lunedì 8 agosto 2011

Londra brucia, ancora guerriglia nei quartieri. Arrestati in 225 e 35 poliziotti feriti.


Dopo gli scontri di sabato, ancora paura per le strade della capitale. Nuove violenze si sono registrate domenica sera nella vicina zona di Enfield. Nella notte gruppi di giovani incappucciati hanno attaccato diversi negozi a Brixton, Streatham, Turnpike Lane, Walthamstow, Chingford e Leyton.

Palazzo in fiamme a Tottenham, quartiere a nord di Londra

Dopo 225 arresti e due notti di delirio a Londra gli umori dei quartieri ‘difficili’ continuano a essere volatili quanto i listini delle borse. I nervi di politici e poliziotti dunque restano tesi. Un conto, infatti, è avere a che fare con un’ondata di teppismo, per quanto incubata all’interno di una situazione economico-sociale più che fragile, un altro è una rivolta su larga scala delle banlieu di sua Maestà. Al momento l’ago sembra pendere verso la prima ipotesi: le comunità locali hanno in gran parte preso le distanze dai facinorosi. Eppure le schermaglie continuano. E basta un errore, una manganellata di troppo, per rischiare un’altra escalation di violenza.

Theresa May, il ministro dell’Interno britannico, lo ha capito ed è tornata in anticipo dalle vacanze appositamente per discutere il da farsi con la polizia. Così pure Nick Clegg, il vicepremier. Che oggi, prima di recarsi in visita a Tottenham per ispezionare l’entità dei danni e ascoltare le ansie dei residenti, ha espresso dure parole di condanna per gli eventi definendoli come “un’inutile e opportunistica serie di furti e violenze che non ha assolutamente niente a che vedere con la morte di Mark Duggan“. Sarà. Sta di fatto che in pieno pomeriggio un centinaio di giovani si sono scontrati con gli agenti di Scotland Yard nel popolare quartiere di Hackney, nell’East End di Londra. Risultato: vetrine rotte, qualche furto, traffico deviato. Ovvero lo stesso andazzo di domenica notte. A Endfield, Edmonton, Brixton, storico quartiere della comunità afro-caraibica dove i danni sono stati più intensi, gli attacchi sono stati repentini, coordinati grazie al sistema di scambio messaggi ‘privato’ dei BlackBerry più che dai social network d’ordinanza come Facebook o Twitter.

Se dunque la scala dei disordini non può certo essere paragonata al disastro di Tottenham, alcune zone di Londra ieri notte erano irriconoscibili: centinaia di agenti per le strade, decine di cellulari in continuo movimento a sirene spiegate, elicotteri di pattuglia nei cieli armati di potenti fari che illuminano a giorno i marciapiedi. “Sono disgustata da questa inutile violenza”, ha detto questa mattina, osservando i danni nel suo quartiere, Yvonne Clarke, 48enne residente di Brixton. Un sentimento spesso condiviso: “a che serve svaligiare i negozi? perché spaccare tutto senza motivo?”, si chiedono gli abitanti dei rioni colpiti. Il comandante della Metropolitan Police Adrian Hanstock taglia corto: “Qui non si tratta di un gruppo di persone che agiscono per conto o con il sostegno delle comunità locali; sono al contrario le comunità locali ad essere sotto attacco”.

Ma c’è di più. I tagli decisi dal governo, infatti, stanno finalmente iniziando a mordere. A Tottenham, ad esempio, vi sono 50 persone per ogni lavoro disponibile, le richieste di sussidi alla disoccupazione sono saliti del 10% rispetto all’anno passato e la disoccupazione ha colpito i giovani duramente. Contemporaneamente il budget della circoscrizione di Haringey dedicato ai servizi per i ragazzi è stato ridotto del 75%. Così otto ‘youth club’ su tredici, centri ricreativi giovanili, sono stati chiusi dal comune. “Ora non sappiamo più cosa fare e giriamo per la strada; e la polizia ci ferma”, ha raccontato un ragazzo nero al Guardian. E non è raro che gli incidenti scoppino proprio a causa di semplici controlli e perquisizioni. Ad Hackney è andata così. Lo spettro, ad ogni modo, viene dal passato. “Non vogliamo tornare negli anni ’80″, ha messo in guardia l’ex sindaco Ken Livingstone. Eppure il paragone inizia a fare capolino: scontri, manifestazioni di protesta, l’economia che ristagna, un premier Tory a Downing Street.


