venerdì 2 settembre 2011

Terra Santa: corso di formazione per parlamentari bipartisan. - di Cecilia M. Calamani


Sembra rientrata con un rapido dietrofront la polemica sulla apertura ritardata di Montecitorio che avrebbe visto l’aula riprendere i lavori non prima del 12 settembre per permettere a 170 tra deputati e senatori di partecipare al pellegrinaggio in Terra Santa guidato da monsignor Rino Fisichella,cappellano della Camera e presi

dente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione. Ieri, infatti, la conferenza dei capigruppo di Camera e Senato ha ridotto di qualche giorno le lunghe ferie di deputati e senatori, fissando per il 6 settembre la riapertura della Camera e per il 7 quella del Senato. Un contentino evidentemente sufficiente a placare gli animi di chi ha contestato duramente, in un momento così critico per il paese, quasi un mese e mezzo di fermo dei lavori parlamentari.

Inaugurato nel 2004, il pellegrinaggio parlamentare in Terra Santa viene organizzato ogni anno dal vicepresidente della Camera, il ciellino Maurizio Lupi. Quest’anno l’iniziativa ha suscitato un inaspettato successo: la rosa dei partecipanti è ricca di nomi illustri e, soprattutto, bipartisan. Pregheranno uniti nei luoghi sacri del cristianesimo il presidente del Senato Renato Schifani, il neosegretario del Pdl ed ex ministro della Giustizia Angelino Alfano, il ministro agli Affari regionali Raffaele Fitto, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia Carlo Giovanardi, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, l’ex ministro Pd Livia Turco, l’immancabile Paola Binettidell’Udc. Ma non mancheranno parlamentari della Lega e persino dell’Idv. Una compagine politicamente divisa ma unita dalla comune fede nel creatore.

Se il devoto Lupi avesse predisposto la consueta kermesse nel mese di agosto, probabilmente la notizia sarebbe finita su qualche trafiletto delle pagine più interne dei quotidiani e avrebbe suscitato meno attenzione del consueto gossip estivo. Invece la settimana scelta quest’anno, dal 3 al 9 settembre, ha inizialmente portato a ritardare la riapertura delle Camere in segno di «rispetto» verso quei parlamentari che intendono partecipare al pellegrinaggio, come si è affrettato a spiegare nei giorni scorsi Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera. La sua motivazione ha scatenato un baillamme di proteste e reazioni dai toni tutt’altro che teneri, al punto che il Codacons ha rivolto un appello al papa – non ai presidenti di Camera e Senato, notate bene – affinché convincesse i parlamentari a dirottare il pellegrinaggio dalla Terra Santa a San Pietro per consentire la ripresa dei lavori parlamentari il prima possibile in considerazione dello stato di oggettiva difficoltà in cui versa il paese. E invece l’anticipo della riapertura è arrivato anche senza scomodare il papa.

Ma la sostanza resta, a prescindere dalla data in cui ora verrà spostato (come ha promesso lo stesso Lupi) il pellegrinaggio. Primo, perché nella situazione attuale appare comunque inopportuno sospendere i lavori parlamentari per oltre un mese (3 agosto – 6 settembre). Secondo, per la natura stessa del viaggio e le sue implicazioni politiche. I parlamentari, come tutti i lavoratori, sono liberi di organizzare le loro ferie in un viaggio di piacere collettivo, e che questo si svolga a Parigi, New York o Gerusalemme non fa alcuna differenza. Se poi il viaggio di piacere è in realtà un pellegrinaggio di preghiera nulla cambia, può al più destare qualche ironico sorriso.

Il pellegrinaggio organizzato da Lupi e guidato da Fisichella, un elemento politico di spicco all’interno della Santa Sede, non è un semplice viaggio, seppur a carattere religioso, tra colleghi in ferie. Ha infatti uno scopo ben preciso. È stato chiaro, a tal proposito, lo stesso Fisichella, secondo cui «è un’esperienza molto positiva perché serve a far vivere ai parlamentari un momento particolare della loro esperienza di fede. Visitare i luoghi Sacri al nostro Credo li invita a riflettere sull’essenziale della vita, così da affrontare i problemi del Paese con intensità ed efficacia». Ma lo è stato ancora di più Maurizio Lupi: «In un momento in cui il Santo Padre Benedetto XVI esorta da Sidney i giovani a non escludere religione e fede dalla vita pubblica, ci sembra importante compiere questo pellegrinaggio. Un piccolo segno di testimonianza fatto da persone che hanno una responsabilità particolare».

