e savon (in francese), dall’andamento sempre sul filo dell’ansia, è rilassata, sorprese non sono annunciate, riferimenti a Hitler eStalin (quelli sì che avevano potere, altro che Berlusconi) non erano in vista.

Tg2
Siccome il “premier” non sbaglia mai, ciò vuol dire che l’errore sta da qualche altra parte. Forse sono gli industriali “che non hanno letto con attenzione” gli articoli della “manovra”. Anche il
Tg2, che parte così, omette di ricordare le gaffe parigine sul Duce e passa oltre, forse per un senso di misericordia e di pietà umana. Il resto è tiritera: la barca è sulla rotta giusta, l’Ocse approva con giubilo, non abbiamo messo le mani nelle solite tasche, eccetera. Che strani concetti sulla natura delle “tasse” : cos’altro sono i tagli agli stipendi, la compressione dei servizi pubblici; cosa comportano – se non una diminuzione della capacità di spesa e di consumo – i rinvii di diritti acquisiti o di rinnovi contrattuali? Pescando altrove, si possono evitare le impopolari “tasche”.

Tg3
Mussolini torna nel Tg3, ma nella versione berlusconiana, un pover’uomo che non poteva decidere niente perché il vero potere “ce l’avevano i gerarchi”:
Starace,Ricci, Federzoni, Bottai, Balbo, Pavolini o Farinacci? Chi lo sa. O forse – come suggerisce Pierluca Terzulli – Berlusconi intendeva riferirsi allo strapotere dei gerarchi contemporanei, Tremonti per esempio? In studio, l’uomo che vede il federalismo, complice la manovra, a rischio aborto: Roberto Formigoni. E messo al punto giusto, arriva anche Gianfranco Fini, che di fascismo se ne intende , in gioventù l’avrà certamente studiato: oggi non c’è la dittatura – ha detto – ma ci “sono altre insidie dalle quali ci protegge proprio la Costituzione”. Servizio “vivo” a contatto con gli statali: una corsa al pensionamento prima che la “manovra” li congeli sulla soglia.

da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010