Financial Times ironizza: “Crisi? Berlusconi la guarda dalla spiaggia”.



“Berlusconi guarda la crisi dalla spiaggia”. Questo il titolo dell’ultimo impietoso articolo che ilFinancial Times dedica all’Italia e alla sua situazione economica. Dietro le parole, il doppio significato che il giornale britannico legge nel ruolo del governo del Cavaliere nella risoluzione della crisi. Da un lato, infatti, Berlusconi è fisicamente assente: “Alla riapertura dei mercati sarà al mare – scriveva ieri sera il Financial Times – ansioso di sapere se le misure annunciate in fretta e furia saranno sufficienti per fermare la marea”. Talmente ansioso, scrive ancora il Times, da essersi “rifugiato nella sua lussuosa villa, ufficialmente per festeggiare il 45° compleanno di sua figlia Marina”.

Dall’altro, e qui la critica diventa feroce, nessuno sembra stracciarsi le vesti per la sua assenza: “I critici hanno insinuato che la cosa sia poco rilevante, considerato che la politica economica è nei fatti dettata dall’esterno, nel momento in cui l’Italia diventa l’ultimo fronte nella battaglia per salvare l’Euro dalla crisi dei debiti sovrani”.

Italia commissariata? Sì, almeno a leggere la successiva impietosa analisi della situazione della borsa italiana, della considerazione del premier e della lettura che i media del Belpaese danno della crisi. Insomma, sembra dire il Financial Times, che il premier guidi o meno l’Italia in questo momento non fa alcuna differenza.


Berlusconi si fa pagare il conto. - di Peter Gomez.




Dopo soli tre anni di governo Silvio Berlusconi ce l’ha finalmente fatta. Con la fortunata collaborazione di buona parte del parlamento il premier é riuscito a portare il Paese, che lui diceva stare “meglio degli altri”, a un passo dal baratro e a minacciare di tirarsi dietro nel precipizio tutto il resto di Europa. Risultato: da domenica le decisioni che riguardano la nostra economia, come dimostrano il comunicato congiunto di Merkel e Sarkozy e la lettera di Trichet e Draghi, non vengono più prese a Roma.

Ovviamente il commissariamento del nostro esecutivo non sarebbe di per sé un gran guaio. Per i bilanci dello Stato meno Berlusconi e il suo futuro ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, fanno e meglio è. Purtroppo però una cosa sono i conti pubblici e un’altra le condizioni reali dei cittadini. E già dai prossimi giorni gli elettori avranno modo di rendersene conto.

All’invito a fare in fretta e a passare dalle parole ai fatti, il governo non potrà che rispondere con un decreto legge. Dentro ci saranno più tasse (molte di più) e meno stato sociale (molto di meno). Presto, poi, si inizierà a discutere seriamente di patrimoniale. Ma non tarata sui ricchi, come sarebbe giusto e logico. Visto che si é arrivati in ritardo di almeno 24 mesi, si dovrà fare cassa subito. Per questo verranno colpiti i ceti medi. Il risparmio delle famiglie, del resto, è l’unica voce del bilancio italiano che, nel bene e nel male, continua a dare qualche soddisfazione (i depositi bancari tra il 2007 e il 2011 sono aumentanti in valore reale del 4,7 per cento). I denari per non fallire il governo non saprà far altro che andarli a prendere lì. Come, lo sapremo presto.

Le chiacchiere, del resto, stanno a zero. La conferenza stampa congiunta di venerdì sera tra i due separati in casa Berlusconi e Tremonti, ha rappresentato l’acme della tragicomica pochade messe in scena in questi anni dai due anziani politicanti. Il tentativo di far passare l’idea che per rendere competitivo il Paese fosse necessario cambiare l’articolo 41 della Costituzione è stato un insulto all’intelligenza. E non solo per una questione di merito. Anche per una questione di metodo.

Se pure il premier e il suo ex commercialista avessero ragione (e non ce l’hanno), non possono far finta di non sapere che per cambiare la Carta fondamentale ci vogliono, a essere ottimisti, 18 mesi e due terzi dei voti del Parlamento. Troppo. Decisamente troppo per un paese che di fronte a sé ha un futuro da contare non i mesi, non in settimane, ma in giorni.

