martedì 7 giugno 2011

Sesto Potere: Internet siamo noi. - di Layla Pavone



Ultimamente, quando mi soffermo a riflettere su questa nuova aria di “Risorgimento” che si respira nel nostro Paese da qualche mese a questa parte, mi torna in mente un libro, che risale ormai al 2004, dal titolo “The wisdom of crowds” scritto da James Surowiecky.

Il libro sostiene una tesi che, a suo tempo, non venne condivisa da tutti e cioè che le idee migliori arrivino non dai grandi geni ovvero da personalità eccezionalmente straordinarie per il loro pensiero o le loro azioni, bensì dalla “saggezza dei popoli”.

Attraverso vari casi esemplificativi relativi ad eventi e fenomeni, Surowiecky dimostra come siano quattro le condizioni fondamentali che possono portare un’idea, un progetto, un’iniziativa al pieno compimento ed al successo: l’indipendenza, la diversità delle opinioni, la decentralizzazione e il modo con cui si aggregano e si organizzano i risultati.

E’ evidente come, oggi più che mai, lo sviluppo delle nuove tecnologie, del cosiddetto Web 2.0, dei social network, renda molto più chiara e difficilmente confutabile la tesi dell’autore del libro. Internet è l’elemento chiave che dà forza alle idee e alle persone. Stiamo tutti contribuendo alla rinascita di una coscienza civica, alla ricerca di una “verità condivisa e collettiva”, totalmente in antitesi con i concetti filosofici dell’individualismo e del relativismo che sembravano ormai permeare totalmente la nostra società. Internet siamo Noi, il Sesto Potere.

Io credo sinceramente che tutti gli ambienti di relazione sociale e di condivisione delle informazioni online, rappresentino concretamente e confermino come i quattro elementi: indipendenza, diversità, decentralizzazione ed aggregazione, siano alla base di questa presa di coscienza e di questa straordinaria volontà collettiva di cambiare lo “status quo” e di recuperare, attraverso l’impegno, la fiducia, la collaborazione, la partecipazione e la ricerca di nuove soluzioni, la speranza per un futuro migliore.

Di questo si sta discutendo anche a New York in questi giorni, in occasione del Personal Democracy Forum.

E’ grazie a Internet che è partita la rivolta egiziana. Così anche negli altri Paesi del Nord Africa la Rete è stata un “collante” fenomenale per aggregare fisicamente giovani e meno giovani e renderli consapevoli della forza delle loro idee (qui trovate l’intervista esclusiva fatta a Wael Ghonim, il ragazzo che ha “innescato” la miccia della rivoluzione egiziana attraverso Facebook).

Ora, pur essendo il nostro un Paese anziano dal punto di vista anagrafico, oltretutto “TVcentrico”, mediaticamente parlando, e quindi passivo; pur scontando ancora il cosiddetto “digital divide” (sono online circa 25 milioni di utenti ma manca all’appello ancora una buona metà di italiani che ancora non utilizzano la Rete), Internet sta finalmente dimostrando come la possibilità di esprimere le proprie idee liberamente, da qualunque parte provengano, facendole convergere in luoghi di aggregazione, senza filtri e condizionamenti di sorta, possa contribuire a cambiare le sorti anche della nostra bella Italia.

Proprio nel periodo in cui festeggiamo i 150 anni di Unità Nazionale, cominciamo a riassaporare il valore dell’indipendenza, della libertà di espressione che, unite alla partecipazione e alla volontà di collaborazione, possono realmente e concretamente fare la differenza ed il bene della nostra Nazione. Lo abbiamo potuto toccare con mano durante le recenti elezioni amministrative per le quali Internet ha fatto la differenza e speriamo possa accadere anche per i prossimi referendum, e la farà sempre di più, anche pensando alla Rai che ieri ha deciso di eliminare una trasmissione come Annozero dal palinsesto, nonostante i grandi numeri in termini di audience e gli importanti ricavi pubblicitari che generava.




