lunedì 2 gennaio 2012

"Pressioni per trasferire Provenzano." Ardita depone al processo Mori. - di Giuseppe Pipitone






Il magistrato, ex dirigente dell'Amministrazione penitenziaria, ha testimoniato al processo per il mancato arresto del boss corleonese a Mezzojuso nel 1995. Notizie false vennero diffuse per togliere Provenzano dal carcere di Terni, compreso un litigio inesistente con il figlio di Riina. Emerge l'esistenza di un inquietante protocollo riservato tra Dap e Sisde.
Ci sarebbe stata una vera e propria strategia occulta per spostare Bernardo Provenzano dal carcere di Terni. E’ quanto emerso dal racconto dell’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita, che ha deposto in aula come testimone nel processo a carico di Mario Mori e Mauro Obinu, i  due ufficiali dei carabinieri sono accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per il mancato arresto dello stesso Provenzano a Mezzojuso nel 1995.

Ardita ha risposto alle domande dell’accusa, rappresentata dai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, raccontando come già nelle ore immediatamente successive all’arresto del boss di Cosa Nostra, avvenuto undici anni dopo, l’11 aprile del 2006, alcuni funzionari del Gom (il Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria) avessero consigliato di sistemare Provenzano nel carcere di L’Aquila.

“Nel carcere abruzzese però – ha detto l’ex dirigente del Dap – era già detenuto un altro super boss, Piddu Madonia, per cui la scelta naturale era mettere Provenzano nel carcere di Terni, dove si erano recentemente fatti importanti investimenti a livello di sicurezza in previsione del trasferimento di Totò Riina. Trasferimento che però non si concretizzò, per cui Terni offriva una sicurezza massima che non avrebbe consentito a Provenzano di entrare in contatto con nessun boss di primo livello.”

Poco tempo dopo però, sul quotidiano La Repubblica comparve la notizia secondo la quale Giovanni Riina, secondogenito del capo dei capi, all’entrata di Provenzano nel carcere di Terni avrebbe esclamato: “Questo sbirro qui l’hanno portato?”. Fatto che  – ha raccontato il magistrato, che di queste cose scrive nel libro Ricatto allo Stato –  mi sorprese non poco dato che proprio in quei giorni ero andato in visita nel carcere di Terni e il direttore non mi aveva riferito nulla in proposito. Con una rapida chiamata ho subito verificato come quella notizia fosse destituita da ogni fondamento”.

Nonostante la notizia dei dissidi tra Provenzano e il figlio di Riina fosse falsa, iniziarono delle continue pressioni sull’allora dirigente del Dap per spostare Provenzano da Terni. “Si formò un vero e proprio carteggio sulla mia scrivania – ha detto Ardita – con richieste di trasferimento di Provenzano. Iniziarono anche a fioccare gli esposti anonimi contro la mia persona. Provenzano però rimase a Terni ancora per un altro anno. Non c’era un reale motivo per spostarlo.”

Successivamente sui quotidiani venne diffusa un’altra circostanza non vera, ovvero che al boss corleonese era stata servita, il giorno del suo compleanno, una vera e propria torta augurale. “Notizia anche questa sostanzialmente falsa – ha commentato il magistrato catanese – Si era parlato di una torta consegnata a Provenzano per il suo compleanno, in realtà si trattava di una crostatina piccola, di circa 80 grammi, confezionata dalla Mulino Bianco (sic) e servita a tutti i detenuti nel menù di quel giorno”.

A quel punto tenere Provenzano ancora nel carcere di Terni non era proponibile e il boss mafioso venne quindi trasferito a Novara. Il teste, raccontando quanto accaduto, ha fatto notare che fosse evidente l’interesse da parte di qualcuno per interrompere la detenzione di Provenzano nel carcere umbro.

In precedenza anche Massimo Ciancimino aveva raccontato ai magistrati dettagli sulla carcerazione di Provenzano. In particolare Ciancimino Junior riferì che subito dopo l’arresto di Provenzano il signor Franco – ovvero il misterioso personaggio legato ai servizi che sarebbe stato il continuo contatto di Vito Ciancimino con apparati dello Stato – gli avrebbe rivelato l’episodio dello screzio tra Riina Junior e Provenzano suggerendogli di diffonderlo il più possibile. E sui giornali dunque la notizia sarebbe arrivata grazie al figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo.

