Aveva nascosto in auto un milione di euro in contanti in un doppiofondo ricavato dietro il cruscotto, ma un quarantenne comasco è stato scoperto e denunciato al rientro dalla Svizzera: l'uomo è un operaio. E' stato così chiesto l'intervento dei finanzieri specializzati in doppifondi, che hanno individuato l'intercapedine e il denaro in sacchetti sottovuoto. Il sospetto è che l'uomo sia uno spallone, ovvero incaricato di portare il denaro oltreconfine per conto terzi.
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 21 febbraio 2012
Parma La città sotto inchiesta dove tutti rubavano tutto ora è appesa a musica e cibo (parmigiano fatto dai sikh). - di Aldo Cazzullo
Rubavano tutti, di tutto, su tutto. Tutti, secondo l' accusa: dal capo dei vigili al capo dello staff del sindaco. Di tutto: le tangenti venivano pagate non solo in denaro - spesso sul conto di mogli e fidanzate -, ma con assunzioni e favori, lavori in giardino e nelle case al mare, e anche un iPad, un impianto a gas sull' auto dell' anziano genitore, una moto da trial per il figlio. Su tutto: i pasti dei bambini nelle mense scolastiche, le rose per le fioriere sul torrente - 180 mila euro di rose -, le luminarie di Natale, costate solo 15 mila euro; peccato che nessuno le abbia viste. Fino a quando non è arrivato il Di Pietro di Parma, Gerardo Laguardia, a scoperchiare il sistema, far dimettere il sindaco, indagare undici assessori su tredici; il dodicesimo, Giovanni Paolo Bernini, è stato direttamente arrestato; il tredicesimo, Roberto Ghiretti, ex giocatore di volley, è il prossimo candidato sindaco. Il parmigiano e il Parmigianino, il prosciutto di Parma e «La Certosa di Parma», «Sangue a Parma» di Ferrata e Vittorini e il profumo Acqua di Parma, «La Favorita del Duca di Parma» e «Gialloparma», il Parmacotto e il Ris di Parma; per tacere di Parmalat. Parma medievale, dove Benedetto Antelami scolpì la fatica dell' uomo mese per mese, luglio miete, settembre vendemmia, novembre ammazza il maiale. Parma francese, con il suo modo di arrotare la erre, un accento tutto suo diverso da quello emiliano; le vie del centro non si chiamano vie ma strade e borghi, al mare non si va a Rimini ma alle Cinque Terre. Parma capitale, del Granducato e della musica: nel giro di qualche chilometro sono nati Paganini, Verdi, Toscanini, Renata Tebaldi. Ognuno dei 180 mila parmigiani avrebbe il suo motivo per sentirsi orgoglioso di una piccola patria dalla forte personalità, così importante per definire l' identità italiana. Proprio per questo sono così arrabbiati nel vedere la città degradata a capitale degli scandali. Non era ancora sanata la grande truffa Parmalat, che è esploso lo scandalo del Comune. Il viaggio a Parma comincia nella procura della Repubblica. Tra un interrogatorio e l' altro, il procuratore Laguardia racconta come tutto è cominciato. Ad accendere la scintilla del rogo fu un negoziante, che vide il vicino gettare nella spazzatura un vecchio computer, e i camion dell' Enia, la municipalizzata, portarlo via come se non fosse un rifiuto speciale, da smaltire a parte. Il procuratore cominciò a indagare. Era il 2009. Trovò un ex funzionario, «mi pare si chiamasse Ferrari, il ragionier Ferrari», disposto a parlare. Fece nascondere nella sede dell' Enia le telecamere, che filmarono il pagamento di una tangente. Ordinò i primi arresti. L' operazione fu chiamata Green Money: fatture gonfiate per lavori di manutenzione del verde pubblico, inutili o mai eseguiti. Poi l' operazione ha cambiato nome: Easy Money. I magistrati hanno prima pescato i pesci piccoli, funzionari comprati per pochi euro o qualche favore. Sono stati loro ad accusare i veri beneficiari, i padroni