Certo se (e non è per nulla detto) la cura da cavallo imposta da Parigi e Berlino, con i relativi acquisti di titoli di Stato da parte della Bce, servirà per farci sopravvivere alla tempesta dei mercati, resta il non secondario problema di che cosa fare per tentare di risalire la china.

Mentre si discute di privatizzazioni, liberalizzazioni e di tagli ai costi della politica (tutti scelte doverose) l’intervento più semplice è la drastica riduzione del denaro contante che circola nel nostro paese. Eliminare il cash infatti vuol dire dare, da subito, un duro colpo a evasione fiscale e corruzione.

Come farlo? Rendendo obbligatorio da subito l’utilizzo di bancomat, assegni e carte di credito in tutte le transazioni economiche superiori ai 500 euro (un limite che poi andrà ritoccato progressivamente verso il basso).

Un provvedimento del genere, questo è chiaro, Berlusconi non lo digerirà facilmente. Nel 2008, al grido “vogliono uno Stato di polizia tributaria”, eliminò tutte le disposizioni del governo Prodi sullatracciabilità dei pagamenti (poi solo parzialmente reintrodotte). E lo fece tra gli applausi. Del suo elettorato, dei professionisti, degli industriali, delle organizzazioni di categoria e, ovviamente, di buona parte dei media. Pure di quelli che oggi gli danno addosso.

Ma allora il premier era un vincente. Era un mercante di falsi sogni a cui gli italiani avevano fatto scivolare il Paese in mano. Oggi quel Paese non c’è più. I sogni del mercante lo hanno distrutto. Restano solo i conti. Che, purtroppo per noi, andranno pagati tutti.




Il signore col cane che ci ha tolto le parole di bocca.



Intervento di un cittadino durante un'intervista a Francesco Pionati di Alleanza di centro. Il signore asserisce che il suo cane è più intelligente di Pionati, io aggiungerei anche più serio.
1) Un italiano che manifesta dissenso e disagio non rompe le scatole, e queste parole hanno scatenato una reazione
2) Le ultime parole di Pionati: "ecco cosa è l'italia di oggi"
Appunto. Un politico ascolta, dialoga, media, non insulta.


Chiusa l'inchiesta sulla P3 "Era una società segreta".


Rischiano il processo Cosentino, Dell'Utri e Verdini. Nella richiesta di fine indagine dei pm di Roma potrebbero esserci nuovi nomi

di MARIA ELENA VINCENZI
ROMA - Nuovi indagati, nuovi scenari. L'indagine sulla P3 del procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo e del sostituto Rodolfo Sabelli è chiusa. Nei prossimi giorni, forse già oggi, verranno notificati gli avvisi di conclusione indagine per un'inchiesta che aveva messo a dura prova la maggioranza. E non solo: nel registro degli indagati, oltre al nome del coordinatore del Pdl Denis Verdini, del senatore e fedelissimo di Berlusconi, Marcello Dell'Utri, e del sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, anche quelli di molti magistrati e di politici locali. Tra cui il governatore della Regione Sardegna, Ugo Cappellacci, e dell'ex sottosegretario all'Economia e coordinatore Pdl della Campania, Nicola Cosentino.

Una vera e propria "loggia" che aveva mani ovunque, quella che emerge dalla carte della procura di Roma, capace di arrivare in molti uffici di potere. Un ciclone che si è tirato dietro molti nomi illustri che nella scorsa estate hanno sfilato a piazzale Clodio, sentiti chi come indagato, chi come testimone. Insomma, una nuova massoneria, secondo l'accusa, che tra gli altri reati imputati ai singoli, ha contestato a tutti le violazioni della legge Anselmi sulle società segrete. Il sistema messo in luce da Capaldo e Sabelli si reggeva su tre personaggi chiave: il faccendiere Flavio Carboni, l'imprenditore Arcangelo Martino e il magistrato tributarista Pasquale Lombardi, tutti e tre arrestati l'8 luglio del 2010. Per loro la richiesta di rinvio a giudizio - prevista tra circa un mese - è quasi scontata. Ma sono attese molte altre sorprese.

