Washington Post: nepotismo e corruzione minacciano il futuro dell’Italia.


Una “crisi endemica di produttività”, figlia di una cultura “nepotista”, eccessivamente legata alla famiglia, in definitiva fortemente “limitante”. E’ ciò che caratterizza il sistema economico italiano nell’analisi espressa in questi giorni dal Washington Post, uno dei più prestigiosi quotidiani statunitensi. Un quadro estremamente negativo a partire dalla tesi di fondo: è la stessa cultura italiana minacciare il futuro economico del Paese.
C’è una parte di Italia, scrive l’editorialista Steven Pearlstein, “composta, soprattutto al Nord, di diverse migliaia di grandi e medie imprese che sono innovative, efficienti, competitive a livello internazionale”, e ce n’è un’altra “soprattutto al Sud, composta di imprese statali, piccole aziende familiari, giganti delle utilities e banche che operano in mercati protetti o non competitivi la cui produttività è in calo da decenni. Mettete tutto insieme e, facendo una media, otterrete un’economia a crescita zero incapace di sostenere una popolazione che invecchia o di generare buoni posti di lavoro e adeguata formazione per i giovani o di mantenere gli attuali standard di vita della classe media”.
L’aspetto peggiore è però un altro: ad oggi, rileva il Washington Post, il trend continua ad essere negativo. In altre parole, i settori improduttivi crescono, quelli più efficienti perdono terreno. “Dall’introduzione dell’euro – scrive il quotidiano della capitale Usa – la produttività italiana ponderata con l’inflazione è diminuita del 30% rispetto a quella della Germania. A partire dalla recessione del 2008, la produzione industriale è calata del 25%”.
Gli aspetti culturali, come si diceva, risulterebbero quindi decisivi. A cominciare dalla centralità concettuale della “famiglia”, un aspetto particolarmente limitante. Sono poche le imprese capaci di crescere ampiamente, e anche quelle che raggiungono grandi dimensioni “tendono a restare private, con i componenti della famiglia che finiscono per occupare tutte le posizioni chiave” e un fabbisogno di capitale tendenzialmente compensato “dai prestiti delle banche locali”. Insomma, non c’è da stupirsi se “la dimensione relativa del mercato azionario italiano sia una delle più ridotte nel mondo industrializzato e se tanto i venture capital quanto le società di private equity abbiano fatto poche incursioni nel mercato italiano”. Aggiungiamo la diffusa presenza del nepotismo e delle raccomandazioni, sistemi non certo confinati alle sole imprese familiari, e il gioco è fatto. In fondo è il destino di un Paese dove resta determinante “la mancanza di senso civico”, dove “è diffusa l’evasione fiscale” e la Mafia “mantiene la propria forza”. Un Paese, insomma, dove “nessuno si aspetta che l’altro sia onesto” e nel quale, di conseguenza, “resta difficile creare un ambiente economico in cui il business e la competizione possano crescere e prosperare”.
Certo, rileva in conclusione il Washington Post, “vi sono pur sempre migliaia di imprese di successo che rendono l’Italia il 2° produttore industriale europeo e che generano un export complessivo capace di compensare la bilancia nazionale dei pagamenti (…). Ma queste imprese sono troppo poche e il loro sviluppo è minacciato spesso dalla cultura economica prevalente e dalla necessità di sostenere quelle parti del Paese che, dal punto di vista economico, assomigliano di più alla Grecia e al Portogallo”. L’agenda delle riforme del governo, la vera missione di Monti, in altri termini, passa necessariamente dalla costruzione di un nuovo sostegno politico attorno alle aziende di successo. “In assenza di una rivoluzione politica e culturale – conclude il quotidiano – è difficile intravedere come questo meraviglioso e affascinante bastione della vecchia Europa possa emergere dalla crisi dell’euro con grandi speranze per il suo futuro”.

Arriva il Super Porcellum. - Paolo Flores d'Arcais




Tempi bui, quando i proverbi sono all’ordine del giorno. Quello di oggi suona: al peggio non c’è mai fine.