Ecomafie, “Serve una normativa urgente Nei dati ufficiali i veleni nemmeno esistono”. - di Claudia Campese


Presentato il rapporto 2011 di Legambiente. Quasi trecento clan impegnati in 30mila illeciti accertati. Per un business da più di 19 miliardi di euro. In testa alla classifica ancora il Sud, ma il fenomeno è in espansione in Lazio e Lombardia. L'associazione denuncia: “Sui rifiuti le cifre del ministero sono sballate”

Il traffico illecito di rifiuti? Il ministero dell’Ambiente non ne sa nulla. Nei suoi dati ufficiali, i veleni non esistono e l’Italia gestisce anzi più immondizia di quanti ne produca. E nel Paese, intanto, si fa largo la “strada dell’ecomafia”, un’immaginario percorso da Reggio Calabria a Milano coperto da più di 80mila tir carichi di rifiuti illeciti. Quelli che ogni giorno circolano in Italia o vengono esportati inCina, per poi rientrare sotto forma di giocattoli o attrezzi. Ma sono anche gli spazi, grandi come 540 campi da calcio, occupati dalle abitazioni abusive del Paese. “Come un virus, con diverse modalità di trasmissione e una micidiale capacità di contagio”. Si tratta solo di una piccola parte del quadro ricostruito nel rapporto annuale diLegambiente sulla criminalità ambientale, ma che non figura nei rapporti dell’organo di ricerca del dicastero guidato da Stefania Prestigiacomo. Un business da più di 19 miliardi di euro solo nel 2010, in mano a quasi 300 clan. “Fenomeni che continuano a diffondersi senza incontrare adeguate resistenze – spiega Enrico Fontana, responsabile dell’Osservatorio ambiente e legalità dell’associazione -, approfittando di gravi sottovalutazioni, molte complicità e troppi silenzi”. Un’espansione “sempre più insidiosa” anche per il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui “su tali fenomeni la vigilanza istituzionale deve essere particolarmente attenta per evitare pericolose forme di collegamento tra criminalità interna e internazionale, distorsioni del mercato e rischi per la salute dei cittadini”. Eppure l’Italia è ancora carente di una normativa adeguata, denuncia Legambiente. Un “piccolo passo positivo”, secondo il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, è stato fatto “con il coinvolgimento della Direzione nazionale antimafia con competenze specifiche in materia di rifiuti”. Dall’altro lato, però, ricorda ancora il procuratore, il ministero dell’Ambiente ha approntato il sistema Sistri per il trattamento dei rifiuti – utile a registrare i passaggi dal produttore allo smaltitore – che “non è ancora operativo per una serie di rinvii”.

In una situazione in cui la cattiva gestione dei rifiuti e il ciclo del cemento assorbono la metà degli illeciti ambientali compiuti in Italia, il governo è fermo al 1997. Quando, spiega nel dossier Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, è stata fatta la prima proposta di inserimento dei reati ambientali nel codice penale. Negli anni è arrivato solo un timido schema di decreto, osteggiato da Confindustria e che comunque non accoglieva i dettami delle direttive europee in materia. Che “chiedono sanzioni efficaci, proporzionate, dissuasive”, precisa Dezza. Al momento, invece, “per il reato di discarica abusiva e omessa bonifica l’ammenda sale da 2.600 euro a 26.000 – aggiunge il presidente -, per una cava abusiva o l’inquinamento dell’aria al massimo si arriva a 1.032 euro, per lo sversamento in corpi idrici di acque reflue industriali l’ammenda raggiunge i 52.000 euro. Mentre non si prevede nulla per i reati relativi al ciclo del cemento”. E la carenza normativa è evidente anche nell’assenza di organi istituzionali in possesso di dati ufficiali e verificati. Comel’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che fa capo al ministero dell’Ambiente. Secondo le indagini dell’istituto, in Italia non esisterebbe nessun giro illegale di rifiuti: un dato che si basa su autodichiarazioni delle ditte, fa notare Legambiente. Anzi, per il Sipra, vengono gestite 4,6 tonnellate di rifiuti in più di quelli che si producono. Una cifra che non è sballata dall’import di scorie altrui, ma da un metodo di raccola dei dati – sconsigliato dalla Ue, si dice nel dossier – che favorisce il rischio di duplicazione dei dati nei passaggi intermedi della vita del rifiuto: dalla raccolta allo stoccaggio, o riciclo. Insomma, i conti non tornano e in mezzo ci si perde la fetta illegale. “Sarebbe stato, invece, importante che l’Istituto fornisse i dati sulla quantità di rifiuti pericolosi effettivamente gestiti, un dato da sempre mancante”, si denuncia nel dossier.