del Comune. Così sono finiti in carcere i principali collaboratori del sindaco Pietro Vignali, l' ex capo di gabinetto Carlo Iacovini e il responsabile del settore ambiente Manuele Moruzzi. La procura ha poi indagato l' intera giunta, per la delibera che doveva stravolgere l' antico ospedale del ' 400 con una serie di lavori, compresa l' apertura di un albergo. Alla seduta mancavano gli assessori Bernini e Ghiretti e il sindaco Vignali, non indagato ma ribattezzato «Vignavil» per l' ostinazione con cui è rimasto attaccato alla poltrona sino al settembre scorso, e anche «Svignali» per le fughe precipitose dal palazzo comunale assediato da centinaia di parmigiani inferociti. Il procuratore Laguardia è un milanese arrivato a Parma a 15 anni. Fu lui, appena entrato in magistratura, a smascherare lo scandalo edilizio del ' 75, il primo dell' Italia consociativa. Anche allora - racconta - rubavano tutti: la giunta socialista e comunista, e l' opposizione democristiana. Però rubavano per il partito. A un certo punto Psi, Pci e Dc decisero di costruire il centro direzionale e di intestarselo: crearono così una società in cui ognuno aveva il suo prestanome. Adesso, spiega Laguardia, si ruba per sé e per i propri cari. Il capo dei vigili, per esempio: Giovanni Maria Jacobazzi, ex tenente dei carabinieri, chiamato in città dopo lo scandalo del 2008, quando un ragazzo africano di nome Bonsu, scambiato per uno spacciatore, fu picchiato e umiliato dai vigili. Per rimediare, il Comune contribuì a finanziare un film riparatore, «Baciato dalla fortuna», con Vincenzo Salemme nei panni di un vigile di Parma, ovviamente buono. E si affidò a Jacobazzi. Accusato ora di aver venduto informazioni riservate per 4 mila euro a un investigatore privato di Monza. C' è poi un' intercettazione in cui si scusa con il signor Parmacotto, Marco Rosi, per una multa da 150 euro - occupazione abusiva di suolo pubblico, colpa dei tavolini del suo locale -: «Signor Rosi, sono mortificatissimo e incazzatissimo, lavoro con un branco di imbecilli...». In carcere è finito anche un imprenditore, Alessandro Forni, con l' accusa di aver comprato l' appalto per un' area addestramento di cani poliziotto, mai realizzata. Il procuratore Laguardia ha chiesto conto a Jacobazzi dei giri in macchina a fianco di Forni, che guidava la sua Aston Martin con la patente scaduta: «Ma lei non lo sapeva?». «Certo che lo sapevo: sono il capo dei vigili». «E perché gli consentiva di guidare senza patente?». «Be' , non ero mica in servizio...». Piccole cose. Segni di uno stile, di un costume, come le «attrici» che comparivano alle prime del Regio accanto al sindaco, una sera Rossella Brescia, un' altra Sara Tommasi (quando però i giornali ipotizzarono che avesse portato lui Nadia Macrì ad Arcore, il sindaco ebbe un moto di ribellione: «Ma vi pare che Berlusconi abbia bisogno di me per conoscere belle donne?»). L' inchiesta ora punta sulle grandi opere, sui veri affari. Il ponte a Nord, opera faraonica per scavalcare un torrente, fortunatamente incompiuta (il progetto prevedeva una copertura con i negozi). Il cantiere infinito della stazione, degno di una metropoli. Lo Stu-Pasubio, un intero quartiere tipo Vele di Scampia da ridisegnare. Non si faranno invece la metropolitana, il Palasport, il centro anziani. Il procuratore sospetta che fossero pretesti per lucrare sul denaro pubblico. Il Comune è gravato dai debiti - l' opposizione dice 630 milioni -, e non poteva spendere. Così costituiva società miste, per potersi permettere consigli d' amministrazione ben retribuiti e consulenze da scambiare con altri favori. Le indagini sono talmente numerose che Laguardia non ha più uomini. E incombono