Un particolare in più per scorgere un preciso disegno occulto volto a spostare il boss corleonese dal penitenziario ternano. Ardita però, rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale di Mori, e del presidente della corte Mario Fontana, non ha saputo indicare chi potesse avere l’interesse d’interrompere la detenzione di Provenzano a Terni.

Dall’audizione dell’ex capo dell’ufficio detenuti però è emersa anche la possibile e inquietante esistenza di un protocollo tra il Dap e il Sisde. Una sorta di vero e proprio “accordo” ufficiale avente anche natura informativa. Riguardo all’esistenza di tale protocollo tra l’ufficio detenuti e i servizi segreti i magistrati hanno fatto riferimento più che altro ad alcuni dirigenti del Dap, come l’attuale pm di Palermo Salvatore Leopardi, sotto processo a Roma per questioni relative al periodo in cui era in servizio proprio all’ufficio detenuti. Dal 2001 al 2006 il Sisde è stato diretto proprio da Mario Mori.

Nella sua deposizione, Ardita ha anche riferito di un intervento del ministero della Giustizia, nel 1992, all’epoca delle stragi Falcone e Borsellino, per impedire l’ampliamento del carcere duro a migliaia di mafiosi detenuti, provvedimento richiesto dal Dap stesso.



http://www.iquadernidelora.it/articolo.php?id=821

Messaggio di fine anno 2011 di Beppe Grillo..




"Auguri a tutti per l’anno 2012.  Che sia un anno povero, ma bello!