Anni di indagini condotte dai carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Roma che hanno portato a scoperchiare un gruppo che si era occupato di diverse questioni. Cinque i filoni in cui era divisa l'enorme inchiesta. Iniziata con alcune indagini sull'affare dell'eolico in Sardegna, su cui sono stati fatti molti altri accertamenti. Capitolo, questo, che coinvolge Verdini e Cappellacci e che potrebbe riservare novità. Che peraltro sono attese pure per la vicenda del contenzioso fiscale della Mondadori: episodio sul quale il "clan" si diede parecchio da fare per prendere tempo, tentando di evitare che la causa con l'Erario della casa editrice della famiglia del presidente del Consiglio finisse davanti a magistrati "troppo rigidi". Obiettivo riuscito: si strappò il rinvio alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Poi, ancora, nascosti tra convegni di magistrati e pranzi a casa Verdini, ci sono il falso dossieraggio per cercare di screditare, attraverso false notizie su presunte frequentazioni sessuali di quello che oggi è il governatore della Campania, la sua candidatura. Tra gli elementi di indagine la questione dell'esclusione della lista Formigoni dalle amministrative e le pressioni esercitate su moltissimi magistrati per cercare di sapere con anticipo come la Corte Costituzionale avrebbe deciso sul Lodo Alfano. Insomma, mentre la procura di Napoli si occupa della P4 (che ha comunque diversi legami con l'inchiesta romana) che sfiora il procuratore aggiunto di Roma per un pranzo a casa dell'avvocato Luigi Fischetti con il ministro Giulio Tremonti e il suo braccio destro Marco Milanese, questo capitolo continua la sua strada. E la procura romana si appresta a chiudere una delle inchieste che ha tenuto i palazzi del potere con il fiato sospeso.


Berlusconi “marionetta”. Draghi? “Pinocchio”. La stampa tedesca contro l’Italia. - di Mauro Meggiolaro


“L’Italia gioca al teatrino della politica sull’orlo del precipizio”, titolava mercoledì scorso la Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), il più autorevole quotidiano tedesco, riferendosi alle scaramucce tra Berlusconi e Tremonti. Due attori che non avrebbero pensato agli “effetti delle loro performance sugli altri paesi dell’area Euro e soprattutto sui mercati finanziari”, contribuendo ad “alimentare le speculazioni sull’Italia”. Più che attori i politici italiani sarebbero però ormai delle “marionette” manovrate da Francia e Germania. Lo sostiene oggi il quotidiano liberale austriaco Der Standard: “il governo di Silvio Berlusconi non è più capace di agire”, scrive Thesy Kness-Bastaroli in un editoriale sulla crisi. “Venerdì, nel giro di poche ore, il primo ministro italiano e Giulio Tremonti hanno sostenuto esattamente il contrario di quello che avevano predicato nei giorni precedenti”. All’improvviso tutto è cambiato. La crisi, che fino a venerdì pomeriggio era “colpa dei mercati”, verso sera diventa una minaccia che “potrebbe portare al crollo dell’Italia”.

“Non è chiaro se le contromisure proposte dal governo basteranno a salvare il paese”, continua Kness-Bastaroli. “L’unica cosa certa è che ora l’Unione Europea, la BCE e anche la Germania reggono ormai le fila (della politica economica italiana, ndr). Berlusconi è diventato una marionetta nelle mani di decisori stranieri”. Per L’Italia, sempre per Der Standard, si tratta di un “declassamento politico”, perché “in futuro le decisioni sulla crisi italiana saranno prese sempre più spesso a Bruxelles o a Berlino piuttosto che a Roma”.

Sotto attacco finisce oggi anche il governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della BCE Mario Draghi. Il quotidiano economico tedesco Handelsblatt gli dedica la rubrica “Pinocchio del giorno”, riservata alle dichiarazioni mendaci di politici ed esponenti del mondo economico. Draghi, solitamente coccolato dal giornale di Francoforte, viene preso di mira per aver detto, il 15 febbraio scorso (in un’intervista alla Faz) che “l’Italia non è un paese a rischio finanziario”. “Il nostro paese non rischia gli effetti disastrosi della crisi economica globale e vi sono diversi motivi alla base di questo ragionamento”, aveva dichiarato Draghi. “L’indebitamento delle famiglie e delle imprese italiane è tra i più bassi del vecchio continente: un fattore che dovrebbe incoraggiare ad essere più ottimisti”.

Oggi l’ottimismo si è esaurito. Di fronte all’attacco dei mercati, l’unica via d’uscita sembra essere la rapida approvazione di misure drastiche per ridurre il debito e rilanciare la crescita economica. “E’ vero che non ci si potevano aspettare da Draghi dichiarazioni negative sull’Italia che avrebbero potuto generare allarme nei mercati”, scrive Handelsblatt, nella sua rubrica. “Ma il governatore della Banca d’Italia avrebbe fatto bene a tacere. Perché sono i mercati che decidono se un paese è o meno a rischio, non i governatori delle banche centrali”.