i processi per l' altro grande scandalo: Parmalat. Tre sostituti se ne sono andati. Ne restano quattro. A maggio arriva un uditore. Ma il processo contro Deutsche Bank e Morgan Stanley dovrebbe cominciare il mese prossimo, e rischia di saltare. Calisto Tanzi, almeno lui, ha pagato. Trentasette anni e 11 mesi di carcere. Dovesse farli tutti, uscirebbe a 111 anni (ne ha 73). Ora è ricoverato in ospedale, nel reparto detenuti, accanto a un pensionato che ha strangolato la moglie. Rifiuta il cibo, lo nutrono con una sonda. I suoi avvocati sostengono che sta morendo e chiedono i domiciliari; il tribunale deciderà il 6 marzo. Finora ha sempre detto no, anche a causa della collezione d' arte su cui Tanzi ha investito sino all' ultimo, lasciando l' azienda al proprio destino. Il genero Stefano Strini, marito di Laura Tanzi, la terzogenita, avrebbe confessato alla procura di aver nascosto lui i quadri, nel 2003; ora ha cambiato vita, fa il kebabbaro. La collezione Tanzi è stata anche recensita da Sgarbi: il «Ritratto di donna» di De Nittis vale 600 mila euro, il «Ritratto di contadina» del Favretto può arrivare a 800 mila; l' «Autoritratto» di Antonio Ligabue è tra i 500 e i 700 mila, la «Ballerina di Degas», matita su carta, non più di 200 mila. Poi ci sono i disegni di Severini e Modigliani, l' incisione di Grosz, l' acquerello di Cezanne, il pastello di Pizarro, la gouache di Utrillo. I pezzi forti sarebbero i due Van Gogh, il Manet, il Gauguin, il Picasso: roba da decine di milioni. Secondo Sgarbi, però, sono falsi. A Parma preferiscono pensarli autentici. Qualcuno racconta che le perle della collezione sarebbero tuttora nascoste nei sotterranei di una chiesa. Per il resto, i Tanzi sono stati disconosciuti da tempo: non sono neppure di Parma, ma di Collecchio. Parmalat nel frattempo è diventata francese, e la città non ha certo alzato barricate per difenderla. I veri signori qui sono i Barilla: 7 mila dipendenti in Italia, 2 mila sul posto. Dice Elvio Ubaldi, sindaco per nove anni dal ' 98 al 2007, che «i Barilla si fanno i fatti propri». In realtà anche loro sono dispiaciuti per quel che è successo alla città. Capita ad esempio di incontrare per strada Paolo Barilla, che racconta con un sorriso amaro della rotonda sotto casa, trasformata dalla giunta in un tripudio di aiuole tipo giardino dell' eden. Ubaldi governò senza Lega, con i centristi e le liste civiche. Racconta che la città è sempre stata politicamente moderata, né reazionaria né rivoluzionaria, poco fascista e non troppo comunista. La sinistra cercava il compromesso con la borghesia e candidava ingegneri o notai. La destra ha candidato lui, un democristiano. Le grandi opere sono iniziate con la sua giunta, però. E Vignali è stato per nove anni suo assessore. «Non avevo capito chi fosse davvero» assicura Ubaldi. Si vota a maggio. Alle primarie qui il Pd ha vinto, con l' ex presidente della Provincia, Vincenzo Bernazzoli. Il Pdl punta su Ghiretti. Ubaldi non ha ancora deciso se candidarsi: «È come se una vena di pazzia avesse colto gli amministratori. La protervia del potere, l' abisso della corruzione. Dobbiamo uscirne». In passato è accaduto di peggio. Parma giunse ad accusare la sua sovrana, Maria Luigia, di zooerastia, l' amore innaturale per un animale, il cavallo Alexandre. Alberto Bevilacqua ha scritto un libro di 300 pagine su «Parma degli scandali», dal crac Salamini al giro di tangenti scoperto dal giovane Laguardia: uno degli accusati si chiamava Giuseppe Verdi, quando il suo nome rimbombava in tribunale erano tutti a disagio, anche il giudice. Poi venne il caso di Bubi Bormioli, industriale, amico dell' attrice Tamara Baroni, marito della marchesa Maria