La religione (cattolica), dunque, rivendica sempre più un ruolo pubblico, alla faccia del principio di laicità dello Stato. I nostri parlamentari non andranno in Terra Santa per un’esigenza personale di fede, bensì per assorbire maggiormente i valori cristiano-cattolici da portare poi nelle aule. Andranno lì per “testimoniare” collettivamente la presenza di dio nel parlamento italiano, per raccomandarsi a lui affinché li aiuti a svolgere al meglio (ossia secondo i precetti di Santa Madre Chiesa) le loro funzioni al servizio del paese. Tant’è che il nostro parlamento ha inizialmente tarato la riapertura delle Camere sulla data del pellegrinaggio, neanche fosse un irrinunciabile corso di formazione. Avrebbe agito allo stesso modo se i 170 si fossero organizzati per una crociera ai Caraibi? La risposta è scontata.

In tutto ciò una notizia positiva, abituati come siamo a pagare i lussi della politica, c’è: come ha precisato lo stesso Lupi, «ciascuno ha pagato per sé di tasca propria» i 1500 euro della quota di partecipazione. Davvero commovente.

http://www.cronachelaiche.it/2011/08/terra-santa-corso-di-formazione-per-parlamentari-bipartisan/


«Sabina e Lele, tutti sistemati Adesso Silvio parli con me». di Fiorenza Sarzanini.


Sabina Began Tarantini: «Lui sa che prendo i soldi da Eni e Finmeccanica, a me ne servono 5 per domani»

NAPOLI -- «Sabina è sistemata tutta la vita, se vedi la sua casa dici non è possibile perché sembra la casa di Onassis... Lele Mora ha avuto 4 milioni di euro e Emilio Fede se n'è intascati 800... Ed io non ho mai chiesto un c...! Io sono sempre andato, attraverso te, con i piedi di piombo... Ora mi fai andà a parlà con lui, perché io sono sicuro che io e lui, davanti, da soli, a me lui non mi dà 500, perché lui mi conosce, sa che Gianpaolo Tarantini prende i soldi dall'Eni, prende i soldi da Finmeccanica... lui lo sa che io li prendo, a me ne servono 5 domani? Lui lo sa che io ne prendo 20, perché lui lo sa come so capace io a prenderli i soldi, io li ridò tutti e 5». È il 17 luglio scorso. Gianpaolo Tarantini ha appena scoperto che Valter Lavitola ha preso da Berlusconi 500 mila euro destinati a lui, ma gliene ha consegnati soltanto 100 mila. Lo chiama e al telefono la sua rabbia esplode. Lavitola è in Sudamerica, Tarantini insiste perché gli faccia incontrare il premier. La Sabina di cui parla dovrebbe essere la Began, soprannominata l' Ape regina proprio per essere stata una delle «favorite» del presidente del Consiglio. Fu proprio lei - più volte indicata come una delle «reclutatrici» per le feste a palazzo Grazioli e a Villa Certosa - a far incontrare l'imprenditore barese con Berlusconi. E Tarantini la prende ad esempio per quello che anche lui vuole ottenere. Una strategia che condivide con sua moglie Nicla, visto che la donna - indicata nell'ordinanza come amante di Lavitola - racconta nelle conversazioni intercettate di essere già stata nella residenza romana di Berlusconi per avere soldi e chiede di poterci tornare. Un piano andato a buon fine visto che - come rivela Tarantini nel memoriale che sarà consegnato oggi ai magistrati di Napoli dal suo nuovo legale Alessandro Diddi - con Berlusconi ci sono stati due incontri oltre a quello con la moglie: uno a marzo, l'altro agli inizi di agosto proprio per ottenere l'intera cifra.