Ai commenti dei giornali iniziano ad aggiungersi oggi anche le dichiarazioni dei politici tedeschi. Il primo ad uscire allo scoperto è Rainer Brüderle, capogruppo dell’FDP (Partito Liberale Tedesco, alleato di governo della Merkel), con un’intervista al quotidiano scandalistico tedesco Bild Zeitung, il giornale più venduto in Europa. “Ora dobbiamo salvare anche l’Italia signor Brüderle?”, gli chiede la Bild. “No. L’Italia non è la Grecia. La struttura economica del paese è chiaramente più stabile e competitiva di quella greca”, risponde Brüderle. “L’Italia ce la può fare con le proprie forze”. Tradotto dal politichese, come si affrettano a fare la Süddeutsche Zeitung e Reuters, questo significa una sola cosa: Brüderle, almeno a parole, è contrario agli aiuti europei all’Italia. E i liberali tedeschi potrebbero decidere di ostacolare il lancio del salvagente finanziario da parte del governo Merkel.



Costi della politica: tutti i tagli che si possono fare subito.


Riduzione dei parlamentari: l'intesa è solo a parole

Vogliono la fiducia dei cittadini in questo momento nero? Se la guadagnino. Il governo, la maggioranza e la stessa opposizione non possono chiedere un centesimo agli italiani senza parallelamente (anzi: prima) tagliare qualcosa di loro. Conosciamo l'obiezione: non sarà un taglio di 1000 euro dallo stipendio reale (l'indennità è solo una parte) di deputati e senatori a risolvere il problema. Perfino se tutti fossero condannati a lavorare gratis risolveremmo un settemillesimo della manovra. Vero. Ma stavolta non hanno scelta: è in gioco la loro credibilità.
Per partire devono aver chiaro un punto: il perfetto è nemico del bene. In attesa di una ridefinizione generale dello Stato (campa cavallo) certe cose si possono fare subito. Alcune simboliche, altre di sostanza.


Sono stati presentati nove progetti di legge, dall'inizio della legislatura, per ridurre o addirittura dimezzare il numero dei parlamentari. Da destra, da sinistra... Dove sono finiti? Boh... Sono tutti d'accordo, a parole? Lo facciano, quel taglio. Senza allegarci niente. Sennò finisce come sempre finisce: la sinistra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla destra, la destra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla sinistra. E tutto resta come prima. Esattamente il giochino della riforma bocciata al referendum del 2006, che vedeva sì una modesta riduzione da 630 a 518 deputati, da 315 a 252 senatori (non il dimezzamento sbandierato: quella è una frottola) ma anche uno svuotamento dei poteri del Quirinale e un aumento dei poteri del premier. Dettagli che garantivano la bocciatura: la sinistra non l'avrebbe votato mai. Vogliono ridurre davvero? Trovino un accordo e lo votino tutti insieme: non servirà neanche il referendum confermativo. Sennò i cittadini sono autorizzati a pensare che sia solo propaganda. Come propaganda appare per ora la mega-maxi-super-riforma votata dal Consiglio dei ministri il 22 luglio. Se era così urgente perché non risulta ancora depositata e non se ne trova traccia neanche nel sito di Palazzo Chigi? Era sufficiente l'annuncio stampa? Forse erano più urgenti le vacanze.


Non si possono abolire subito le province senza ripartire parallelamente le competenze e i dipendenti? Comincino a toglierle dal tabù della Costituzione e a sopprimere quelle che hanno come capoluogo la capitale regionale destinata a diventare area metropolitana o non arrivano a un numero minimo di abitanti.


