domenica 8 gennaio 2012

Afghanistan - La sposa bambina torturata dal marito diventa un simbolo dei diritti umani. - di Monica Ricci Sargentini





Afghanistan Womens Rights


Sahar Gul è una ragazzina afghana di 15 anni che ha quasi rischiato di essere uccisa dal marito perché non voleva prostituirsi. La scorsa settimana è arrivata in un ospedale di Kabul nelle condizioni che vedete nella foto qui sopra. Gli occhi talmente gonfi di botte da essere semi-chiusi, il collo tumefatto, un orecchio bruciato da un ferro da stiro, il corpo così debilitato da essere costretto su una sedia a rotelle, le mani ricoperte di croste nere al posto delle unghie strappate dai suoi torturatori. Sahar era stata data in sposa sette mesi fa al soldato Gulam Sakhi che, con la complicità della sua famiglia, ha reso la sua vita un inferno.  Quattro mesi fa la sposa-bambina era riuscita a fuggireed aveva chiesto aiuto a dei vicini di casa: “Se siete dei musulmani dovete dire alle autorità quello che mi sta succedendo – aveva detto disperata -, vogliono farmi prostituire”. La polizia di Puli Khumri, la città nella provincia di Baghlan dove è avvenuto il fatto, è stata avvisata ma non ha fatto altro che restituire la povera ragazza alla famiglia torturatrice dietro la promessa che gli abusi non sarebbero più continuati. Invece, come da copione, è accaduto l’esatto contrario. Sahar è stata chiusa in un seminterrato dove è stata picchiata e affamata per altri tre mesi finché un parente lontano arrivato a far visita non ha fatto scoppiare lo scandalo. Ma anche allora le autorità  hanno cercato di trovare un accordo con il marito per evitare che la vicenda finisse sulla stampa. Un comportamento che, purtroppo, non è una novità in Afghanistan dove, come avevamo già raccontato in questo post,  secondo un rapporto delle Nazioni Unite, le donne  sono trattate come bestiame. E chi si rivolge alla polizia spesso subisce ulteriori abusi, tra cui lo stupro e le molestie, prima di essere riconsegnata alla famiglia e dimenticata.
Questa volta però il volto gonfio di botte della piccola coraggiosa Sahar Gul ha fatto il giro del mondo destando condanna o orrore unanime. Tanto che il presidente afghano Hamid Karzai ha ordinato una commissione d’inchiesta  e il ministro della Sanità è corso in ospedale per portare la sua solidarietà alla giovane.  Il marito torturatore è ora ricercato e il resto della famiglia è agli arresti. Le orribili immagini di Sahar sono, dunque, servite a rendere visibile il tragico destino delle donne nel nuovo Afghanistan, dieci anni dopo la caduta dei Talebani. “Rompiamo il silenzio mortale sullo stato delle donne” titolava qualche giorno fa l’Afghanistan Times. Nonostante la recente ‘approvazione di una legge che per la prima volta punisce la violenza domestica  le tradizioni più bieche sono dure a morire e Kabul è al sesto posto nella classifica dei Paesi in cui le diseguaglianze tra i generi sono più accentuate.  Ma forse qualcosa si sta muovendo. Soltanto qualche anno fa un caso come quello di Sahar non sarebbe venuto alla luce. Ne è convinta Fawzia Kofi, deputata e capo della commissione parlamentare sulle questioni delle donne: “Penso che ora ci sia un maggiore senso di consapevolezza dei diritti delle donne – ha detto all’Associated Press -. La gente sembra voler cambiare e parla di questi temi”. Ma fermare gli abusi è una sfida  grandissima in una società patriarcale dove l’altra metà del cielo viene considerata ancora merce di scambio e il delitto d’onore è una prassi consolidata.  E le associazioni dei diritti umani temono che anche i piccoli progressi fatti sin qui possano sparire con il ritiro delle truppe internazionali. “Se i Talebani torneranno nella società tutto questo non ci sarà più” dice all’Ap l’attivista Sima Natiq.
Noi tifiamo per Sahar Gul e per tutte le ragazzine come lei che hanno subito abusi pesantissimi. Il ministero della Sanità ha fatto sapere che la giovane “si sta riprendendo fisicamente ma siamo molto preoccupati – ha aggiunto – per le sue condizioni mentali perché è stata torturata per un periodo molto lungo”. Speriamo che il suo caso spinga il governo a intervenire più prontamente in futuro.

