“Senza cultura e conoscenza dei fatti la nostra scelta non è libera. Siamo gregari costretti a fare quello che impongono gli altri”. Una convinzione che da sempre guida Gianfranco Maris. Simbolo della sinistra milanese, avvocato ed ex parlamentare, Maris ha compiuto ieri 90 anni. L’Aned (associazione nazionale ex deportati politici) e la Fondazione memoria della deportazione, delle quali Maris è presidente, gli hanno organizzato una festa speciale, che è stata occasione per presentare il volume Una sola voce: scritti e discorsi contro l’oblio (ed. Mimesis), un’antologia curata da Giovanna Massariello che raccoglie i testi e i discorsi di Maris sulla sua esperienza di partigiano deportato a Mauthausen. Una testimonianza che Maris porta anche nelle scuole, dove incontra ancora oggi gli studenti, per costruire una memoria che sia consapevolezza del passato. Utile in un presente in cui “ancora c’è diffidenza verso lo straniero, nazionalismo esasperato, razzismo, xenofobia”.
“Dal campo di concentramento non esci più. Ti resta dentro”, racconta Maris. Con calma prende una penna e deciso scrive ‘60’. “E’ la percentuale dei deportati italiani che a Mauthausen sono morti in 9 mesi”. L’ultima follia è del 22 aprile 1945. “La guerra ormai era finita. Tre giorni dopo Milano sarebbe stata liberata. I tedeschi ci riunirono nella piazza dell’appello e scelsero 800 persone da gasare”.
A Mauthausen Maris viene deportato nel luglio del ‘44. Si era unito ai partigiani come comandante della brigata Garibaldi, dopo essere stato ufficiale dell’esercito nella campagna in Grecia. La guerra aveva rafforzato il suo antifascismo. “Ricordo i giorni tra il 25 luglio del ’43 e l’armistizio dell’8 settembre”. Dopo l’arresto di Mussolini, il comando di reggimento gira a Maris l’ordine diBadoglio: “La guerra continua, bisogna spiegare ai soldati perché”. Racconta Maris: “Tra i miei uomini c’erano molti pastori, persone analfabete. La domanda non era perché continua, la guerra. Ma perché l’abbiamo fatta. La guerra era un’università che ti portava all’odio del disegno criminale del Fascismo”.
Dopo il ‘45 Maris si laurea in giurisprudenza e inizia la sua attività da avvocato. Tra le persone che ha difeso, Leonardo Marino. “Fui nominato d’ufficio. Lui confessò di aver partecipato all’omicidioCalabresi. Era un combattente politico che avevano fatto diventare un assassino. Mi sembrò sincero: sentiva il bisogno di liberarsi la coscienza per un delitto che non gli apparteneva. Lo difesi come uomo credibile, che diceva la verità”. I processi per cui Maris prova ancora orgoglio sono quelli in cui ha difeso operai, mondine e partigiani: “In questo caso non c’era solo la battaglia giudiziaria, ma anche l’occasione per continuare a sventolare la bandiera della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale”.
Rifarebbe l’avvocato Maris, perché ha avuto la fortuna di farlo in modo pulito. “Se il cliente pretendeva difese assurde, mi rifiutavo. Quello che gli dicevo era: ‘Io posso fare una difesa tecnica, ma lei non può negare il fatto’”. La stessa fortuna non ce l’hanno i deputati del Pdl, che si riuniscono per decidere come affrontare il caso Ruby. “Oggi in Parlamento ci sono legali a disposizione del capo. Sono utilizzati per difenderlo nelle vicende personali in cui è coinvolto. Come avvocato, invece, dovresti usare la tua professionalità in aula per fare leggi nell’interesse della collettività”. E’ questo il ruolo che Maris sente di ricoprire quando dal 1963 al 1972 è senatore per il Pci. “La corruzione c’era anche allora, tanto che poi ci fu Mani Pulite. Ma oggi la situazione è più grave. Non esiste assessore che non abbia raccomandazioni per qualsiasi appalto o consulenza”. Dal ’72 al ‘77 Maris è componente laico del Consiglio superiore della magistratura. Dal 1980 al ’90 è vice presidente del teatro alla Scala. “Su di me il partito non ha mai fatto pressioni perché Tizio venisse nominato presidente della Corte d’Appello. Né mi ha mai chiesto biglietti gratis per uno spettacolo”.