«Lele Mora gli fa schifo»
Nella telefonata del 17 luglio Tarantini rivendica di voler trattare direttamente con Berlusconi, ma Lavitola cerca di convincerlo a non fare mosse azzardate, sottolineando come un incontro ci sia già stato.
Lavitola: Gianpà scusa, ma noi ci siamo andati e quello là ti ha fatto così.
Tarantini: E tu gli hai detto 500, perché se parlavo io gli chiedevo 3 milioni e quello diceva "si". Ti assicuro.
Lavitola: Gianpà se tu gli chiedi 3 milioni, quello ci cacciava fuori a tutti e tre
Tarantini: Ma che cosa dici? Ma tu non... con chi stai parlando, ma tu lo conosci a quello?
Lavitola: no, io non lo conosco, per fortuna che lo conosci tu
Tarantini: e allora agli altri sì e a me no? Io so' il coglione de tutta la storia?
Lavitola:
ma no, Gianpà io non ci credo agli altri, di tutte queste...
Tarantini: come non ci credo... stanno negli atti i bonifici a Lele Mora
Lavitola: ma lascia perdere, ma tu lo sai qual è il rapporto di Lele Mora con lui o non lo sai?
Tarantini: quale, che gli faceva schifo, te lo dico io che vivevo là dentro, io dormivo a casa sua... gli faceva schifo, gli faceva vomitare
Lavitola: vabbè Gianpà, lascia stà, allora c'hai ragione tu.
Tarantini: allora la casa di Sabina è una finta. Cioè, la casa di Sabina, dove vive ora, è finta.
Lavitola: ma non lo so, io la casa di Sabina non lo so, comunque io ti dico che per quella che è la mia esperienza, tu vai là e gli vai a chiedere tre milioni, quello ti caccia fuori a pedate.
Tarantini: ma io non glieli chiedo. Io a lui gli voglio dire una cosa, mi voglio mettere di fronte e gli voglio dire: «Presidè io non c'ho una lira, sono disperato, sto facendo sta c... di operazione, non ci sta, nel frattempo, per favore, mi vuoi mantenere come Cristo comanda, senza avere rotture di c..... di nessun genere?» Mi deve dire: «No»? Io non ci credo
Lavitola: Gianpà, quello che cosa ti deve dire? Ti deve dire: «lo sto facendo», com'è vero che lo sta facendo
Tarantini: oh! Ma io non voglio avere rotture di c...
Tarantini si mostra preoccupato di avere subito i 500 mila euro. Lavitola gli assicura di averli messi «su un conto chiuso in Uruguay». Tarantini lo invita a non sottovalutarlo: «Ricordati che io a vent'anni andavo in barca con D'Alema e a trenta dormivo da Berlusconi»

Emilio Fede
Emilio Fede
Tre incontri dal premier
Nel memoriale Tarantini racconta di aver conosciuto Lavitola «perché i nostri figli vanno a scuola insieme» e di avergli manifestato le sue difficoltà economiche. Ammette di aver ottenuto i 20 mila euro al mese e poi dice di aver chiesto di vedere Berlusconi anche se cerca di negare ogni intento ricattatorio. Poi racconta nel dettaglio i tre incontri: «Il primo fu organizzato nel novembre 2010 a palazzo Grazioli e partecipò soltanto mia moglie; Berlusconi si mostrò dispiaciuto per il clamore mediatico subito dalla mia famiglia. Inizialmente il ruolo di Lavitola mi sembrò genuino, poi assai meno sincero. L'impossibilità di parlare direttamente con il Presidente, per molteplici e intuitive ragioni, mi ha costretto a usarlo come tramite. A marzo 2011, dopo molte insistenze, ci accompagnò ad Arcore. Io ero emozionatissimo e lo ringraziai per gli aiuti che ci faceva pervenire». Il terzo incontro avviene a palazzo Grazioli, Tarantini ha saputo pochi giorni prima che Lavitola si è tenuto 400 mila euro: «Chiesi personalmente scusa al Presidente per aver dubitato della sua generosità. Mi confermò di aver dato già da tempo la somma a Lavitola, dando immediatamente incarico di consegnarla a mia moglie che poteva iniziare un'attività lavorativa».

I pm di Bari e la D'Addario
Nella conversazione del 17 luglio Tarantini si mostra informato su quanto accade a Bari per l'inchiesta in cui è indagato per favoreggiamento della prostituzione per aver portato trenta ragazze a pagamento alle feste di Berlusconi nel 2009. Il giorno precedente sul quotidiano Libero è stata pubblicata un'intervista a Patrizia D'Addario che dice di essere stata «usata» per danneggiare Berlusconi.
Tarantini: è stato fatto per non chiudere le indagini, per non mandare l'avviso di conclusione, così non escono intercettazioni.
Lavitola: che c'entra questo?
Tarantini: perché così riapre il caso, riapre l'indagine.
Lavitola: il pm?
Tarantini: e certo!
Lavitola: embè, è che vantaggio ha il pm a riaprire le indagini, scusa.
Tarantini: no, il vantaggio ce l'abbiamo noi. L'ha fatto apposta Laudati (il procuratore di Bari ndr ) questo, perché, si sono messi d'accordo: nel momento in cui riaprono l'indagine e non mandano l'avviso di conclusione, non escono ... non diventano pubbliche le intercettazioni.
Lavitola: ah, dici tu.
Tarantini: sì e pure Nicola l'ha detto, pure Perroni l'ha detto oggi.