Se resta difficile capire il volume reale dei traffici ambientali illegali, sicura è invece l’associazione riguardo ai responsabili. Circa 300 clan – venti in più rispetto al 2009 – con la collaborazione necessaria di “un esercito di colletti bianchi”. Personaggi con un “ampia disponibilità di denaro linquido da una parte – spiega Fontana -, competenze professionali e società di copertura dall’altra”. Per un volume di affari che solo nel 2010 è stato di 19,3 miliardi di euro, comunque in ribasso di 1,2 miliardi rispetto al 2009. Una fortuna costruita su più di 30mila illeciti accertati: 7,8 per cento in più rispetto al 2009. Una cifra che, rapportata al quotidiano, significa più di 84 reati al giorno, 3 e mezzo ogni ora. Tra questi, quasi la metà sono rappresentati dallo smaltimento illegale dei rifiuti e dal ciclo del cemento: i primi in crescita del 14 per cento rispetto allo scorso anno, i secondi in diminuzione a causa della crisi, ma solo di poche centinaia di interventi. L’“attuale abusivismo edilizio non è frutto di necessità e attacca le aree a maggior valore aggiunto”, si spiega nel dossier. L’altra metà delle violazioni ambientali è invece formata dal traffico internazionale di specie animali e vegetali, alterazioni agroalimentari, incendi dolosi. In cima alla non lusinghiera classifica ci sono ancora una volta le regioni con un tradizionale radicamento mafioso: prima tra tutte la Campania – con il 12,5 per cento del totale nazionale degli illeciti -, seguita da Calabria,Sicilia e Puglia. La loro incidenza è però diminuita. Frutto del contributo delle regioni del nord ovest, prima tra tutte la Lombardia: cresciuta rispetto allo scorso anno dal 9,8 per cento degli illeciti nazionali al 12 per cento.

Il 2010, riporta il dossier, è stato un anno record per le inchieste sul traffico dei veleni. Ogni ora e mezza, in Italia, viene compiuto un illecito relativo allo smaltimento dei rifiuti, per un totale di 6mila violazioni lo scorso anno. Circa 2 milioni le tonnellate di immondizia sequestrate in 12 delle 29 inchieste condotte. Di non tutte sono disponibili i dati, spiega Legambiente, e di certo si tratterebbe solo di una parte dei reali traffici nel Paese. In cui sono cambiate le rotte, “sempre più circolari, coinvolgendo tutte le regioni, con l’unica eccezione della Val d’Aosta e proiettandosi pure su scala mondiale”. Un business sempre più internazionale, con 10 inchieste condotte nel 2010 che hanno coinvolto 15 Paesi tra Europa, Asia e Africa. “Italia-Germania-Olanda-Hong Kong-Cina, un percorso tipico – spiega Legambiente -. Cinque, sei, sette passaggi per ogni carico, questa è la regola”. Gli scarti di plastica e carta sono diretti soprattutto in Cina, mentre i rottami ferrosi in Africa. “Escono rifiuti, entrano prodotti finiti”, ricorda l’associazione, come giocattoli o oggetti, spesso sequestrati perché tossici. La tecnica classica per coprire gli illeciti è quella del ‘giro bolla’: falsificare i codici che accompagnano gli scarti, così da rendere legale quello che non lo è. Almeno sulla carta. “I codici più esibiti dai trasportatori sono quelli relativi a materie prime seconde o imballaggi – si legge nel rapporto -, spesso solo un trucco per nasconde il traffico illegale di sostanze molto velenose”. Nello scorso anno l’Agenzia delle dogane ha inoltrato alle autorità competenti più di 100 notizie di reato per traffico internazionale di rifiuti e sequestrato nei porti italiani più di 11 tonnellate di rifiuti speciali e pericolosi. Più del doppio rispetto al 2009. Di queste, il 16 per cento riguarda ad esempio pneumatici fuori uso. Ogni anno, secondo le stime ufficiali, ne spariscono dalla contabilità 80mila. Più di 800 campi da calcio, in parte ritrovati in 1250 discariche abusive. Quando non vengono rivenduti nei mercati illegali o usati per bruciare altri rifiuti, più pericolosi. “Come nel Parco dell’Alta Murgia – racconta, il documento – dove uno di questi siti illegali era stato preparato come una torta: sotto l’amianto, poi scarti di varia tipologia e sopra i copertoni da bruciare”. Una perdita economica per lo Stato di 140 milioni di euro l’anno per il mancato pagamento dell’iva sulle attività di smaltimento e vendita illegale, senza contare i soldi spesi per lo smaltimento dei siti illegali smaltimento. A guidare la classifica delle regioni più esposte è ancora una volta il sud ma, dopo il Lazio al quinto posto, a soprendere è il negativo balzo in avanti della Lombardia: passata dal quattordicesimo posto del 2009 al sesto dello scorso anno. Colpa della “intraprendenza delle famiglie, soprattutto calabresi, nell’intera provincia milanese”, spiega Legambiente.