Il prossimo anno deve essere l’anno del ricordo. Dobbiamo ricordare ogni viso,
 ogni tratto dei politici che hanno distrutto l’Italia. Dobbiamo, con un po’ di 
disgusto, ricordare tutte queste facce di merda che continuano a dare giudizi e
consigli in televisione. Lo so, non è bello, dà il vomito, MA A VOLTE 
RITORNANO e bisogna ricordarsi di loro per impedire che si ripresentino alle 
elezioni del 2013.
Il Paese è ormai devastato: finanza, società, lavoro, impresa, ambiente. Per 
salvarsi i politici cercano di dividerci. Tutti contro tutti. Ogni giorno c’è una 
nuova classe da demonizzare, i pensionati, i dipendenti statali, gli evasori, i 
corruttori, i negozianti, i tassisti. La classe politica va azzerata e isolata.  Per 
un Casini o un Fassino, un Cicchitto o un Brunetta va previsto l’isolamento 
sociale. Gli italiani non devono più avere rapporti con questa gentaglia. A 
Varese un negoziante ha avuto un’idea straordinaria. Ha appeso un cartello 
fuori dal suo negozio con l’avviso “Vietato l’ingresso ai politici”. Questa azione 
va replicata nei negozi di tutta Italia e non solo, anche nei taxi, nei cinema, 
in qualunque esercizio pubblico. Chi ha cancellato il futuro di almeno due 
generazioni di giovani e costretto i vecchi a lavorare fino alla morte non va 
dimenticato, non va lasciato libero di fare altri danni. Il secondo Paese 
europeo per emigrazione dopo la Romania è l’Italia. Laureati, diplomati, 
professionisti, quasi tutti giovani hanno lasciato la nostra terra. In compenso 
abbiamo i parlamentari più vecchi d’Europa. Nel blog e in una pagina Facebook 
Vietato l'ingresso ai politici” ho pubblicato una locandina da appendere 
ovunque vogliate. La faccia è quella tipica del politico italiano, una faccia da 
culo. Lo riconoscete anche da lontano.
Siamo tutti preoccupati per quello che può succedere. Di sicuro aumenterà la 
disoccupazione e entreremo in una dura recessione. Ci saranno pochi soldi in 
giro e se li terranno ben stretti le banche. Ma può essere anche un anno con i 
suoi lati positivi. Molti giornali di partito chiuderanno dopo aver raccontato 
balle per decenni con i soldi pubblici. Consumeremo di meno e quindi 
inquineremo di meno. Il prezzo degli immobili precipiterà come è avvenuto in 
Spagna e in Inghilterra. La febbre del mattone scenderà e salveremo qualche 
prato, qualche angolo d’Italia. Può essere l’Anno del Risveglio, forse un po’ 
brutale per alcuni, in cui ci renderemo conto che non possiamo delegare le 
nostre vite con una croce su un simbolo elettorale, ma dobbiamo informarci, 
partecipare in prima persona alla cosa pubblica, dall’inceneritore sotto casa, 
alle leggi vergogna come lo Scudo Fiscale. Partecipare o essere schiavi. 
Capiremo che questa è una scelta, non un destino. E dipende da noi.
Vorrei richiamare alla realtà il professor Monti. Ha la faccia dell’onest’uomo, 
istruito, onesto. Fa parte di quella cerchia di persone dal tratto nobile che non 
si è mai esposta contro il Sistema. E ne ha sempre goduto i benefici Lui, come 
altri, avrebbe potuto mettersi in gioco in questi anni e non lo ha fatto.  Per 
questo lo hanno scelto. Le prime misure che ha preso hanno favorito un solo 
soggetto: le banche. Il suo vice di fatto è Passera, l’ex amministratore 
delegato di Banca Intesa. Se due indizi fanno una prova, Monti è lì persalvare 
il culo alle banche, non all’Italia. Le imprese non hanno liquidità, i clienti non 
pagano e il primo a non pagare è lo Stato. Passera ha proposto di pagare le 
imprese con titoli di Stato. Geniale, il numero di imprenditori suicidi salirà. Lo 
Stato prima di chiedere alle imprese di pagare le tasse deve rimborsare i suoi 
debiti nei loro confronti, a iniziare dall’Iva. Il Paese va rifondato e per farlo 
bisogna partire dalle fondamenta, dalla Costituzione. QuestaCostituzione 
garantisce i partiti ed esclude i cittadini. Il cittadino non può fare nulla. Non 
può indire un referendum propositivo. Se propone un referendum abrogativo è 
necessario raggiungere un quorum, se lo vince, come per la cancellazione del 
nucleare e dei finanziamenti pubblici ai partiti, la sua volontà è ignorata. Non 
ha il diritto di vedere discusse le proposte di leggi popolari. Non può neppure 
scegliere il candidato alle elezioni politiche. Se tutto questo è costituzionale 
questa Costituzione va cambiata al più presto con il concorso dell’intera 
Nazione come sta avvenendo In Islanda con votazioni on line. Fuori i partiti 
dalla democrazia, dentro invece i Movimenti e la partecipazione diretta dei 
cittadini." Buon anno da Beppe Grillo.

Tangenti, truffe, abusi edilizi: l’incredibile storia del prete-manager Luigi Verzé. - di Mario Portanova



Era il 1978 quando Emma Bonino e Marco Pannella denunciavano in Parlamento la "gestione mafiosa del San Raffaele" e puntavano il dito contro il sacerdote "sospeso a divinis". La carriera del fondatore dell'ospedale lombardo, deceduto il 31 dicembre, è costellata di condanne e oscuri rapporti. Fino all'epilogo del crac e dell'inchiesta sui fondi neri. I legami con Berlusconi e con il Sismi di Pollari.


Don Luigi Verzè, fondatore del San Raffaele
Il denaro pubblico dato all’ospedale San Raffaele finisce “nelle mani di loschi gruppi di potere clericali che lo utilizzano per attività speculative e clientelari, sulla pelle degli ammalati”. Una denuncia durissima contro la “gestione mafiosa” dell’istituto, ma non è di oggi. Trentaquattro anni prima che l’ospedale milanese finisse travolto da un crac miliardario e dallo scandalo dei fondi neri messi da parte per beneficiari ancora da individuare, una pattuglia di deputati radicali metteva nero su bianco nei documenti della Camera un severo atto d’accusa contro l’allora poco conosciuto don Luigi Verzé e la sua impresa.