Nel Pci Maris entra prima della guerra, a 17 anni, quando frequenta la seconda liceo classico. “Fu quasi per caso. Un compagno di scuola mi presentò suo cucino e suo fratello, che appartenevano al partito comunista clandestino”. La passione politica, da allora, è sempre la stessa. Con qualche delusione negli ultimi anni. “Il Pd mi fa soffrire. Nel partito la lotta non è più finalizzata ai processi formativi della linea politica, ma all’affermazione del potere personale. Il confronto è sui ruoli, anziché sulle idee”. Niente che intacchi il suo entusiasmo. “Io i novant’anni li sento nella schiena. E basta”.
“Dal campo di concentramento non esci più. Ti resta dentro”, racconta Maris. Con calma prende una penna e deciso scrive ‘60’. “E’ la percentuale dei deportati italiani che a Mauthausen sono morti in 9 mesi”. L’ultima follia è del 22 aprile 1945. “La guerra ormai era finita. Tre giorni dopo Milano sarebbe stata liberata. I tedeschi ci riunirono nella piazza dell’appello e scelsero 800 persone da gasare”.
A Mauthausen Maris viene deportato nel luglio del ‘44. Si era unito ai partigiani come comandante della brigata Garibaldi, dopo essere stato ufficiale dell’esercito nella campagna in Grecia. La guerra aveva rafforzato il suo antifascismo. “Ricordo i giorni tra il 25 luglio del ’43 e l’armistizio dell’8 settembre”. Dopo l’arresto di Mussolini, il comando di reggimento gira a Maris l’ordine diBadoglio: “La guerra continua, bisogna spiegare ai soldati perché”. Racconta Maris: “Tra i miei uomini c’erano molti pastori, persone analfabete. La domanda non era perché continua, la guerra. Ma perché l’abbiamo fatta. La guerra era un’università che ti portava all’odio del disegno criminale del Fascismo”.
Dopo il ‘45 Maris si laurea in giurisprudenza e inizia la sua attività da avvocato. Tra le persone che ha difeso, Leonardo Marino. “Fui nominato d’ufficio. Lui confessò di aver partecipato all’omicidioCalabresi. Era un combattente politico che avevano fatto diventare un assassino. Mi sembrò sincero: sentiva il bisogno di liberarsi la coscienza per un delitto che non gli apparteneva. Lo difesi come uomo credibile, che diceva la verità”. I processi per cui Maris prova ancora orgoglio sono quelli in cui ha difeso operai, mondine e partigiani: “In questo caso non c’era solo la battaglia giudiziaria, ma anche l’occasione per continuare a sventolare la bandiera della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale”.
Rifarebbe l’avvocato Maris, perché ha avuto la fortuna di farlo in modo pulito. “Se il cliente pretendeva difese assurde, mi rifiutavo. Quello che gli dicevo era: ‘Io posso fare una difesa tecnica, ma lei non può negare il fatto’”. La stessa fortuna non ce l’hanno i deputati del Pdl, che si riuniscono per decidere come affrontare il caso Ruby. “Oggi in Parlamento ci sono legali a disposizione del capo. Sono utilizzati per difenderlo nelle vicende personali in cui è coinvolto. Come avvocato, invece, dovresti usare la tua professionalità in aula per fare leggi nell’interesse della collettività”. E’ questo il ruolo che Maris sente di ricoprire quando dal 1963 al 1972 è senatore per il Pci. “La corruzione c’era anche allora, tanto che poi ci fu Mani Pulite. Ma oggi la situazione è più grave. Non esiste assessore che non abbia raccomandazioni per qualsiasi appalto o consulenza”. Dal ’72 al ‘77 Maris è componente laico del Consiglio superiore della magistratura. Dal 1980 al ’90 è vice presidente del teatro alla Scala. “Su di me il partito non ha mai fatto pressioni perché Tizio venisse nominato presidente della Corte d’Appello. Né mi ha mai chiesto biglietti gratis per uno spettacolo”.
Nel Pci Maris entra prima della guerra, a 17 anni, quando frequenta la seconda liceo classico. “Fu quasi per caso. Un compagno di scuola mi presentò suo cucino e suo fratello, che appartenevano al partito comunista clandestino”. La passione politica, da allora, è sempre la stessa. Con qualche delusione negli ultimi anni. “Il Pd mi fa soffrire. Nel partito la lotta non è più finalizzata ai processi formativi della linea politica, ma all’affermazione del potere personale. Il confronto è sui ruoli, anziché sulle idee”. Niente che intacchi il suo entusiasmo. “Io i novant’anni li sento nella schiena. E basta”.