Il triumvirato della partitocrazia sta infatti approntando nelle basse cucine della riforma elettorale una sbobba peggiore dell’attuale “Porcata”. I delegati di Alfano, Bersani e Casini nella preparazione dell’immondo intruglio si chiamano Quagliariello, Violante e Adornato/Cesa (per l’Udc un’intelligenza sola non bastava, evidentemente). L’osceno della “Porcata”, come è noto anche ai sassi, consiste nel fatto che la libertà dei cittadini si riduce a un altro proverbio: o mangi questa minestra o salti dalla finestra. I parlamentari sono “bloccati”, nominati dalle nomenklature partitocratiche, se non ti vanno bene non ti resta che non votare.
Una riforma elettorale degna del nome, perciò, dovrebbe togliere il maltolto ai capibastone dei partiti e restituirlo ai cittadini elettori, rendendoli di nuovo sovrani almeno in quantità omeopatiche (con la “Porcata” contano zero). Ma la sbobba della quadriglia Q-V-A-C non ci pensa affatto. Anzi, hanno in mente di blindare come “cosa loro” l’attuale monopolio elettorale: metà dei seggi con la “Porcata” e l’altra metà con l’uninominale a turno unico (una “Porcata” al quadrato), il tutto condito da sbarramenti e altri marchingegni che impediscano il nascere di liste della società civile. 

Contano sulla disattenzione che accompagna anche presso l’opinione pubblica democratica la discussione sui sistemi elettorali, in apparenza così astratta e “tecnica”. E sull’afa estiva, quando la sbobba arriverà nelle aule parlamentari. Non bisogna cadere nella trappola. Bisogna costringere Bersani a finirla con lo slalom sulle primarie (di coalizione e “aperte”, ma solo per chi sottoscrive un programma già confezionato dai partiti, come dire: un ottimo Barolo, ma analcolico). E pretendere da Vendola e Di Pietro l’evangelico “sì sì, no no” anziché l’ennesimo ultimatum non-ultimatum. 

Non si illudano Bersani & C. Gli elettori democratici sono ormai una massa incontenibile di “dissidenti” e “disobbedienti”. Le pastette di vertice sono puerili, scambiano la realtà col gioco di Monopoli. I cittadini che hanno a cuore “giustizia e libertà” vogliono liste civiche e primarie vere, nelle quali decidere sia il programma che il candidato (altrimenti è solo l’elezione del “più bello del reame”, un concorso tra “velini” partitocratici).

Deluderli porterà solo a clamorose riedizioni della fallimentare “gioiosa macchina da guerra”. L’establishment, che si presenterà con abiti politici nuovi di zecca, già brinda.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/arriva-il-super-porcellum/

Gli apprendisti stregoni del presidenzialismo. - Lorenza Carlassare

Lorenza Carlassare Journalists, Authors And Personalities Call For Silvio Berlusconi Resignation


«Il rischio di un ennesimo stallo sulle riforme costituzionali ed elettorali, dopo l'eventuale fallimento del tentativo sperimentato in questi mesi, non sarebbe senza effetti per il Paese. Le forze politiche presenti in Parlamento si giocano su questo terreno larga parte della loro credibilità». E' questo il grave ammonimento dei senatori del Pd Ceccanti e Chiti, che hanno depositato un disegno di legge costituzionale per consentire l'indizione di un referendum costituzionale di indirizzo sulla forma di governo. Sconcerta l'attivismo di questi senatori e la loro pervicacia nell'intento di stravolgere la Costituzione in un senso o nell'altro.

Ed è sconcertante la disinvolta equiparazione fra riforme costituzionali, poco utili e non richieste, e riforma della legge elettorale da tutti invocata e assolutamente necessaria. Mischiando l'indispensabile con l'inutile-dannoso si confondono utilmente le idee. L'uso della parola «riforme», ormai quasi magica, buona per entrambe, consente di coprire una mistificante omologazione.

Il referendum d'indirizzo sarebbe del resto l'unica via d'uscita per chi voglia procedere a tutti i costi alla modifica della Costituzione. Come sarebbe possibile, altrimenti, far approvare una riforma come quella oggi al senato, basata su due testi fra loro incompatibili? Il primo, uscito dalla Commissione a fine maggio, che esalta i poteri del primo ministro riducendo i poteri presidenziali; il secondo, frutto di un'ispirazione berlusconiana, che prevede esattamente il contrario: un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, dotato di poteri politici forti sul modello della V Repubblica francese. Per rendersi conto della loro inconciliabilità basta pensare che un potere importante e delicato come lo scioglimento anticipato delle camere viene attribuito a un diverso titolare: nel testo concordato in Commissione spetta al Primo Ministro, nel testo aggiunto compete al solo presidente della Repubblica senza alcuna partecipazione governativa. Si tratta infatti di un decreto presidenziale esente da controfirma.