Una classifica in parte diversa quella che riguarda invece il ciclo del cemento. Con una media di 19 violazioni accertate al giorno nel 2010. Illeciti che riguardano in gran parte l’abusivismo che, lo scorso anno, è cresciuto al ritmo di più di 26mila casi gravi, secondo le stime del Cresme, istituto di ricerce specializzato nell’edilizia. Con 18mila nuove abituazioni costruite non a norma, mentre gli altri casi riguardano gli ampliamenti e i cambiamenti di destinazioni d’uso compiuti illegalmente. “Questa prassi devastante – denuncia Legambiente – rischia di trovare legalizzazione nelle premesse di condono degli esponenti politici della maggioranza di governo. Dallo stesso Berlusconi, a Napoli, in appoggio al candidato sindaco Lattieri”. Quando il premier, in vista delle elezioni amministrative, ha promesso lo stop agli abbattimenti delle costruzione abusive a Napoli. Ma il ciclo del cemento riguarda anche il calcestruzzo depotenziato: il cemento scadente usato per costruire, ad esempio, una serie di palazzine di edilizia popolare a Campagna, in provincia di Salerno, “destinate alle vittime del terremoto del 1980”. E sequestrate nei primi giorni di aprile. Ma la Campania, storicamente in testa alla classifica, quest’anno è stata superata dalla Calabria, dove gran parte degli illeciti riguardano gli appalti per l’autostrada. Non solo maxi inchieste, sottolinea l’associazione, nel settore sono diversi i segnali della criminalità nei cantieri autostradali. “E’ ottobre 2010 il mese più nero”, spiegano, quando si sono registrate la maggior parte delle intimidazione, dei furti, del ritrovamento dei finti ordigni. Al terzo posto è invece il Lazio, dove dal 2004 al 2009 si sono compiuti una media di 20 illeciti edilizi al giorno. “Il 22 per cento di questi – si specifica nel dossier – si concentra nei 23 comuni costieri della regione, in aree vincolate paesaggisticamente”. Resta invece prima tra le regioni del nord la Lombardia, ottava nella classifica generale. A preoccupare di più, però, è il fenomeno della costruzione delle case in zone ad alto rischio idrogeologico. In Calabria, dove tutti i comuni hanno delle aree a rischio, che ospitano torrenti e fiumare, il cemento abusivo ha coperto l’anno scorso gran parte della costa, facendo registrare un abuso ogni 100 metri. Si tratta di più di 5mila illeciti in tutta la regione e, tra questi, circa 2mila nella sola provincia di Reggio Calabria. E non va meglio in Campania dove, secondo il Cnr, frane e inondazioni hanno ucciso più di 600 persone dal 1950 al 2008. Eppure nella regione, in dieci anni, sono state costruite 60mila case abusive: 6mila all’anno, 16 al giorno.



Frode per 3 miliardi, indagato Verdiglione.


Sequestrate 2 ville nel milanese, chiusa inchiesta per 26 persone.


MILAN - La Guardia di finanza di Milano ha notificato l'avviso di conclusione delle indagini nei confronti di 26 persone tra cui lo psicanalista Armando Verdiglione, accusati a vario titolo di emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, truffa in danno di istituto di credito per ottenere finanziamenti, truffa ai danni dello Stato e cioe' del ministero per i Beni culturali e appropriazione indebita. L'inchiesta che e' stata coordinata dal pm milanese Bruna Albertini ha portato inoltre il gip Cristina Mannocci a disporre il sequestro preventivo di due ville storiche in provincia di Milano tra cui Villa San Carlo Borromeo di Senago (ospita una delle sedi dell'Universita' del Secondo Rinascimento), il cui valore complessivo e' di circa 300 milioni di euro.

Nel corso delle indagini che sono iniziate circa due anni fa sono state scoperte fatture per operazioni inesistenti per circa 3 miliardi di euro mentre l'Iva evasa sarebbe stata, secondo gli accertamenti, di 300 milioni di euro. Armando Verdiglione negli anni '80 e' stato al centro di una serie di vicende giudiziarie relative all'attivita' sua, della sua fondazione e dei suoi collaboratori.