Stefania Balduino Serra. Sulla vetreria Bormioli scrissero: «Bubi, non tamareggiare». Dell' omicidio di un altro industriale, Carlo Mazza, fu accusata una ballerina dell' Est, Katharina Miroslava. Racconta Bevilacqua che la città sa essere feroce. Quando nel 1734 vi entrò l' armata tedesca, subito fu ammazzato l' attendente del comandante, poi il principe di Wirtemberg al seguito delle truppe, infine il comandante in persona. Quando arrivarono i fascisti di Italo Balbo, Guido Picelli nascose i suoi uomini sui tetti dell' Oltretorrente, e mise in fuga le squadracce dopo una battaglia sanguinosa. Qui, nel quartiere popolare, si stabilirono Dickens, Leopold Mozart e Byron, che si calava zoppo al lume di una lanterna nella Camera del Correggio. Oltretorrente viveva Francesco Mazzola detto Parmigianino, prima di abbandonare la pittura per l' alchimia. Il professore di storia dell' arte di Bevilacqua era Attilio Bertolucci, il poeta, padre di Bernardo, il regista. Pure il negozio del genero di Tanzi - Pfk: pizza focaccia kebab - è nell' Oltretorrente, in borgo Coccone; ma anche lui deve passarsela male, le serrande sono sempre chiuse. Poi ci sono le cose che funzionano. L' Authority sull' alimentare. Il collegio europeo. Le cucine Scic, il gruppo chimico Chiesi. L' università si considera la più antica d' Europa (discende dallo studio fondato nel 960 dal vescovo Oddone), la Gazzetta di Parma è in edicola dal 1735. Ma la vera forza della città è la commistione tra spirito e carne, la cultura della musica - Parma Lirica, il Club dei Ventisette, il Circolo Falstaff - e quella del cibo. Il culatello di Zibello, il salame di Felino, la spalla cotta di San Secondo, la culatta di Fontanellato, e poi gola, pancetta, gambetto, gambettino, fiocco, fiocchetto, strolghino, coppa, prete, ciccioli, e ovviamente il prosciutto di Parma: 4.781 allevamenti, 9 milioni di prosciutti, un miliardo e mezzo di fatturato. Il vero miracolo, però, è il parmigiano. Un distretto che comprende anche Reggio, Modena, la provincia di Mantova a Sud del Po, quella di Bologna a Ovest del Reno. Foraggi e latte solo della zona, 383 caseifici, 3.500 stalle, 244 mila mucche, un consorzio che porta in tribunale chiunque si azzardi a chiamare un formaggio «parmesan», «parmeso», «parmetta». Il parmigiano quello vero ormai lo fanno i sikh, guidati dal casaro, che di solito è ancora italiano. Ma adesso c' è anche il primo casaro indiano, Singh Sarabjit, 42 anni. Non porta il turbante ma il cappellino con la scritta «consorzio parmigiano reggiano». Nato in Punjab, dove i contadini hanno dimestichezza con le mucche, qui ha imparato a rompere la cagliata, coagulare il latte con lo «spino», raccogliere con la pala la massa caseosa, lavorare le forme, farle invecchiare, marchiarle a fuoco, dar seguito alla fatica secolare dei parmigiani, che né le bizzarrie di Maria Luigia, né gli imbrogli di Tanzi, né i latrocini comunali potranno mai interrompere.
http://archiviostorico.corriere.it/2012/febbraio/20/Parma_citta_sotto_inchiesta_dove_co_9_120220021.shtml
Le cause della crisi italiana. - di Nicola Tranfaglia
C’è ancora un’imperfetta consapevolezza, tra gli italiani, sul carattere complessivo - insieme economico-sociale, culturale e politico - dell’attuale crisi dell’Italia contemporanea. Per rendersene conto basta leggere la stampa quotidiana e periodica o, ancora meglio, ascoltare uno dei tanti telegiornali che si dedicano a queste analisi, invitando di solito esponenti della classe politica o del ceto imprenditoriale. Ma, dal punto di vista storico che oggi ci interessa in maniera particolare, possiamo dire quali sono le ragioni della grave crisi che attanaglia il nostro paese?