Vogliono inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione? Inizino col riconoscere, concretamente, che la cosa oggi più lontana dal pareggio sono le pensioni dei parlamentari: alla Regione Lazio i contributi versati sono un decimo di quanto esce per i vitalizi. Alla Camera e al Senato un undicesimo. Al netto dei reciproci versamenti addirittura un tredicesimo. Immaginiamo la rivolta: non si toccano i diritti acquisiti! Sarà, ma quelli dei cittadini sono già stati toccati più volte.
Deve partire una stagione di liberalizzazione? Partano introducendo una regoletta esistente nei Paesi più seri: un deputato pagato per fare il deputato può far solo il deputato. Un caso come quello di Antonio Gaglione, il parlamentare pugliese espulso dal Pd per avere bucato il 93% delle sedute e così assenteista («preferisco fare il medico»), da bigiare addirittura il passaggio chiave del 14 dicembre scorso che vide Berlusconi salvarsi per pochissimi voti dalla mozione di sfiducia, in America è impensabile. E così quelli dei tanti avvocati (uno su sette alla Camera, uno su sette al Senato) e professionisti di ogni genere che pretendono di fare l'una e l'altra cosa. Dice uno studio de «lavoce.info» che un professionista che continua a fare il suo lavoro anche dopo l'elezione «bigia» in media il 37% in più degli altri parlamentari. Basta.


Negano di intascare i soldi destinati ai collaboratori non messi in regola e pagati in nero? La riforma è già pronta e depositata: il deputato o il senatore fornisce al Parlamento il nome del collaboratore di fiducia e questi viene pagato direttamente dal Parlamento. Ed ecco che l'«equivoco infamante» su certe furbizie sarebbe all'istante risolto.


Il vero cambiamento, però, quella rivoluzionario, sarebbe la decisione di spalancare finalmente le porte alla legittima curiosità dei cittadini. Massima trasparenza: quella sarebbe la svolta epocale. Se un americano vuole vedere se «quel» deputato che si batte per la ricerca farmaceutica ha avuto finanziamenti, commesse, incarichi professionali da un'azienda di prodotti farmaceutici va su Internet e trova tutto. Se un tedesco vuol sapere se «quel» deputato ha guadagnato dei soldi fuori dal Parlamento e in che modo, va su Internet e trova tutto. Se un inglese vuole conoscere i nomi di chi quel giorno ha viaggiato su quel volo blu dal 1997 ad oggi o quanto spendono a Buckingham Palace per le bottiglie di vino va su Internet e trova tutto.


Da noi per avere le sole dichiarazioni dei redditi dei parlamentari un cittadino di Vipiteno o di Capo Passero deve andare a Roma, presentarsi in un certo ufficio della Camera o del Senato, dimostrare di essere iscritto alle liste elettorali e poi accontentarsi di sfogliare un volume senza manco la possibilità di fare fotocopie. Per non dire del Quirinale dove ogni presidente, per quanto galantuomo sia, pur di non smentire la cautela del predecessore, mantiene riservato il bilancio del Colle limitandosi a dare delle linee generali. Che magari sono sempre meno oscure ma certo sono lontanissime dalla trasparenza britannica.

Cosa risparmieremmo? Moltissimo. Un solo esempio: sapere che il passaggio dato su un volo di Stato a una ballerina di flamenco finirebbe all'istante sui giornali, spingerebbe automaticamente a ridurre se non a eliminare del tutto certi «piacerini». Lo stesso vale per certi voli elettorali vietati, come ricorda una dura polemica sui giornali, anche in Turchia. Il governo, la maggioranza e l'opposizione (per quanto possa incidere) ritengono di avere, sui costi della politica, la coscienza a posto? Pensano di avere tagliato il massimo del massimo e che non si possa tagliare di più? Mettano tutto online. Con un linguaggio non inespugnabile. Ma soprattutto, vale per la destra e per la sinistra, la smettano una volta per tutte di gettare fumo fingendo di fare confusione (confusione voluta, ipocrita, pelosa) tra il qualunquismo, la demagogia e il diritto di sapere dei cittadini. Che sudditi non sono.

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella



Sarkozy pronto a introdurre nuove tasse ma solo a carico dei ricchi. - di Leonardo Martinelli


Un prelievo fiscale compreso tra l'1 e il due per cento ai redditi superiori al milione di euro. E' la manovra allo studio del governo francese che, rispetto all'Italia, già "tartassa" i redditi alti con la patrimoniale.

Se Berlusconi volesse farsi venire qualche idea su come concretizzare la promessa di un pareggio di bilancio entro il 2013, non ha che da sbirciare a quello che sta architettando il vicino di bancoNicolas Sarkozy, suo alter ego (ma solo da certi punti di vista) in terra di Francia. Questa non ha certo gli stessi problemi di un’Italietta qualunque. Parigi resta ancora nel club dei “virtuosi” che possono vantare la tripla A di Standard & Poor’s sul debito pubblico. Sarkozy, però, non vuol finire come il premier italiano. E una delle soluzioni allo studio è quella di imporre una nuova tassa ai ricchi. In un Paese che già applica, senza gridare allo scandalo e in maniera costante dal 1982, la patrimoniale.