Con il referendum di indirizzo proposto dai senatori Pd - che richiede l'approvazione di un'apposita legge costituzionale non essendo previsto dalla Costituzione italiana - si sottoporrebbero agli elettori due quesiti e tre opzioni: Quesito 1: «Ritenete voi che si debba modificare la forma di governo parlamentare della nostra Costituzione?»; Quesito 2: «Se alla domanda precedente ha prevalso il Sì, ritenete voi che si debba preferire la forma di governo del primo ministro (soluzione 1) o la forma di governo semi-presidenziale (soluzione 2)?».

Come dicevo, ciò che interessa è cambiare, cambiare comunque, per consentire a chi governa massima libertà di azione e debolissimi controlli politici: fra le due opzioni, tanto differenti, c'è infatti un intento comune, il medesimo che ha traversato la lunga storia delle incessanti proposte di riforma: i
ndebolire il parlamento, organo rappresentativo del popolo e quindi il popolo stesso; rafforzare i poteri di un unica persona, presidente della Repubblica o primo ministro che sia.
Non vale richiamare l'esperienza di altri paesi nei quali, al di là dei meccanismi istituzionali, gli anticorpi antiautoritari funzionano: in Francia, De Gaulle, con tutto il suo potere, si è spontaneamente dimesso dopo la risposta negativa del popolo francese a un referendum da lui proposto!


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Il posto fisso.



E' il posto fisso in Parlamento che dà alla testa. Deve esserci un virus potentissimo che contagia tutti quelli che ne varcano la soglia.

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Ingroia sul blog di Grillo: “Trattativa, le istituzioni non ci hanno sostenuto”.





Il sostituto procuratore di Palermo spiega in un video le difficoltà dei magistrati nel fare luce sul biennio delle stragi e sul patto Stato-mafia. "Iniziative di realtà giudiziaria accolte con freddezza, fastidio, a volte con ostilità. Come se questo Paese la verità non la volesse".

I magistrati lasciati soli “dalla politica e dal mondo dei mass media” davanti all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia che non ha ancora ancora trovato “la giustizia e la verità cui hanno diritto le vittime, i familiari delle vittime, i cittadini”. Antonio Ingroia, sostituto procuratore di Palermo, interviene in un video sul blog di Beppe Grillo per sottolineare che “ognuno di noi ha il diritto” di fare tutto ciò che può “per conquistare la verità e pretenderla a voce alta” e le istituzioni non hanno sostenuto, “almeno finora”, l’azione dei pm volta ad accertare la verità giudiziaria.
Appena qualche giorno fa, in un’intervista a Libero, Ingroia aveva spiegato che ”il reato che la Procura sta perseguendo è quello di violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l’esercizio. Noi riteniamo che il cosiddetto papello e tutte le altre ambasciate per influenzare le decisioni del governo costituiscano un reato”.  Se poi ci sono uomini dello Stato o delle istituzioni che hanno consapevolmente “indotto i mafiosi a certe mosse o hanno intermediato le richieste - aveva aggiunto -, rispondono in concorso nella minaccia e per questo noi li abbiamo indagati”. Ragione per cui pezzi delle istituzioni sono sotto inchiesta. Come Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, che ha cercato più volte l’appoggio e il sostegno del Quirinale, o Giovanni Conso, ex ministro della Giustizia, che nel novembre 1993 non rinnovò oltre trecento provvedimenti di 41 bis dopo le stragi del ’92 e dopo le bomba dell’estate a Milano, Roma, Firenze. 
“In un Paese normale – afferma Ingroia nel video sul blog di Grillo – di fronte a questa azione della magistratura, il paese delle istituzioni e la società si stringerebbero attorno ai magistrati, li si sosterrebbe in questo compito difficile, anzi ciascuno cercherebbe di fare la propria parte”. Per il sostituto procuratore, “la politica dovrebbe occuparsene, accertando quello che alla politica tocca accertare rispetto al passato, la verità politica, la verità storica. Non tocca alla magistratura appurare la verità storica”. Inoltre “la politica dovrebbe anche individuare responsabilità storiche e responsabilità politiche, non certo le responsabilità penali”. Un fatto che “fino a oggi non è avvenuto” perché per esempio” tante e tante commissioni parlamentari antimafia si sono avvicendate in questi vent’anni, ma nessuna di queste ha messo al centro della propria attenzione, al centro della propria indagine, l’accertamento della verità su quel terribile biennio ’92-’93, che è poi il biennio sul quale è nata questa Repubblica“. La “Seconda”, che “affonda letteralmente i suoi pilastri nel sangue di quelle stragi, in quella trattativa che si sviluppò dietro le quinte di quelle stragi”.
E, prosegue il pm, “non solo la politica non ha fatto questo, ma nè dalla politica, nè dal mondo dei mass media, è venuto un sostegno nei confronti della magistratura, anzi queste iniziative di verità, di realtà giudiziaria, sono state accolte con freddezza, fastidio, a volte con ostilità come se questo Paese la verità non la volesse, come se ci fosse una grande parte del Paese che preferisce vivere in quell’eterno presente immobile senza conoscere le proprie origini, forse per la paura di scoprire qualcosa di cui vergognarsi nella propria vita”.