Le indagini della Guardia di Finanza, che hanno portato ad accertare un giro di fatture false per circa tre miliardi di euro, hanno riguardato un gruppo societario composto da associazioni culturali, fondazioni e onlus, riferibili allo stesso Verdiglione, che e' indagato con altre 25 persone, tra cui la moglie Cristina Frua De Angeli e altri collaboratori. Le Fiamme Gialle, durante gli accertamenti hanno scoperto un rilevante giro di transazioni finanziarie supportate da operazioni economiche fittizie - tra cui consulenze aziendali, commerciali e di marketing, corsi di formazione e di vendita e acquisto di opere d'arte - finalizzato all'evasione fiscale e ad ottenere linee di credito indebite da parte delle banche.

L'inchiesta ha portato alla luce anche fatture false per lavori edili riferibili alle dimore storiche del gruppo, e cioe' anche alle due ville sequestrate (la S.Carlo Borromeo di Senago e Villa Rasini di Medolago) con lo scopo di beneficiare di sovvenzioni pubbliche, visto l'interesse architettonico di due degli edifici. Tra le accuse contestate agli indagati, anche l'associazione a delinquere finalizzata all'emissione e all'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2011/06/07/visualizza_new.html_840411345.html

Centrale biomasse Pavia, arrestato il patron di Riso Scotti. Altri tre in carcere. - di Andrea Di Stefano


Clamorosa retata contro le truffe sull’energia prodotta da fonti falsamente rinnovabili. Questa mattina il Corpo Forestale dello Stato e la Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato hanno arrestato, e condotto in carcere, Franco Centili, funzionario del Gestore dei Servizi Energetici – G.S.E. di Roma e notificato gli arresti domiciliari ad Angelo Dario Scotti, Vice Presidente del CdA di Riso Scotti Energia, nonché Presidente del CdA e Amministratore delegato di Riso Scotti S.p.A, Andrea Raffaelli, funzionario del G.S.E. di Roma; Elio Nicola Ostellino, ex consulente esterno di Assoelettrica e Nicola Farina, commercialista di fiducia del Gruppo Scotti con studio a Milano. Le accuse: traffico illecito di rifiuti, truffa ai danni di ente pubblico, frode in pubbliche forniture e corruzione.

L’ordinanza di custodia cautelare è stata firmata dal Gip di Milano, Stefania Donadeo, che ha accolto le richieste del pm Ilda Boccassini controfirmate dal Procuratore capo del capoluogo lombardo, Edmondo Bruti Liberati. Si tratta del nuovo filone di una lunga indagine condotta dal Corpo Forestale dello Stato sull’impianto di coincenerimento di Pavia della Riso Scotti Energia, autorizzato inizialmente per l’impiego esclusivo di lolla di riso e altre biomasse, e successivamente – con provvedimenti autorizzativi della Provincia e della Regione di dubbia legittimità – anche all’incenerimento di variegate tipologie di rifiuti, erano stati conferiti per l’incenerimento ingenti quantitativi di rifiuti – anche pericolosi – non conformi alle autorizzazioni sia per tipologia che per la presenza di inquinanti in misura superiore ai valori limite fissati dalle normative di settore.

In tal modo Riso Scotti Energia aveva ceduto al Gestore dei Servizi Energetici – società interamente posseduta dal ministero dell’Economia – usufruendo di pubbliche sovvenzioni e quindi ad un prezzo superiore a quello di mercato, energia elettrica falsamente qualificata come derivante da fonti rinnovabili = biomasse, ricavando indebiti profitti pari ad almeno 28 milioni di euro. Nel mese di novembre 2010, in relazione alle accertate violazioni legge, l’Autorità Giudiziaria aveva già disposto gli arresti domiciliari per 7 indagati e il sequestro preventivo dell’impianto di coincenerimento del gruppo Scotti.

Contestualmente all’esecuzione delle misure cautelari partivano nuove intercettazioni telefoniche, sia per riscontrare le ipotesi di truffa aggravata e di frode in pubbliche forniture, già contestate (che vedevano l’ente pubblico Gestore Servizi Energetici come persona offesa) sia per raccogliere nuovi elementi di eventuali corruzioni riconducibili a Riso Scotti Energia nei confronti di funzionari del G.S.E. per ottenere il mantenimento degli incentivi economici. Incentivi che a seguito di una verifica ispettiva erano stati sospesi, tanto che era stata formalmente richiesta alla Riso Scotti Energia la restituzione di 7 milioni di euro.