Camera, nuovo portale storico. Un documento su quattro è una autorizzazione a procedere. - di Eduardo Di Blasi



Seimila dei circa 22mila documenti stampati da Montecitorio nel dopoguerra riguardano procedimenti contro gli stessi deputati. I record nei due anni di legislatura durante Tangentopoli. Documenti "istruttivi" anche sull'aumento delle indennità dei parlamentari. Il primo? Poche settimane dopo l'insediamento dell'Assemblea costituente.


Un quarto dei documenti stampati da Montecitorio nel corso della sua storia, riguardano “autorizzazioni a procedere” nei confronti dei deputati. È questa la singolare scoperta che si fa consultando il nuovo “Portale Storico” della Camera dei Deputati. Tra i 21.382 documenti mandati in stampa, 5.851 sono “richieste di autorizzazioni a procedere” nei confronti dei componenti dell’assemblea (alcuni ne hanno ricevuta più d’una). Il record spetta ovviamente alla XI legislatura, quella mandata a casa da Tangentopoli, che in soli due anni (durò dall’aprile del 1992 all’aprile del 1994) ne stampò la bellezza di 896. Segue la I con 802, la II (596) e la VI (560). Sono tanti e vari gli onorevoli e i reati che venivano loro contestati. Il primo, nel dopoguerra, fuConcetto Gallo, tra i fondatori del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, che all’epoca era qualcosa di più di uno schieramento politico. Fu arrestato sul finire del dicembre del ’45 dopo uno scontro a fuoco con i carabinieri. In giugno fu però eletto all’Assemblea Costituente e fu a essa che i magistrati andarono a bussare chiedendo l’autorizzazione a processarlo per i reati di “insurrezione armata contro i poteri dello stato, omicidio, tentati omicidi, sequestri di persona, estorsione, associazione a delinquere”. Reati che prevedevano l’arresto. Gli eletti di allora concessero l’autorizzazione a procedere ma negarono la carcerazione del deputato. Il carcere, del resto, prima di Alfonso Papa, la Camera lo aveva concesso solo per quattro deputati.

UN PAIO D’ANNI dopo, il 13 aprile del 1948, Severino Cavazzini, deputato ferrarese del Partito Comunista vicino al mondo agrario della Bassa, fu denunciato da un prete di Donada, in provincia di Treviso. Il parroco lo querelava per diffamazione aggravata perché sulla rivista Il Compagno, organo della federazione comunista di Rovigo, era uscito un testo anonimo dal titolo “Libidinose domande alle bambine del confessore parroco di Donada”. La Camera concesse l’autorizzazione per “fare piena luce sulla verità”, anche se i comunisti, nella propria relazione di minoranza, contestarono che, esistendo un processo aperto nei confronti del parroco per “atti di libidine”, sarebbe stato quello il luogo per far “piena luce sulla verità”. La relazione di minoranza attestava d’altronde come “il carattere politico del fatto” emergesse “chiaro dalle carte processuali”.

Istruttivo pensare che l’autorizzazione a procedere contro Cavazzini fu annunciata a Montecitorio il primo giugno del ’48 e arrivò all’attenzione della presidenza dell’assemblea tre anni dopo, il 31 luglio del ’51. Scorrendo questa documentazione ci si imbatte nella storia patria. Nel 1979 l’allora deputato Antonio Matarrese, presidente del Bari calcio, fu accusato dal pretore del capoluogo pugliese di “aver fatto svolgere abusivamente, nel locale stadio comunale, gli incontri di calcio” con la Nocerina e con la Sampdoria. Nel 1982, sempre la pretura chiedeva invece di processarlo per aver lasciato chiusi e non presidiati gli ingressi della tribuna numerata dello stadio durante Bari-Varese. Nell’agosto del ’96 arrivò invece alla Camera la richiesta di autorizzazione a procedere contro Umberto Bossi. Il pubblico ministero di Aosta, David Monti, voleva metterlo a confronto con Gianmario Ferramonti, leghista della prima ora all’epoca accusato di una truffa miliardaria (sarà scagionato anni dopo), ma il leader del Carroccio non si presenta ai magistrati. Perché? “Da notizie di stampa – annota il relatore Michele Saponara – si apprende che l’onorevole Bossi connoti il suo comportamento come un rifiuto del riconoscimento della legittimità dell’entità statuale cui appartengono le autorità giudiziarie disponenti e richiedenti”.