L’obiettivo attuale è introdurre una nuova imposta dell’1 o del 2% per le 30mila famiglie con entrate superiori al milione di euro annui. Il progetto è allo studio di un gruppo di esperti, convocati dal ministro dell’Economia François Baroin e da quello del Bilancio Valérie Pécresse. Stanno lavorando assiduamente per arrivare a definire la misura a fine mese. Si dovrebbe prendere come base il “reddito fiscale di riferimento” (Rfr), come dire quello imponibile sommato alle plusvalenze mobiliari e immobiliari e ai redditi percepiti all’estero. Il provvedimento non risolverebbe tutti i problemi di bilancio della Francia (nel caso dell’1% si incasserebbero annualmente 150 milioni di euro, se si optasse per il 2% 300 milioni), ma è un segnale ulteriore che Sarkozy darebbe alla porzione più facoltosa della popolazione (bacino tradizionale dell’Ump, il suo partito): siete voi a dover fare più sacrifici. E dopo che nei mesi scorsi il Presidente ha varato una riforma fiscale che non ha portato, come molti (compresi i milionari finanziatori della campagne di Sarkozy) speravano, a eliminare la patrimoniale.

Questa domenica l’economista di S&P responsabile della Francia, Michel Six, ha smentito chi afferma che la Francia potrebbe essere una delle prossime prede degli speculatori. Ha confermato che Parigi resta nel ristretto clan della tripla A, appena abbandonato dagli Stati Uniti. E che “la prospettiva è stabile”: non esiste l’intenzione di modificare il rating a breve. Nei giorni scorsi, però, la Borsa di Parigi è crollata e lo spread fra i bond francesi a dieci anni (Oat) con i Bund tedeschi ha raggiunto gli 87 punti: ancora lontano dai livelli di quelli italiani e spagnoli, oltre i 400, ma pur sempre da record per Parigi.

Intanto la situazione del budget pubblico preoccupa. La quota del debito sul Pil resta accettabile (85,4% il primo trimestre, ma già 2,2 punti percentuali in più rispetto ai tre mesi precedenti), ma quella del deficit era schizzata al 7,1% l’anno scorso. Ora Parigi vuole ritornare al 5,7% a fine anno, al 4,6% nel 2012 e, finalmente, al 3%, massimo consentito dall’Europa, nel 2013. Il problema è che la crescita economica non segue: venerdi’ prossimo saranno pubblicati i dati sull’evoluzione del Pil (Prodotto interno lordo) nel secondo trimestre, che dovrebbe limitarsi al +0,2%. Se non peggio. Sarkozy sa già che a settembre dovrà procedere a una manovra correttiva, se vuole conservare il favore dei mercati. Per ora le stime, all’interno della sua maggioranza di centro-destra, variano dai tre agli undici miliardi. E a pagare, apparentemente, saranno soprattutto i più ricchi.

Sarkozy crociato anti-milionari è davvero una novità. Subito dopo la sua elezione, nel 2007, introdusse uno scudo fiscale che limitava l’aliquota al 50% per tutti, anche per i più abbienti: un criticato regalino ai propri amichetti, come i miliadari Bernard Arnault e Liliane Bettencourt. Promise anche di eliminare la patrimoniale (a parte in Francia, esiste in Europa solo in Norvegia, nel Lichtenstein e in alcuni cantoni svizzeri). Ma, vista la situazione, ha cambiato opinione strada facendo: mica vuole finire come Berlusconi. Nel maggio ha fatto fuori lo scudo fiscale. Al tempo stesso ha rivisto la patrimoniale (Isf, Impot de solidarité sur la fortune, che si applica su tutti gli asset, immobiliari compresi), elevando il livello minimo di applicazione (da 800mila euro a 1,3 milioni) e riducendo le aliquote. Ma per recuperare quanto perso (anzi, lo Stato francese alla fine dei conti ci guadagna 400 milioni di euro di entrate fiscali all’anno) ha aumentato le tasse su donazioni e successioni e soprattutto quelle sugli immobili posseduti da stranieri in terra francese. A Parigi, uno su quattro proviene dal Belpaese. Insomma, alla fine Sarkozy farà pagare nuove tasse a tutti i ricchi. Pure a quelli italiani.