Dalle intercettazioni è emerso sin da subito il tentativo di Riso Scotti Energia, avallato e sostenuto dalla proprietà, di risolvere in modo favorevole il contenzioso maturato con il Gestore Servizi Energetici attraverso l’intervento di persone amiche, dipendenti e/o collaboratori della Pubblica Amministrazione, in grado di modificare e/o annullare le decisioni sfavorevoli assunte dalla società pubblica che dopo l’esplosione dell’inchiesta avevano bloccato la corresponsione dei contributi.

La pratica sarebbe stata infatti “sbloccata positivamente“ (vale a dire che erano stati mantenuti gli incentivi economici di cui era stata in precedenza chiesta la restituzione) grazie all’intervento di Franco Centili, all’epoca dei fatti funzionario del Gestore Servizi Energetici, e, dopo il pensionamento, consulente esterno del Gestore pubblico, in stretto contatto con Nicola Ostellino, consulente in materia energetica, soggetto molto influente che nel corso di una conversazione afferma chiaramente di avere “tutto il G.S.E. lubrificato”.

Le circostanze emerse dalle indagini sono state confermate dagli interrogatori degli indagati Giorgio Radice e Giorgio Francescone, rispettivamente presidente del Cda e direttore tecnico di Riso Scotti Energia.

Radice ha ammesso di avere pagato, per risolvere il contenzioso con il G.S.E., consistenti somme di denaro in contante a favore di funzionari del G.S.E., con il pieno avallo e sostegno del proprietario di RSE Angelo Dario Scotti, e in particolare di avere pagato complessivamente 115.000 euro (100.000 a Franco Centili e 15.000 a Andrea Raffaelli), aggiungendo che al momento del suo arresto restava da pagare a Centili l’ultima tranche di 15.000 euro.

Ha poi confermato di essersi rivolto anche a Nicola Ostellino per farsi assistere nel contenzioso, senza avere versato a quest’ultimo, in modo diretto, somme di denaro. Anche Francescone ha confermato il pagamento di tangenti a Centili, aggiungendo che l’esborso di denaro è stato giustificato attraverso il pagamento di una fattura a favore di una società “off shore” per una consulenza in materia energetica.

Al fine di monetizzare la somma necessaria il commercialista di fiducia del Gruppo Scotti Nicola Farina aveva pianificato una operazione meramente finanziaria, individuando in una società statunitense il soggetto a cui la società Riso Scotti Energia avrebbe apparentemente commissionato una fittizia consulenza per un progetto di realizzazione di un impianto termoelettrico per un corrispettivo di circa 140 mila euro. Alla fine dell’operazione, la Scotti Energia riotteneva la somma in contanti, al netto delle provvigioni trattenute dalla Società compiacente, e poteva provvedere ai pagamenti in nero.





Auchan, una domenica nel nulla per una mancia da 18 euro. - di Luca Telese e Paola Zanca


Nel più antico ipermercato romano dipendenti in rivolta per il lavoro festivo

Immaginate un fortino: un avamposto con le mura e gli spalti, che presidia il confine fra la città e la periferia, dove le strade non hanno nome e i palazzi sono sempre in costruzione. Quelli della vigilanza ti raccontano: “Quando apriamo le saracinesche, la mattina, sono già lì, in fila, soprattutto gli anziani”. Immaginate che dentro il tempio il clima è temperato in ogni stagione, che si entra con la macchina e non si paga pedaggio, e che ogni settimana ci sono nuove offerte. Infatti, anche se non c’è un Vangelo, c’è “Il Volantone”. Il volantone delle offerte. Ecco, se avete smesso di immaginare siete già arrivati alle porte del più antico Auchan d’Italia: Casal Bertone. Quello dove sabato scorso i dipendenti hanno scioperato, e dove i clienti (non tutti, per fortuna) hanno protestato: “Dovete lavorare, non potete chiuderci il supermercato”.