Pubblica amministrazione, ecco perché non passa il tetto alle pensioni. - Salvatore Cannavò

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Sforbiciando gli assegni della previdenza pubblica si potrebbe risparmiare 2,3 miliardi nel pubblico. Altri 15 potrebbero arrivare se la norma fosse estesa al privato. Ma il governo ha bloccato il tetto di 6mila euro/mese inizialmente proposto. Che andrebbe a colpire molti tra coloro che oggi decidono dove e cosa tagliare.

Il governo, lo stesso che si appresta a sforbiciare la spesa pubblica con la spending review e che ha varato la riforma della previdenza, ha detto no all’inserimento di un tetto alle pensioni d’oro. Perché? Di pensioni a 5 stelle tra i banchi dell’esecutivo ce ne sono diverse, basta leggere le indennità di diversi ministri e sottosegretari. Un pacchetto di alti redditi che in parte aiutano a spiegare la reticenza con cui l’esecutivo ha affrontato finora il tema dei tetti agli assegni della previdenza pubblica. La lista, del resto, chiama in causa addirittura il super-commissario ai risparmi, Enrico Bondi. Ma spicca anche un sottosegretario, Gianfranco Polillo, il sospettato numero uno del rinvio della norma.
Non è ancora chiaro, infatti, come sarà il provvedimento che il Consiglio dei ministri è chiamato a varare la spending review (10 miliardi di tagli quest’anno, il doppio nel 2013, per disinnescare la bomba dell’aumento dell’Iva previsto da Berlusconi). E soprattutto non è chiaro se ci sarà o no un tetto massimo per le pensioni pagate dall’amministrazione pubblica che l’emendamento presentato dal deputato Pdl, Guido Crosetto, indicava in 6mila euro netti mensili. Quell’emendamento è stato ritirato dopo le insistenti “pressioni” da parte del governo e degli stessi colleghi di Crosetto. “Smuovi un campo troppo ampio” gli aveva detto in Commissione proprio Polillo. Il sottosegretario sa bene di cosa parla perché è titolare di una pensione di 9.541,13 euro netti al mese percepita dall’ottobre del 2006 dopo oltre 40 anni di servizio come funzionario della Camera. A pensar male, ovviamente, si dovrebbe ritenere che è la propria pensione a indurre a smussare un provvedimento tutt’altro che simbolico (consentirebbe un risparmio di 2,3 miliardi solo per il pubblico, di 15 estendendolo anche al privato). Ma questo presupporrebbe un’azione retroattiva del taglio che, a eccezione dei pensionati comuni (ai quali hanno bloccato l’adeguamento all’inflazione per gli assegni superiori ai 1.400 euro), come gli esodati, non si dà mai nella legislazione italiana. Forse si tratta invece di una mera rappresentanza di un interesse “di casta”.
Se però si volesse capire chi potrebbe effettivamente essere beneficiato dal mancato tetto, ecco il nome di Elsa Fornero. Il ministro del Lavoro che in pensione ancora non ci è andata ma che gode di una lunga carriera a cui aggiunge importanti consulenze e incarichi prestigiosi. Nel 2010 ha dichiarato un reddito di 402mila euro lordi annui, per cui non è difficile prevedere per lei una pensione al limite della soglia Crosetto. Ma quanti altri “cloni” di queste figure potrebbero essere salvati? Ancora altri esempi, magari proprio considerando l’estensione al privato: il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dichiarato nel 2011 oltre 7 milioni di euro. Il suo collega allo Sviluppo Corrado Passera, oltre 3,5 milioni. Per non parlare di Piero Gnudi, con una dichiarazione dei redditi da 1,7 milioni. Legittimo attendersi che, quando andranno in pensione, saranno ben oltre il tetto.
