Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 16 marzo 2011
NOSTALGIA DEL COLONIALISMO DEMO-CRISPINO. - di Giuseppe Melo
Decine di morti in Tunisia, 365 in Egitto, 400 in Libia, contro i 1135 a Minamisanriku e Miyagi, presso l’isola di Honshu. Il gusto però per l’horror catastrofico, implementato da lustri di film dell’orrore Scream ha indicato subito diecimila morti nipponici, per non parlare dei rischi di contaminazione nucleare su cui si sono lanciati come avvoltoi i profeti televisivi e politici naturistici.
Si fronteggiano così in serrate schiere gli epigoni del disastro nucleare da un lato e quelli della tragedia dell’esodo milionario immigratorio dall’altro. Tanto basterebbe per derubricare l’attendibilità dell’informazione odierna, indistinguibile dallo show. Giorno dopo giorno, titolo dopo titolo, i diecimila, i centomila, i milioni di manifestanti, ammazzati, bombardati, approdati, dispersi, contaminati appaiono declamati, agitati per poi sciogliersi nel nulla, senza neanche una parola di scusa per l’inverosimile distanza tra l’annunciato ed il reale.
Tre centrali nucleari sono in pericolo, una è esplosa e mentre si trattiene il respiro, i contaminati sono sei di numero. Dissipati i fumi colorati dello show, appare disperante l’incapacità analitica dei giorni nostri. Intervistati sulle rivolte arabe, i capoccioni di Limes se ne escono con l’improcrastinabile voglia di democrazia dei giovani arabi.
Passate poche settimane, in Tunisia un militare ne sostituisce un altro, in Egitto l’esercito sospende quel poco di costituzionale che c’era, mentre i rivoltosi schiacciano le assemblee femminili; e sulla Libia si prospetta il più grosso flop diplomatico-informativo mai visto. Si conosce molto dell’Iran e del Pakistan, dell’Afghanistan, del Libano e di Gaza, aree monitorate a fondo dai servizi inglesi, americani ed israeliani che non si risparmiano nel divulgare le notizie dell’ultimo arresto o a fare la parafrasi interpretativa dell’ultimo discorso del capo dei pasaradan.
Invece sull’Africa araba, sul profondo Medio Oriente, territori così vicini, è buio profondo, non si conosce nulla. Le rivolte lasciano tutti di stucco e dopo mesi e mesi non hanno non un partito o un leader, ma neanche un volto o una voce. Per trovarne uno in Libia bisogna aspettare Abdul Fattah Younis, ex ministro degli interni e capo delle forze speciali di Gheddafi, passato con i ribelli solo a febbraio.
La russa Vimpelcom impegnata a comprare l’azienda algerino-egiziana Orascom, per concludere l’affare riempiendo di soldi il capitalista Sawiris, forza i partner norvegesi senza che gli eventi egiziani la facciano esitare. Il tunisino Tarak Ben Ammar, nipote di Habib Bourghiba, ieri link tra l’Olp di Arafat e Craxi, oggi con i fondi libici, gran partner cinematografico di Berlusconi, Gheddafi e Murdoch, da una vita membro del Cda di Mediobanca e da questa confermato nel prossimo rinnovo CdA di Telecom Italia, si esalta per le trasmissioni filo rivolta della sua nuova tv satellitare Nessma tv, ma non manca di elogiare gli sconfitti: “Ben Alì ha consolidato l’eredità di Bourghiba: l’emancipazione femminile, la laicizzazione della società, l’alfabetizzazione e la modernizzazione del paese, la creazione di una classe media.
Avrebbe dovuto sapere che gran parte dei giovani laureati non avrebbe trovato lavoro. Come dire, ha fatto troppo bene. Tarak fa il Celli della situazione: spara, esaltandola, su una classe dirigente di cui fa parte. Tres arabe, tres italienne….Ogni dieci anni c’è una rivolta in Tunisia e terreni limitrofi: una Bourghiba, amico dell’Asse, la schiacciò, la seconda lo travolse portando Ben Alì al potere nell’unica operazione riuscita ai servizi italiani.
Ai commentatori le idee vengono una dietro l’altra: è un ’89? è un ’68? O un 1848? Sui già apprezzati autocrati filoccidentali si scatenano condanne meschine; si fanno le pulci ad una corruzione che è planetaria, a partire dall’Onu. Con gran tempismo, però i Ben ali ed i Muraback, perso il potere, lasciano e la scena, morendo in pochi giorni; e la stabilità prossima ventura ringrazia.
Nel mondo arabo ci sono giovani disoccupati quanto da noi-il 24%: i giovani nordafricani under 25 sono però un 65% di 90 milioni e senza welfare. La loro crisi è fame; la più ampia comunicazione e emigrazione testimoniano loro l’abisso che li divide dal mondo ricco. Se come dice Tarak hanno studiato, capiscono anche è un destino segnato.
Nella storia del magma arabo -musulmano, riscatto e guida ad una trasformazione profonda possono venire dai paesi dotati di burocrazia statale solida come la Turchia, l’Iran ed un tempo l’Egitto, che non sembrano capaci, col petrolio o meno, di fare il salto di qualità puramente economico di cui i giovani hanno bisogno.