Tento di farlo in uno spazio ristretto, salvo ritornare in una prossima occasione sull’argomento che, da qualche anno, ci vede tutti coinvolti.
La prima ragione è di sicuro la contraddizione di fondo tra l’arretratezza dello Stato e l’attuale società economica e sociale.
Settant’anni fa (e gli storici di quel periodo sono tutti d’accordo sul problema, quando venne fondata, dopo la seconda guerra mondiale, la democrazia repubblicana) non si ebbe né la forza né la capacità di creare un nuovo Stato, inteso come apparato pubblico complessivo, e i principi costituzionali, approvati alla fine del 1947, sono rimasti finora in gran parte lettera morta. Sicché si restò alle vecchie strutture statali presenti nell’Italia liberale e fascista come se non fosse successo nulla di nuovo e questo ha costituito una grande palla al piede per la nostra repubblica.
Le responsabilità sono essenzialmente delle classi dirigenti italiane e dei principali partiti politici, la Democrazia Cristiana e i partiti laici da quello liberale, al repubblicano al socialdemocratico e al socialista, che hanno governato il paese per gran parte del periodo storico che abbiamo alle spalle fino all’irruzione clamorosa del leader populista Silvio Berlusconi che ha guidato, per quasi vent’anni, la nostra povera Italia. Ma anche gli esponenti decisivi dell’opposizione comunista hanno le loro responsabilità, come avviene sempre di fronte ai problemi capitali di un popolo.
La seconda ragione che mi sembra di dover indicare è quella economica, e soprattutto dei mutamenti che su questo piano sono avvenuti a livello continentale e mondiale.
La più rapida circolazione delle merci e degli uomini che si è stabilizzata nell’ultimo trentennio ed ha abbattuto le vecchie barriere nazionali ha avuto come effetto l’emergere netto del passo più rapido di paesi come la Germania e gli Stati Uniti nell’emisfero occidentale e di Cina e India in quello orientale.
Il fenomeno diventerà più evidente nei prossimi anni ma è già abbastanza chiaro. L’Italia, ancora una volta, è stato l’anello debole del sistema capitalistico occidentale proprio per l’imperfetta modernizzazione che ne ha caratterizzato la storia nel lungo periodo repubblicano ed oggi ne paghiamo le dure e amare conseguenze.
La terza ragione che è necessario indicare è la profonda crisi morale e civile che ha caratterizzato l’ultimo ventennio a causa dell’incapacità delle nostre classi dirigenti di rinnovarsi e portare sulla scena persone oneste e competenti.
Questo è avvenuto con maggior evidenza nella parte conservatrice e reazionaria dell’orizzonte politico ma, di fatto, è accaduto in tutto lo schieramento, anche nella sinistra.
La fine delle vecchie ideologie generali, che hanno avuto luogo essenzialmente con la caduta del comunismo sovietico alla fine degli anni ottanta del Novecento, ha segnato in Italia forme di smarrimento e di incertezza politica che non si sono esaurite e che portano, ancora oggi, all’emergere di leader, a destra come a sinistra, che privilegiano di gran lungo la tattica rispetto alla strategia politica.
Questo modo di procedere ha favorito, a sua volta, il grande successo del populismo (di cui Berlusconi è stato l’assoluto protagonista) ma che è tuttora presente anche in altre forze politiche del centro-destra, come del centro-sinistra.
Questo aspetto deve esser superato se vogliamo ritornare a una democrazia moderna come è quella invano disegnata fin dal 1948 nella nostra costituzione repubblicana.