Prof, generali e grand commis - Diamo ancora un’occhiata alle pensioni di chi è al governo. Il ministro Anna Maria Cancellieri dal novembre 2009 è titolare di una pensione di 6.688,70 euro netti al mese. È il frutto di una lunga carriera nell’amministrazione statale, con l’ingresso al ministero degli Interni nel 1972. Il ministro della Difesa, Ammiraglio Giampaolo Di Paola, percepisce 314.522,64 euro di “pensione provvisoria” pari a circa 20mila euro mensili. È pubblicata, inoltre, sul sito del governo quella del sottosegretario allo Sviluppo economico, Massimo Vari che percepisce 10.253,17 euro netti al mese, frutto di una lunga attività di magistrato fino a ricoprire la carica di vice-presidente emerito della Corte costituzionale. Vari è in attesa di un’altra indennità per gli anni trascorsi alla Corte dei conti europea. Così come è pubblicata la pensione di Andrea Riccardi81.154 euro lordo annui (circa 4mila euro al mese) frutto del lavoro di docente universitario. Impossibile da rintracciare nella dettagliatissima documentazione reddituale del presidente del Consiglio, invece, la pensione di cui è beneficiario dal novembre del 2003 pari a 3.330,11 euro netti mensili frutto dell’attività di docente universitario.
Poca cosa in confronto alle vere pensioni d’oro e poca cosa, soprattutto, rispetto al reddito superiore al milione di euro dichiarato da Mario Monti nel 2011. Vale la pena di considerare, però, che quella pensione che è comunque tre volte medici Asl, fino ai 134mila euro annui dei magistrati. Nella fascia di pensioni superiori ai 4mila euro lordi mensili ci sono 104.793 persone che si riducono all’aumento del tetto individuato (non ci sono dati per fasce superiori ai 4mila euro). I risparmi possono comunque essere molto alti. Basti pensare che l’incidenza degli stipendi dei dirigenti pubblici arriva spesso al 20% dei costi sostenuti con punte del 40% nella Sanità (o, per fare un esempio più piccolo, all’interno della Presidenza del Consiglio). Del resto, basta guardare la è di 22.307 euro netti al mese (avete letto bene, ventiduemila euro al mese); la seconda, integrativa, è di 10.465 euro netti mensili. Come se non bastasse ce n’è una terza, di “soli” 896,38 euro mensili frutto di una pensione “contributiva”. Il totale è di 33.668 euro netti mensili. Se fosse stabilito un tetto di 5 o 6mila euro, Geronzi dovrebbe rinunciare ad almeno 27mila euro. Si pagherebbero almeno 30 esodati. Un po’ meno se si ponesse a 10mila euro il tetto consentito per il cumulo degli assegni. Ma comunque un bel risparmio.
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Sventola la svastica, arrestato dalla Digos.



Festa nelle piazze, tensione a Roma e a Milano.