Anzi, le questioni nazionaliste e religiose non fanno altro che allontanarle dallo sviluppo senza democrazia dei Bric. I democratici che sentono sempre insufficiente lo stato di democrazia; hanno appioppato le loro fisime alle rivolte; tifando in particolare per quella libica che pure avevano sostenuto ai tempi del libretto verde e della politica filo terroristica del rais.
In controtendenza, i 6 milioni di libici, grazie al petrolio hanno dei redditi tali da potersi permettere immigrati. Quel che sta avvenendo in Libia, c’entra poco con le altre rivolte essendo un mero colpo di stato, probabilmente mosso da economia e finanza. Non il Bin Laden sventolato a Tripoli, ma gli Usa, storicamente avversi al regime libico sono i più interessati al cambio di regime.
Se Bush fu decisi con Saddam, Obama non può esserlo altrettanto con Gheddafi. Ora la comunità internazionale, a parte la Russia, dovrà gestire l’imbarazzo delle condanne morali e dei tribunali già pronti con un dittatore tornato in sella. Quella italiana dovrà risolvere la schizofrenia della destra filoUsa che parteggia per il dittatore e la sinistra che in puro odio al successo diplomatico del governo, si è fatta ostile al leader africano.
Il Berlusconi che lucido ed unico aveva sostenuto i russi nel conflitto georgiano, non si è ripetuto, troppo indebolito dalle campagne di stampa e dai processi incombenti, per Sirte e Cirenaica. Ed ora direbbe Gheddafi chiamami ancora amore. L’Italia che chiede aiuto, sembra inconscia che la Libia, malgrado i baciamano, è un suo protettorato economico e che chi ne organizza il colpo di stato lo fa per impiantarvi il suo.
Nei mesi futuri il filo Roma-Tripoli verrà ricucito a Mosca, cioè, secondo i democratici dalla padella nella brace. Questa però è la balance of power; questo lo stato del mondo arabo che fa, di qua e di là del Mediterraneo, rimpiangere l’interventismo democratico crispino, altrimenti detto, con i newcon, colonialismo.
Editoriale: La scienza è cultura. - di Enrico Bellone
Della prima giustamente si dice che deve essere libera: l'artista, il romanziere e il filosofo ci aiutano infatti a capire il mondo umano dei valori, e la comprensione non ammette censure. I fisici, i chimici o i biologi, invece, non dovrebbero essere liberi. Li si dovrebbe sorvegliare e, quando è il caso, bloccare. Il loro modo di capire l'uomo e la natura potrebbe essere rovinoso. Per esempio, riducendo la persona umana a un grumo di materia evolutosi per caso. Una riduzione disumana, e lesiva dello spirito.
Faccio questo solo esempio perché, da qualche tempo, esso è al centro di molte discussioni. Che a volte vanno sopra le righe: su «L'Avvenire» si è arrivati, come già ricordato nell'editoriale di ottobre, a scrivere che Umberto Veronesi, in quanto accetta l'evoluzione, è un fautore del cannibalismo. Questo stato di cose induce non pochi osservatori a credere che la Chiesa di Roma sia l'unica fonte dell'immagine negativa della scienza. Ritengo che ciò non sia vero. Ritengo che stia anche nel mondo laico la matrice profonda di un atteggiamento negativo nei confronti delle scienze, viste come forme non di cultura libera, ma di inquinamento tecnico dell'uomo e della natura.
Il 13 febbraio trovo su «Il Foglio», certamente laico, un articolo di Giuseppe Sermonti che suggerisce di «insegnare Darwin nell'ora di religione», così da far comprendere ai giovani che «incombe il Crepuscolo degli dei, galoppano i cavalieri dell'Apocalisse».
Nulla di nuovo, direi. Nel proporre scenari energetici per il nostro paese, è di matrice laica la proposta di adottare i punti di vista di Jeremy Rifkin. In un libro del 2000, Entropia, Rifkin ci spiega che la seconda legge della termodinamica vale solo nel «regno orizzontale del tempo e dello spazio», ma «tace quando si arriva al regno verticale della trascendenza spirituale».
Per capire l'originalità di questa tesi Rifkin sostiene che dobbiamo respingere la «propaganda» (sic) razionalista di coloro che egli battezza «gli intossicatori» della vera cultura. Ne fa l'elenco: Bacone, Cartesio, Newton, Locke, Adam Smith e Darwin. Grazie a questo gruppo di intossicatori, «tutta la storia della razionalità umana è stata una storia in cui la mente delle persone si è allontanata sempre di più dalla realtà del mondo in cui sta vivendo». Sempre secondo Rifkin, si è anche allontanata da Dio, e oggi dobbiamo allora scegliere di abbandonare Newton e Darwin, poiché dobbiamo scegliere tra «servire Dio o rifiutarlo».
Date queste premesse, avremmo allora l'obbligo di puntare solo sulle umane fonti rinnovabili e respingere il disumano nucleare. Ebbene, viene dall'attuale sottosegretario laico all'Economia la tesi, perfettamente rifkiniana, secondo cui «l'età dell'atomo è finita». Non lo sapevo. So invece che le nazioni più moderne stanno ripensando, insieme alle rinnovabili, anche il nucleare, e si stanno trasformando in «società della conoscenza». Non conoscenza scientifica, ma conoscenza senza aggettivi. Ecco perché «Le Scienze» insiste sull'eredità positiva lasciataci da Galilei, Newton, Kant e Darwin. E nel dire, quindi, che la scienza è cultura.