“Il Presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale San  Raffaele, ‘don’ Luigi Maria Verzé è stato sospeso a divinis dalla Curia milanese nel 1973”, si legge nell’interrogazione presentata tra gli altri da Emma Bonino e Marco Pannella il 4 aprile 1978. Don Verzé “è stato condannato dal tribunale di Milano a un anno e quattro mesi di reclusione per tentata corruzione in relazione alla convenzione con la facoltà di medicina dell’università Statale e la concessione di un contributo di due miliardi da parte della Regione. E’ stato incriminato di truffa aggravata nei confronti della signora Anna Bottero alla quale ha sottratto un appartamento del valore di 30 milioni”.

L’eccellenza in campo scientifico e sanitario che il San Raffaele ha conquistato nei decenni successivi è universalmente riconosciuta. Ma, al tempo stesso, la sua è una tipica storia italiana di scandali avvenuti sotto gli occhi di tutti, e che tutti (o quasi) hanno fatto finta di non vedere. Fino all’epilogo: il buco di bilancio da un miliardo e mezzo di euro, il concordato preventivo, l’inchiesta penale aperta dalla Procura di Milano che ha già accertato un giro milionario di denaro in nero tra i fornitori e i vertici dell’istituto, il tragico suicidio del direttore finanziario Mario Cal quando tutto questo cominciava a disvelarsi, la morte per infarto (al quale non tutti credono) del novantunenne fondatore don Verzé nell’ultimo giorno del 2011.

“L’ospedale San Raffaele ha iniziato la sua attività nel settembre del 1971, nonostante l’ufficiale sanitario ne abbia negato l’agibilità”, denunciavano i deputati radicali, e il riconoscimento ministeriale è arrivato nel 1972 “nonostante la ferma opposizione della Regione Lombardia”, il cui assessore alla Sanità aveva parlato di un “atto di pirateria politica”. Un riconoscimento arrivato nonostante una sfilza di irregolarità, secondo Bonino e Pannella, in merito alle attrezzature mediche alla gestione del personale. Fatti che inducevano i radicali a chiedere ai ministri competenti di “ricercare le connivenze e le responsabilità eventuali dell’amministrazione dello Stato che hanno determinato questa scandalosa situazione”.

L’ATTO D’ACCUSA DEI RADICALI NEL VERBALE DELLA CAMERA
Una carriera spregiudicata quella di don Luigi Verzé, il “prete manager” che preferiva il doppiopetto alla tonaca e il business alla liturgia. Un’indole che gli è costata la proibizione “di esercitare il sacro mistero”, decisa dalla Curia di Milano il 26 agosto 1964, e una sospensione a divinis del 1973. Dagli esordi a oggi, la parabola di don Verzé si intreccia con quella di Silvio Berlusconi. E’ la Edilnord di Berlusconi, a partire dal 1969, che sovraintende alla costruzione dell’ospedale San Raffaele, su un terreno di Segrate, poco distante dalla nascente Milano 2, acquistato dal Centro di assistenza ospedaliera Monte Tabor con 600 milioni di lire di fondi statali ottenuti grazie ai buoni uffici della Democrazia cristiana.

Tutta la vicenda urbanistica è segnata da accuse di abusi edilizi e tentativi di corruzione di politici locali, come racconta Giovanni Ruggeri in “Berlusconi. Gli affari del presidente” (Kaos edizioni 1994). Abusi che ricorrerrano nella folgorante espansione dell’ospedale. Nel 1998 don Verzè sarà condannato due volte dal Tribunale di Milano: a un mese di reclusione per aver fatto tirar su senza licenza una palazzina di tre piani per la nuova accettazione dell’ospedale, e a dieci giorni per aver proseguito i lavori nonostante la prima sentenza di colpevolezza. Il sacerdote evita il carcere grazie alla sospensione condizionale della pena.

Il duo Berlusconi-Verzé agisce all’unisono nel 1971, quando interviene presso il ministero dei trasporti perché il frastuono del traffico aereo del vicino aeroporto di Linate disturba la quiete dei degenti del San Raffaele e degli inquilini di Milano 2, che all’epoca sono appena 200. Con grande tempestività, Civiliavia impone lo spostamento del corridoio di uscita dei jet dallo scalo milanese. L’inquinamento acustico è così dirottato su un pugno di comuni dell’hinterland densamente popolati. Seguono proteste e petizioni, e la vicenda porterà alla condanna del direttore generale dell’Aviazione civile.