E' stato identificato e arrestato dalla Digos il giovane che ieri, al Circo Massimo a Roma, sventolava davanti al maxischermo per la finale degli Europei, una bandiera con una svastica. Le accuse sono di "resistenza e di apologia di reato". Il giovane, Enrico Zaccardi, di 23 anni, è già noto alla Digos, era stato videoripreso dalla polizia scientifica mentre inneggiava al "Duce" sventolando la bandiera. A seguito della perquisizione in casa sua è stata sequestrata un'altra bandiera simile a quella utilizzata ieri, volantini ed altro materiale che inneggia al fascismo e "oggetti atti ad offendere". A finire in manette, sempre per resistenza, è stato un altro romano di 19 anni, Ivan Simoncioni, che era in compagnia di Zaccardi, ed è stato ripreso mentre lanciava oggetti verso il maxischermo e il pubblico. Altri componenti del gruppo, tra i quali una donna, sono stati denunciati perché trovati in possesso di materiale pirotecnico.
FESTA NELLE PIAZZE, TENSIONE A ROMA E A MILANO - "Ci hanno fatto sognare. Stasera ci siamo svegliati, ma dobbiamo essere fieri di loro". Ecco, le parole pronunciate a Kiev dal premier Mario Monti subito dopo aver incontrato gli Azzurri negli spogliatoi sono il sentimento dell'Italia che si è radunata davanti ai maxischermi nelle piazze, ma poi alla fine è andata via mogia mogia, anche prima della fine della partita. Purtroppo ci sono stati anche episodi di teppismo, a Milano e Roma. Lancio di fumogeni e petardi contro il maxischermo al Circo Massimo hanno costretto l'organizzazione a spegnere l'impianto prima della fine della partita. Tre le persone fermate. Ma nella Capitale, sfidando il caldo, si sono radunati in 500mila e anche se la festa è durata solo 45 minuti c'é stato anche tanto orgoglio da parte di chi è rimasto fino alla fine sventolando il tricolore. Purtroppo durante il primo tempo sventolata anche la bandiera con la svastica.
Anche a Milano, in piazza Duomo, momenti di tensione, quando migliaia di persone, per motivi da chiarire, dal centro della piazza hanno cominciato a correre. Nella calca qualcuno è caduto, altri sono andati a sbattere sulle transenne: una decina, alla fine, i contusi. A quel punto, con pochi minuti da giocare e la Spagna avanti 4-0, molti tifosi erano già andati via, archiviando una serata di vane speranze, negli Azzurri e in Balotelli in particolare. Sono rimaste quasi tutte invendute le maglie azzurre con la scritta 'Campioni d'Europà offerte dagli ambulanti. Non per i 15 euro che chiedevano, ma perché è stata sofferta e amara la serata dei circa 60 mila milanesi che hanno scelto di guardare con il naso all'insù la finale degli Europei.
Alla fine la festa è delle poche decine di spagnoli, protetti dalla polizia quando un gruppo di esagitati si è avvicinato urlando insulti e minacce. Delusione anche tra gli sfollati in Emilia. Sognavano un successo liberatorio, una vittoria dell'Italia del pallone che li riscattasse dalle sofferenze dell'ultimo mese e mezzo. E invece davanti ai maxischermi allestiti da Rai e Uisp, hanno vinto la stanchezza e lo sconforto. "Troppa Spagna", si lascia andare Stefano, 30 anni, a Mirandola, mentre lo schermo ricorda l'amaro punteggio di questa finale". "Ci credevamo", dice una ragazza con indosso una maglietta azzurra. Davanti alle tv a Bari vecchia l'osservato speciale è stato per tutta la partita Antonio Cassano.
"Ha dato il massimo - commenta Giovanni Loseto, ex difensore e bandiera del Bari - disputando una straordinaria semifinale. Non bisogna dimenticarsi che ha superato in pochi mesi un grave problema fisico, tornando in buona forma". Ma c'e stato anche chi ha ignorato la finale. a Siena, oggi vigilia del Palio, la finale degli europei è passata in secondo piano: c'era la cosiddetta 'prova generale'. Niente maxischermi neppure in valle di Susa. Qui i No Tav hanno organizzata una specie di 'contropartita': clown, sbandieratori, cantanti e rapper alle reti del cantiere a Chiomonte.

Crisi, uno studio del Fmi avverte: “Troppa finanza danneggia l’economia”.




Secondo tre economisti recessione e stagnazione hanno colpito i paesi che hanno ecceduto nel concedere liquidità al settore privato. In particolare quelli in cui i prestiti hanno superato il 110% del Pil. Per questo l'Islanda è stata la prima a essere colpita.