Qualcuno dirà che questo potrà avvenire con le prossime elezioni politiche generali previste per il prossimo anno. Ma io conservo al riguardo alcuni dubbi che elenco in maniera sintetica: come potremo avere una classe politica diversa se i partiti non diventeranno di nuovo centri di elaborazione culturale e politica, come sono stati nei primi vent’anni dell’Italia repubblicana? E come potrà avvenire un simile mutamento se i partiti continueranno a scegliere i propri candidati alle assemblee elettive sulla base della docilità e sottomissione ai capi piuttosto che su quella del merito e della competenza culturale degli individui?
A questi interrogativi che ho fatto in molte occasioni alla classe politica attuale non ho ricevuto finora risposte chiare e soddisfacenti e in mancanza di esse sarà molto difficile sperare che le cose cambino e si arrivi a risolvere la crisi morale e culturale che oggi, più che mai, attanaglia l’Italia.
La prima ragione è di sicuro la contraddizione di fondo tra l’arretratezza dello Stato e l’attuale società economica e sociale.
Settant’anni fa (e gli storici di quel periodo sono tutti d’accordo sul problema, quando venne fondata, dopo la seconda guerra mondiale, la democrazia repubblicana) non si ebbe né la forza né la capacità di creare un nuovo Stato, inteso come apparato pubblico complessivo, e i principi costituzionali, approvati alla fine del 1947, sono rimasti finora in gran parte lettera morta. Sicché si restò alle vecchie strutture statali presenti nell’Italia liberale e fascista come se non fosse successo nulla di nuovo e questo ha costituito una grande palla al piede per la nostra repubblica.
Le responsabilità sono essenzialmente delle classi dirigenti italiane e dei principali partiti politici, la Democrazia Cristiana e i partiti laici da quello liberale, al repubblicano al socialdemocratico e al socialista, che hanno governato il paese per gran parte del periodo storico che abbiamo alle spalle fino all’irruzione clamorosa del leader populista Silvio Berlusconi che ha guidato, per quasi vent’anni, la nostra povera Italia. Ma anche gli esponenti decisivi dell’opposizione comunista hanno le loro responsabilità, come avviene sempre di fronte ai problemi capitali di un popolo.
La seconda ragione che mi sembra di dover indicare è quella economica, e soprattutto dei mutamenti che su questo piano sono avvenuti a livello continentale e mondiale.
La più rapida circolazione delle merci e degli uomini che si è stabilizzata nell’ultimo trentennio ed ha abbattuto le vecchie barriere nazionali ha avuto come effetto l’emergere netto del passo più rapido di paesi come la Germania e gli Stati Uniti nell’emisfero occidentale e di Cina e India in quello orientale.
Il fenomeno diventerà più evidente nei prossimi anni ma è già abbastanza chiaro. L’Italia, ancora una volta, è stato l’anello debole del sistema capitalistico occidentale proprio per l’imperfetta modernizzazione che ne ha caratterizzato la storia nel lungo periodo repubblicano ed oggi ne paghiamo le dure e amare conseguenze.
La terza ragione che è necessario indicare è la profonda crisi morale e civile che ha caratterizzato l’ultimo ventennio a causa dell’incapacità delle nostre classi dirigenti di rinnovarsi e portare sulla scena persone oneste e competenti.
Questo è avvenuto con maggior evidenza nella parte conservatrice e reazionaria dell’orizzonte politico ma, di fatto, è accaduto in tutto lo schieramento, anche nella sinistra.
La fine delle vecchie ideologie generali, che hanno avuto luogo essenzialmente con la caduta del comunismo sovietico alla fine degli anni ottanta del Novecento, ha segnato in Italia forme di smarrimento e di incertezza politica che non si sono esaurite e che portano, ancora oggi, all’emergere di leader, a destra come a sinistra, che privilegiano di gran lungo la tattica rispetto alla strategia politica.