Per capire questa nuova variante della guerra fra poveri, dovete prima capire la scintilla che ha innescato la protesta: la richiesta dell’azienda che vorrebbe da tutti i dipendenti lo straordinario domenicale obbligatorio. Se volete capire il motivo della rabbia di questi lavoratori, quasi tutti giovani (o giovanissimi) partite dai loro stipendi: i “veterani” che lavorano a tempo pieno fin dall’apertura (13 anni fa) guadagnano fra 1.100 e 1.200 euro. I part time lavorano 16 ore a settimana, e raggiungono i 400 euro. La direzione del supermercato paga il lavoro domenicale 2.70 in più netti l’ora. Lavorare la domenica consente di guadagnare circa 18 euro in più. Vale la pena? Per molti sì. Per tanti no. Un tempo i rapporti con la direzione erano buoni, sembrava che i clienti fossero tutti felici di comprare. Adesso, Paolo (ma il nome è di fantasia) dice che “tutti sono diventati più feroci”. Anche la gente è cambiata, dicono. Anna, reparto elettrodomestici, non ha scioperato: “Semplice. Io le domeniche le devo fare tutte. Sono part time”.

Perché dentro il tempio lavorano quasi trecento persone. Ma la babele dei contratti è grande. Alle casse, per esempio non ha scioperato nessuno: “Nemmeno lo sapevo!”, dice una ragazza. Ai reparti, invece, in tanti: “Ti credo – spiega uno di loro, anonimo – la direzione ha messo delle persone a fare gli straordinari dai giorni prima, per prevenire l’effetto sciopero. E poi ha fatto sparire i nostri volantini, quelli in cui spiegavamo ai clienti le nostre proteste. Altri li ha strappati dalla bacheca”. Anche allo scaricamento hanno scioperato in pochi. I settori più duri sono presidiati dai part time. Al reparto pesca attaccano alle cinque. E qui c’è Mirko, un altro che ha lavorato: “Ho una fortuna: un caporeparto buono. Se chiedo una domenica di riposo, ogni tanto, me la dà. Ma che mi serve? Anche la mia ragazza lavora!”.

Un tempo c’erano i sindacati, tutti. Ora quelli confederali si sono quasi estinti. “Ti credo – spiega uno dei ragazzi della vendita – hanno firmato tutto, e se scioperiamo ci criticano!”. Il sindacato che ha organizzato lo sciopero è un Cobas: “Abbiamo dovuto mobilitarci – spiega uno di loro – perché ora la direzione vorrebbe uniformare tutti i contratti in questo modo: si lavora tutte le domeniche, senza straordinario, come un normale giorno di lavoro”. Un altro ragazzo del reparto elettrodomestici: “Non ho scioperato, ma son solidale con chi lo ha fatto. A me le domeniche le hanno imposte con un trucco…”. Cioè? “Ero part time, e mi dissero: ‘Se vuoi il tempo pieno devi fare tre domeniche’. Così ho un contratto ad personam. Le devo fare comunque”. Il Volantino, aAuchan è molto più che un depliant, un testo sacro. Esce ogni settimana ed orienta il fiume dei clienti verso prodotti e settori del supermercato: “Adesso – spiega un’altra ragazza delle vendite – ci sono clienti che comprano solo le offerte. Ti faccio vedere: questa settimana pesce spada a 19.90 e albicocche a 1.99 euro al Kg? Ecco, loro comprano e mettono nel surgelatore, in attesa di tempi migliori”.

In realtà ti spiegano, gli slalomisti che comprano sempre l’offerta stracciata, e accumulano come formichine, sono una minoranza di massa. Quelli che contano di più sono coloro che gettano l’occhio anche intorno all’esca. Ma il paradosso è questo: i fedeli della domenica spendono molto di più di quello che guadagnano i commessi per tenere aperto il tempio. E i ragazzi dei reparti hanno uno sconto avaro: il 5%. Qui, nel fortino che presidia la periferia, nel tempio climatizzato del consumo, la guerra dei poveri è in questa doppia immagine. I clienti che la domenica si incolonnano davanti al garage indispettiti e quando vedono che il cancello è chiuso suonano il clacson per la rabbia. E i ragazzi che lavorano nel supermercato. Ma che per far quadrare i conti ti raccontano: “Il grosso della spesa la faccio al discount. Altrimenti con mille euro due figli come li sfamo?”. Recita il verbo del volantone: “Auchan, tutta la passione che meriti”.