L’enorme mole di materiale messo in rete dall’archivio della Camera è una miniera d’oro. Per gli appassionati di “casta” si possono consultare ben 125 documenti sul bilancio interno di Montecitorio (alcuni link sono ancora difettosi) e scoprire alcune curiosità, come quella legata al conto consuntivo per l’esercizio finanziario della Camera per gli anni 1946-1947. I deputati Questori annotano come lo stanziamento del Tesoro di 225 milioni di lire fosse alla fine stato insufficiente. “Di fronte a tale previsione iniziale le entrate effettive accertate – scrivono – sono state di 506.392.485,20 lire, con una differenza in più di lire 281.392.485,20”. I maggiori bisogni dell’allora Assemblea Costituente erano costituiti essenzialmente da due voci: l’aumento delle indennità degli onorevoli deputati dell’Assemblea costituente e il miglioramento economico del personale applicato. L’ufficio di Presidenza che si riunì il 27 giugno del 1946, vale a dire neanche un mese dopo le storiche elezioni del 2 giugno, deliberò che il gettone di presenza, fino a allora ricevuto solo per le riunioni di Commissione, si assumesse anche per le sedute dell’assemblea plenaria. Il 27 febbraio del ’47, lo stesso ufficio, deliberò l’aumento dell’indennità da 25 a 30mila lire al mese e ritoccò l’indennità di presenza da mille a duemila per i deputati residenti fuori dalla Capitale. La spesa inizialmente prevista di 150 milioni per le indennità, arrivò così nei primi mesi della Repubblica, a 283. Nelle more si stanziarono anche 387.100 lire affinché gli onorevoli potessero viaggiare gratis. Ma solo sulla rete autoferrotranviaria di Roma
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Monti, la corruzione e le tre dimissioni. - di Peter Gomez




Gira e rigira si torna sempre lì, al valore dell’esempio. Certo, rispetto a due mesi fa alcune differenze sono lampanti. Prima a Palazzo Chigi sedeva un signore che giustificava l’evasione fiscale. Ora ce ne è uno che accusa chi non paga le tasse di “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. E se il precedente inquilino (Silvio Berlusconi) era un imputato che trascorreva il suo tempo insultando i magistrati e ideando sempre nuove leggi ammazza processi, quello nuovo (Mario Monti) assicura invece una “scossa e un’accelerazione potente alla lotta contro la corruzione” e promette che “il governo opererà con provvedimenti legislativi e amministrativi”.

Tutto bene allora? No, non ancora (si spera). Perché vista la situazione in cui si trova il Paese le parole del premier non bastano. E non perché le leggi anti-mazzette per adesso non ci sono (è ovvio ci vuole tempo) o perché per battere l’evasione occorreranno anni. Il punto è che sul fronte dei segnali il nuovo esecutivo stenta parecchio.

Impossibile infatti non rendersi conto come del governo facciano parte almeno tre personaggi la cui storia personale cozza (per usare un eufemismo) con il doveroso programma di risanamento annunciato dal premier.

I loro nomi sono noti a chi legge Il Fatto Quotidiano. Parliamo del sottosegretario alla Difesa, Filippo Milone, un ex manager del gruppo Ligresti che ha alle spalle un arresto e una condanna per reati contro la pubblica amministrazione; di quello all’editoria, Carlo Malinconico, al quale gli uomini della cricca pagarono una vacanza da 9800 euro e che oggi si giustifica goffamente attraverso il suo staff facendo filtrare su Il Giornale frasi del tipo “Chiesi con insistenza all’albergo, a fronte del diniego di farmi pagare, chi avesse pagato, ma mi fu risposto che non era possibile dirlo per ragioni di privacy”; e del ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi che, come racconta Marco Lillo in queste pagine, appartiene a quella schiera di italici furbetti abili nell’acquistare casa dall’Inps a prezzi stracciati (177 mila euro per un appartamento vista Colosseo, considerato alloggio popolare dopo un’assurda e inquietante vicenda giudiziaria).

Ecco dunque da dove può (e deve) partire Monti se vuole davvero dimostrare che il vento è cambiato. Dalle dimissioni dei suoi tre collaboratori.

Sia gli elettori che i rappresentati delle istituzioni hanno bisogno di un esempio come questo.

I primi per credere che il tempo della ricreazione per la Casta un giorno finirà. I secondi per cominciare a riflettere su un concetto semplicissimo che, in altre democrazie, nessuno mette in discussione: chi accetta incarichi pubblici lo fa per scelta, e non perché glielo ha ordinato il dottore. Diventare ministro o sottosegretario significa avere potere e onori. Ma anche oneri maggiori e diversi rispetto a quelli dei comuni cittadini.

Le regole del gioco sono queste. Ed è ora che qualcuno in Italia provi finalmente a farle rispettare. Perché errare nel formare una squadra, quando si hanno avuto solo pochi giorni di tempo per farlo, è perfettamente umano. Perseverare, no.



http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/07/monti-corruzione-dimissioni/182252/