Questo modo di procedere ha favorito, a sua volta, il grande successo del populismo (di cui Berlusconi è stato l’assoluto protagonista) ma che è tuttora presente anche in altre forze politiche del centro-destra, come del centro-sinistra.
Questo aspetto deve esser superato se vogliamo ritornare a una democrazia moderna come è quella invano disegnata fin dal 1948 nella nostra costituzione repubblicana.
Qualcuno dirà che questo potrà avvenire con le prossime elezioni politiche generali previste per il prossimo anno. Ma io conservo al riguardo alcuni dubbi che elenco in maniera sintetica: come potremo avere una classe politica diversa se i partiti non diventeranno di nuovo centri di elaborazione culturale e politica, come sono stati nei primi vent’anni dell’Italia repubblicana? E come potrà avvenire un simile mutamento se i partiti continueranno a scegliere i propri candidati alle assemblee elettive sulla base della docilità e sottomissione ai capi piuttosto che su quella del merito e della competenza culturale degli individui?
A questi interrogativi che ho fatto in molte occasioni alla classe politica attuale non ho ricevuto finora risposte chiare e soddisfacenti e in mancanza di esse sarà molto difficile sperare che le cose cambino e si arrivi a risolvere la crisi morale e culturale che oggi, più che mai, attanaglia l’Italia.
http://www.articolo21.org/4855/notizia/le-cause-della-crisi-italiana.html
Marcegaglia: “Basta ai sindacati che proteggono gli assenteisti”. Cgil: “Smentisca”.
Per la presidente di Confindustria la riforma del lavoro dovrà permettere alle imprese di licenziare "quelli che non fanno bene il loro mestiere". Il sindacato: ''Affermazioni che offendono. Le smentisca". Bonanni prende le distanze: "Dica a quale sigla fa riferimento". Fornero: "L'accordo è possibile".
“Vorremmo avere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro”. Emma Marcegaglia sceglie il convegno di Federmeccanica a Firenze per sferrare un duro attacco alle sigle sindacali, con l’obiettivo di giustificare la riforma dell’articolo 18: “Noi abbiamo detto che questa norma deve rimanere per atti discriminatori, ma vogliamo poter licenziare quelli che non fanno il loro lavoro”. Parole che non passano inosservate e arrivano proprio nei giorni della trattativa tra governo e parti sociali. La Cgil risponde con le parole del segretario confederale Fulvio Fammoni: “E’ davvero troppo. Si possono avere e sostenere tesi e idee diverse, anche in modo forte, ma così si mette in discussione il ruolo del sindacato confederale italiano. La presidente di Confindustria – conclude – deve smentire”. Usa toni diversi il segretario Cisl Raffaele Bonanni, che prova a sfilare la propria sigla sindacale dalla lista dei colpevoli tracciata dalla Marcegaglia: “La Marcegaglia farebbe bene a precisare di quale sindacato parla. La mia organizzazione si è sempre presa le proprie responsabilità di fronte alle scompostezze degli imprenditori e pure di alcune realtà sindacali”.
”Emma Marcegaglia offende con le sue parole milioni di lavoratori, la maggior parte dei quali fa sacrifici e si spacca la schiena per stipendi da fame”, afferma invece Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista – Federazione della Sinistra: ”Come si permette – aggiunge – di dare dei fannulloni ai lavoratori? I fannulloni stanno nella giunta di Confindustria, non nelle fabbriche”. Parole durissime anche da parte di Antonio Di Pietro:
La presidente di Confindustria ha sottolineato il suo sostegno a un accordo tra Governo e parti sociali “che è auspicabile e possibile. Ma – ha aggiunto – credo sia anche giusto, nel caso in cui non si raggiunga, che il Governo vada avanti e faccia la riforma che deve fare”. L’accordo sulla riforma del mercato del lavoro è possibile? “Secondo me sì, assolutamente”, aggiunge il ministro del Welfare, Elsa Fornero, a margine di un’audizione alla Camera. “Io lavoro per un accordo con i sindacati”. A proposito della flessibilità, gli industriali chiedono una revisione di quella “cattiva in entrata”, con riferimento al proliferare delle partite Iva “che devono essere regolarizzate con l’assunzione”. Ma – ha aggiunto Marcegaglia – vogliamo anche rivedere la flessibilità cattiva in uscita”. A questo proposito, ha ricordato l’episodio che vide al centro di una contestazione proprio il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: “La persona che aveva tirato un candelotto a Bonanni era in malattia: il datore di lavoro – ha ricordato la Marcegaglia – lo licenziò,ma il giudice lo ha riassunto”. Certo, una revisione dell’art.18 “sarà molto difficile ma noi non molliamo, andiamo avanti”.