Il rapporto tra il prete-manager e l’imprenditore-politico resterà saldo nei decenni a venire. Per don Verzé, Berlusconi è “l’uomo mandato dalla Divina provvidenza”. Per Berlusconi, don Verzé è “un uomo raro, un grande imprenditore”. E’ al San Raffaele che l’allora presidente del consiglio viene ricoverato dopo essere stato ferito in faccia da una statuina del Duomo di Milano, il 13 dicembre 2009. E al San Raffaele lavora come igienista dentale Nicole Minetti, gran sacerdotessa delle “cene eleganti” di Arcore, arrivata in consiglio regionale lombardo dopo essere stata piazzate nel listino bloccato del governatore lombardo Roberto Formigoni.

Il 3 marzo 1977 il Tribunale di Milano condanna don Verzé per istigazione alla corruzione, per aver cercato di “comprare” l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Vittorio Rivolta, per ottenere un contributo regionale di due miliardi di lire. Nelle motivazioni della sentenza, il prete manager è definito “un imprenditore abile e spregiudicato, inserito in ambienti finanziari e politici privi di scrupoli sul piano etico e giuridico-penale”. La condanna sarà cancellata dalla prescrizione del reato.

Una divina provvidenza che salverà don Verzé da altre due condanne: per truffa – il caso Bottero citato da Bonino e Pannella nell’interrogazione del 1978 – e per concorso in ricettazione. Quest’ultima vicenda si riferisce a un quadro, una Madonna piangente davanti a Cristo, rubato da una chiesa napoletana e riapparso a Segrate in una cascina annessa al San Raffaele. Nel 2005 don Luigi Verzè è stato condannato a un anno e quattro mesi. L’11 gennaio 2011 la Cassazione ha sancito la prescrizione, senza però assolvere nel merito il fondatore dell’istitituto ospedaliero, come richiesto dai suoi legali. Perché, si legge nelle motivazioni, “il giudice del rinvio ha correttamente fornito un’ampia e consistente giustificazione, spiegando in modo ragionevole che don Verzè era al corrente della provenienza illecita dei quadri”.

Nei suoi 91 anni di vita, il fondatore del San Raffaele ha saldato legami di ferro con i vertici del potere lombardi e non solo. Un’inchiesta della Procura di Milano su una vicenda esterna al San Raffaele ha documentato un rapporto confidenziale con il generale Niccolò Pollari, allora direttore del Sismi, con il quale tra l’altro don Verzé discute su come intimidire i titolari di un impianto sportivo confinante con l’ospedale, che non vogliono rassegnarsi a sloggiare per far spazio a un’ulteriore espansione dell’istituto. Mentre – proprio in una lettera a Berlusconi – si professa “uomo fedele e leale di don Verzé” Pio Pompa, ex collaboratore del San Raffaele passato al servizio segreto militare, finito al centro dello scandalo su dossieraggi e depistaggi ai danni di magistrati e giornalisti. Tra il Sismi e il San Raffaele intercorrono controversi affari immobiliari.

La fine della storia sta cercando di scriverla la Procura di Milano, nell’inchiesta scaturita dal crac finanziario emerso l’estate scorsa, che vedeva tra gli indagati lo stesso don Verzé. Le testimonianze di manager e fornitori del San Raffaele hanno fatto emergere un sistema di sovrafatturazioni sugli acquisti di beni e servizi, in vigore durante la gestione del prete manager, studiato per creare riserve di fondi neri che tornavano nelle casse dell’istituto. I magistrati stanno cercando di capire chi fossero i destinatari di questo fiume sotterraneo di denaro. In carcere è finito tra gli altri Pierangelo Daccò, intermediario d’affari ritenuto uomo di collegamento con le istituzioni.

Nel lontano 1978, i guastafeste radicali avevano visto lungo. Poi, per più di trent’anni, molti hanno chiuso gli occhi.