“La corruzione coinvolge 4 paesi europei su 5″ La Ue prepara un report sui casi più gravi. - di Alessio Pisanò



La commissaria Malmstrom: “Le leggi ci sono ma manca la volontà politica per applicarle”. L'Italia non ha ratificato la Convenzione contro la corruzione del Consiglio d'Europa. Intanto Romania e Bulgaria rimangono fuori Schengen

La Commissione europea dichiara guerra alla corruzione. Dal 2013 verrà pubblicato un rapporto biennale che denuncerà apertamente i casi più eclatanti di corruzione e frodi nei 27 Paesi membri, con nomi e cognomi dei responsabili. Anche se questo rapporto non avrà valore legale, l’annuncio della commissaria Ue affari interni Cecilia Malmstrom fa paura soprattutto agli Stati meno “virtuosi” in materia di trasparenza, come Romania, Bulgaria, Grecia e Italia.

Si stima che la corruzione in Europa costi circa 120 miliardi di euro l’anno, tanto quanto l’intero budget Ue. Il caso tipico che coinvolge direttamente Bruxelles consiste negli “errori” nell’erogazione e gestione dei fondi europei. Secondo la relazione annuale 2009 della Corte dei conti europea una percentuale tra il 3 e il 5% dei fondi Ue (tra 3,5 e 5,8 miliardi di euro) non dovrebbe nemmeno essere erogata. Tra gli Stati che nel 2009 hanno dovuto restituire a Bruxelles più soldi c’è proprio l’Italia, dove le “correzioni finanziarie” per il 2009 riguardanti i fondi strutturali sono state di 217 milioni di euro (825 milioni con quelle del 2008). Ovviamente la Corte dei conti parla di “errori”, ma è presumibile che comprendano anche frodi e corruzioni non debitamente contrastate e segnalate dalle autorità nazionali. La relazione della Corte infatti metteva in risalto le “debolezze delle verifiche condotte e gli audit” di competenza nazionale. Se a questo aggiungiamo che le Convenzioni penale e civile del Consiglio d’Europa sulla corruzione, siglate a Strasburgo rispettivamente il 27 gennaio e il 4 novembre 1999 (richiamate dalla proposta di legge sulla corruzione de Il Fatto), non sono mai state ratificate dal Parlamento italiano, risulta chiaro come l’iniziativa lanciata ieri dalla Commissione possa scatenare un vero e proprio terremoto nel nostro paese.

Ma fare una legge non basta. Mentre “la maggior parte dei Paesi Ue ha un soddisfacente quadro normativo anti corruzione”, la commissaria Malmstrom denuncia “la scarsa volontà politica e la mancanza d’impegno nel contrastare davvero questo fenomeno” mettendo in pratica le leggi. E dire che “nessun Paese è totalmente libero dalla corruzione, un problema serio per 4 europei su 5”. Secondo la commissaria si tratta di “un’importante sfida sociale, politica ed economica che non possiamo perdere”. Anche se non avrà alcun valore legislativo e vincolante, la Malmstrom spera che “il mettere nero su bianco i maggiori casi di corruzione spinga i governi nazionali a darsi una ripulita”.

Il meccanismo presentato dalla Commissione verrà lanciato nel 2013 e raccoglierà informazioni non solo da istituzioni Ue e autorità nazionali, ma anche da associazioni e Ong. Il rapporto che ne uscirà conterrà oltre ai casi maggiori di corruzione, alcune raccomandazioni ed esempi pratici di come contrastare questo fenomeno. Soddisfatta Transparency International, che invita la Commissione a stabilirne criteri e indicatori di valutazione il più presto possibile, sottolineando tuttavia che “questo meccanismo da solo non risolverà completamente il problema della corruzione”.

Proprio la corruzione e la mala gestione delle risorse pubbliche è stata una delle cause principali del quasi fallimento della Grecia e delle richieste di aiuto a Bruxelles di Lettonia e Ungheria. Sempre la corruzione costituisce l’ostacolo più spinoso all’accesso di Romania e Bulgaria nella zona di libera circolazione di Schengen. Lo scorso dicembre, Francia e Germania si sono fortemente opposte al loro ingresso, divieto al quale hanno recentemente aderito Danimarca, Olanda e Finlandia. La Danimarca, qualche settimana fa, ha addirittura minacciato la riapertura dei controlli alla frontiera per frenare l’ingresso di bulgari e rumeni.

Certo in materia di corruzione Bruxelles non sta dando un ottimo esempio. L’Ufficio anti frode europeo Olaf diretto dall’italiano Giovanni Kessler si vede negare da mesi l’accesso ai locali del Parlamento europeo per investigare sul caso delle bustarelle pagate ad alcuni eurodeputati da giornalisti inglesi spacciatisi per lobbisti.