Infine un nuovo appello al governo, perché riduca la pressione fiscale: “Con gli introiti delle battaglie anti-evasione – ha dichiarato Marcegaglia – dobbiamo abbassare l’Irpef, in particolare la prima aliquota, dal 23 al 20 per cento, soprattutto sui lavoratori e su coloro che tengono in piedi il nostro Paese. La leva fiscale deve diventare una leva per aumentare la crescita”.
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Canone per pc e tablet, la marcia indietro della Rai: “Pagherà solo chi possiede un televisore”.
Dopo la polemica sull'abbonamento 'estendibile' ai personal computer e agli altri supporti informatici connessi alla Rete, viale Mazzini ha fatto dietrofront, negando di aver mai chiesto una simile tassa. La richiesta "si riferisce al canone speciale dovuto nel caso in cui i computer siano utilizzati come tv".
Se non è una marcia indietro poco ci manca. In seguito alle veementi polemiche scoppiate – soprattutto in Rete - dopo che la Rai aveva fatto intendere di esigere il pagamento del canone anche da parte dei possessori di pc, tablet e smartphone, viale Mazzini ha corretto il tiro. In maniera ufficiale, con una nota di chiarimento sulla questione. “In Italia il canone ordinario deve essere pagato solo per il possesso di un televisore” hanno fatto sapere i vertici della tv di Stato, i quali poi hanno specificato che “la Rai non ha mai richiesto il pagamento del canone per il mero possesso di un personal computer”. Il riferimento di Viale Mazzini è alla “lettera inviata dalla Direzione Abbonamenti Rai”, che “si riferisce al canone speciale dovuto nel caso in cui i computer siano utilizzati come televisori, fermo restando che il canone speciale non va corrisposto nel caso in cui tali imprese, società ed enti” abbiano già pagato per il possesso di uno o più tv. Tutto come prima, quindi: secondo la televisione di Stato si è trattato di un qui pro quo o, meglio, di una sorta di interpretazione sbagliata di una norma che prende spunto da quanto accade nel resto d’Europa.
La nota di viale Mazzini, del resto, insiste molto sul punto: “Ciò, quindi, limita il campo di applicazione del tributo ad una utilizzazione molto specifica del computer – è scritto nel comunicato della Rai – rispetto a quanto previsto in altri Paesi europei per i loro broadcaster (Bbc) che nella richiesta del canone hanno inserito tra gli apparecchi atti o adattabili alla ricezione radiotelevisiva, oltre alla televisione, il possesso dei computer collegati alla Rete, i tablet e gli smartphone”. Detto questo, “si ribadisce pertanto che in Italia il canone ordinario deve essere pagato solo per il possesso di un televisore”. Già ieri la Rai aveva chiarito che “le lettere inviate non si riferiscono al canone ordinario (relativo alla detenzione dell’apparecchio da parte delle famiglie) ma si riferiscono specificamente al cosiddetto canone speciale, cioè quello relativo a chiunque detenga – fuori dall’ambito familiare (ad esempio imprese, società, uffici) – uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezioni di trasmissioni radiotelevisive”.
Sulla questione, tuttavia, continua i silenzio del ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, a cui alcuni parlamentari sia di centrodestra che di centrosinistra (oltre che ad una serie di enti) si erano rivolti per chiedere di intervenire sulla stramba richiesta di viale Mazzini.
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