Le ragazze e i soldi
Il Nicola di cui parla Tarantini è l'avvocato Nicola Quaranta che lo difende insieme al collega Giorgio Perroni. Di loro Tarantini parla in altre due conversazioni agli inizi del luglio scorso proprio con riferimento ai rapporti con «il Procuratore».
Tarantini: ho parlato ora con Nicola, di Bari, l'avvocato che ha parlato l'altro giorno... ti dissi che andava a parlare al Capo... là c'è un problema grosso... per telefono come faccio a dirti ste c... di cose... hanno fatto un putiferio... hanno trascritto tutto, cosa che non dovevano fare...
Lavitola: ah...
Tarantini: le mie e le sue e quello lui, il Capo stava cacato nelle mutande, ha detto ti prego, aiutatemi... allora siccome questo dice che non se la può più tenere questa cosa finale, la deve per forza mandare... e se và... dice che non è quello che è uscito il mese scorso, due... sei mesi fà, dice che sono terrificanti... gli ha spiegato anche tutto gliele ha letto, si è molto aperto, gli ha detto tutto... tu mi devi fare un piacere, perché tra l'altro lui gli ha detto a Nicola che lui non poteva farlo, o meglio non sapeva come farlo, di avvisare l'avvocato di Milano, di Roma, quello mio...
Lavitola rifiuta e in una successiva conversazione Tarantini, riferendosi al procuratore aggiunge: «Lui ha detto a Nicola che il suo ruolo è fallito perché lui era convinto di archiviarla». E poi spiega perché sono preoccupati per le intercettazioni di Bari che si riferiscono a Berlusconi: «Ci sono telefonate tra me e le ragazze in cui loro mi dicono che lui il giorno prima gli ha dato i soldi».


L’obiettivo della destra? Annientare la Cgil. - di Piero Sansonetti


Annientare la Cgil sta diventando il principale obiettivo della destra. Dove per destra non si intende semplicemente Silvio Berlusconi o il Pdl, ma una galassia molto più complessa che comprende parte del berlusconismo (ma non tutto), l’intero gruppo delle “Quattro Emme” Montezemolo-Marchionne-Monti-Marcegaglia, gran parte dell’area De Benedetti (ma non tutta), e ancora buona parte del terzo polo (in particolare i gruppi che si raccolgono attorno a Casini) e un pezzo non indifferente del Pd (i miglioristi, una pattuglia consistente dei quarantenni, i veltroniani, la corrente di Letta e settori consistenti della ex Dc). A questo schieramento composito e assai vasto si unisce – con ruolo anche dirigente – quasi tutta la grande stampa. E si aggiungono – seppure in forme e con ruoli particolari e non facilissimi da capire – la Uil e anche la Cisl.

Chi resta a difesa del vecchio sindacato di Di Vittorio, Trentin e Cofferati? Sel di Vendola, l’Italia dei Valori di Di Pietro e – al momento: e questa in parte è una sorpresa – il pezzo di Pd che si riconosce nel segretario Bersani compresa una buona fetta di dalemiani.

La partita è una grandissima partita. L’esito avrà un peso determinante nel disegnare i rapporti politici ed economici della società italiana nei prossimi dieci o vent’anni. I giornali tendono a tenere un po’ in secondo piano questo scontro, perché i giornali preferiscono – da sempre – anche per loro limiti intellettuali (non tutto è disegno, manovra, perfido complotto…) occuparsi di questione morale, di gossip, di scontri personalistici nel ceto dirigente: ma la vera battaglia che è aperta oggi in Italia è questa. E il grande interrogativo è tutto nella domanda: ne uscirà viva e libera la Cgil, o sarà uccisa dai suoi nemici, oppure presa prigioniera e messa in condizione di non nuocere?

Le prove generali furono fatte lo scorso anno, sempre in estate, ai tempi dell’attacco di Marchionne a Pomigliano. Fu una specie di “prova in palestra”, con un bersaglio – e cioè la Fiom – più limitato e più facilmente contrastabile. Non ci fu una vittoria piena, ma la Fiom uscì ammaccata e la Cgil si fece mettere fuori gioco.

Ora l’attacco è al bersaglio grosso: direttamente alla Cgil cioè al più grande sindacato europeo. L’occasione è stata la manovra economica. Il governo, per compiacere gli industriali – che però non lo hanno ricambiato con molta gentilezza – ha introdotto nella manovra la demolizione all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (quello che vieta i licenziamenti immotivati). Probabilmente questa misura non ha nessuna ragione economica forte, ma una fortissima ragione simbolica: cancellare, di fatto, l’articolo 18, vuol dire chiudere la lunga stagione sindacale iniziata alla fine degli anni ’60 e che aveva avuto la sua prima e più clamorosa sanzione, ai tempi del ministro Brodolini, proprio nell’approvazione dello Statuto dei lavoratori. Lo Statuto era quell’atto legislativo che di fatto poneva i diritti essenziali dei lavoratori alla base delle relazioni industriali. E rendeva il profitto una variabile dell’attività imprenditoriale. Chiudere con quella stagione vuol dire rovesciare lo stato delle cose: tornare a porre il profitto come pilastro dell’attività economica e i diritti dei lavoratori – ed eventualmente i loro salari – come una variabile dipendente del profitto.

L’idea che ha in mente la destra dunque è chiarissima: entrare in una fase della modernizzazione post-socialdemocratica, liberandosi dai meccanismi della contrattazione sindacale che hanno caratterizzato i sessant’anni precedenti. La destra ritiene che il superamento del compromesso socialdemocratico debba prevedere, appunto, la fine dell’epoca dei diritti. Le relazioni tra dipendenti e imprenditori non dovranno più essere regolate dal conflitto, dai rapporti di forza e da una griglia intoccabile di diritti assoluti, ma dovranno, sempre, dipendere, dall’interesse generale, cioè dalla necessità del profitto di riprodursi e di aumentare, perché solo in questo modo è possibile produrre sviluppo crescente e dunque far crescere la società e dare impulso alla modernità.

L’idea che hanno in mente la Cisl e la Uil (in particolare la Cisl, che su questo terreno ha una vecchia e gloriosa tradizione di pensiero e di elaborazione politica) è che questa linea della destra vada non fronteggiata facendo muro, ma, in qualche modo, utilizzata e modificata. Come? Puntando alla “cogestione”. Cioè a una condizione di relazioni industriali nella quale la rinuncia ai diritti e l’accettazione dell’interesse universale del profitto sia controbilanciato da una partecipazione dei dipendenti agli utili. È un vecchio pallino della Cisl: io lavoratore sono disposto a rinunciare a qualcosa, ma perché il tuo interesse di imprenditore assuma il ruolo di interesse generale, tu devi accettare che io sia compartecipe di questo interesse. Quindi i diritti vengono sacrificati sull’altare di una partecipazione al profitto.

Il problema è: quale idea ha in mente la Cgil e quella parte di sinistra che ancora resiste a fianco del vecchio sindacato? Se l’unica moneta da spendere è la difesa ad oltranza del passato, non è una gran moneta, e la Cgil allora è destinata ad essere sconfitta.

Proviamo a riassumere con una immagine la battaglia che si è aperta. La destra vuole riportare il funzionamento dell’economia e della produzione all’800. Cioè cancellare il ’900 delle lotte sindacali, degli ideali socialisti e dell’affermazione dei diritti. È possibile contrastare questa spinta reazionaria con una forza d’urto conservatrice che si attesta sulla dichiarazione di principio: “Non ci muoviamo dal Novecento”?

Probabilmente no. La pura conservazione è sempre destinata alla sconfitta di fronte a una ondata reazionaria forte, sostenuta da settori importanti di opinione pubblica e che ha fatto breccia in pezzi consistenti dello schieramento politico di sinistra Per opporsi alla destra occorre una idea di modernizzazione del lavoro che oggi la sinistra non sembra avere.

Cosa vuol dire modernizzazione? Probabilmente c’è una sola strada per opporsi all’“ottocentismo” di Montezemolo e soci: decidersi a scindere il diritto al reddito dal diritto al lavoro. Non considerarli più la stessa cosa. E quindi ricomporre l’unita del mondo del lavoro, che oggi è irrimediabilmente compromessa dalla divisione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari. Distinguere il diritto al reddito dal diritto al lavoro vuol dire chiamare la politica – e in particolare la sinistra, ma no son solo – a entrare a pieno titolo nella discussione tra imprese e lavoratori. Perché solo la politica può impegnarsi ad affermare il diritto al reddito per tutti, lasciando così lo spazio per una battaglia sul lavoro che possa svolgersi in termini del tutto nuovi e con tutt’altra forza e tutt’altra libertà. Per farlo bisogna che il sindacato rinunci a qualche certezza, a qualche “casamatta” del passato. Proprio così: capisca che se non esce dal Novecento, se non si spinge nel nuovo secolo, i padroni lo trascineranno indietro di cent’anni.

http://www.glialtrionline.it/home/2011/09/01/lobiettivo-della-destra-annientare-la-cgil/