Troppa finanza ed eccessivo credito al settore privato danneggiano l’economia. Parola del Fondo monetario internazionale che in uno studio svolto degli economisti Jean-Louis Arcand, Enrico Berkes e l’italiano Ugo Panizza intitolato “Troppa finanza?“ sottolinea che la crisi attuale ha colpito proprio quei paesi che hanno ecceduto nel concedere liquidità al settore privato, in particolare quelli in cui i prestiti verso i privati hanno superato il 110 per cento del Pil. Una volta superata la soglia del 100 per cento del prodotto interno, spiegano gli studiosi, il settore finanziario perde la sua spinta propulsiva senza riuscire a sostenere la crescita dell’economia nazionale. Questo principio, ritengono i tre scienziati economici, è valido sia in paesi che vivono una situazione di normalità, sia in quelli in cui imperversano tensioni economiche o sociali. Inoltre sottolineano che le risultanze della ricerca non sono collegate a shock dell’offerta, crisi bancarie, basso livello della qualità delle istituzioni o differenti regolamentazioni per supervisionare il sistema bancario.

Gli economisti sostengono che esista una robusta e positiva correlazione fra la presenza di un settore finanziario e la crescita economica, ma solo in quei paesi dove la finanza assume un ruolo marginale o comunque ha medie dimensioni. Infatti continuano ci sono almeno due ragioni per cui la troppa finanza tende ad affossare l’economia. La prima, come illustrato da Minsky nel 1974, consiste nel pericolo che l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia porti ad una grande volatilità del sistema (un eccitamento improvviso degli operatori seguito da un gran pessimismo, le bolle speculative)  facendolo collassare. Mentre Kindleberger nel 1978 ha spiegato che anche in condizioni di crescita, troppa liquidità comporti una potenziale allocazione sbagliata delle risorse.  
Nell’analisi vengono passati in rassegna dati macroeconomici dal 1960 al 2010 di 64 stati. Dopo il 2006 tutti avevano un credito al settore privato che superava il 50 per cento del Pil, in 27 il rapporto andava oltre il 90 per cento e in 17 superavano il 113 per cento. Il record spettava all’Islanda dove il credito superava il 260% del Pil e non a caso, sottolineano gli studiosi, proprio la piccola isola nordica è stata la prima vittima della crisi della finanza globale. Quindi, concludono gli economisti, bisogna superare l’idea di lasciar fare al mercato e senza imporre regole, ma anzi “esistono un gran numero di paesi per cui sarebbe desiderabile una riduzione del settore finanziario”.

L’INCHIESTA DI ANTONIO MAZZEO: Tutti contro la guerra. Il movimento per la pace nel sud Italia da Comiso ad oggi. - Enrico Mazzeo


Vista da fuori, la ex base Nato di Comiso, in provincia di Ragusa, appare identica a quando ospitava, vent’anni fa e oltre, i 112 missili nucleari “Cruise” puntati contro l’est Europa, la Libia, il Corno d’Africa e il Medio oriente. Una lapide, all’ingresso, ricorda l’intitolazione al generale Vincenzo Magliocco, “eroe” delle conquiste coloniali in Africa orientale grazie all’uso di gas ed armi chimiche. Le facciate delle villette e delle palazzine per i militari Usa portano solo lievi segni delle stagioni passate. Ad entrarci, però, scopri un mondo fatto di degrado ed abbandono: porte e persiane divelte, mura sfondate, bagni e impianti elettrici saccheggiati, rifiuti di ogni genere disseminati ovunque. Più in là, protetta dalla rete metallica, la moderna pista aerea dell’aeroporto civile che verrà, se mai verrà. L’anno prossimo sarà quello buono, dicono i politici, ma intanto dallo scalo non decolla nulla mentre la “riconversione” ha già ingurgitato 50 milioni di euro. Adesso, sulla ex base atomica c’è la spada di Damocle di un altro terribile strumento delle guerre post-moderne, il MUOS, il nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari delle forze armate statunitensi. Un terminale lo stanno costruendo a pochi chilometri da Comiso, nella riserva naturale di Niscemi. Uno studio del Politecnico di Torino sull’impatto elettromagnetico delle maxi-antenne ne ha rilevato l’incompatibilità con il traffico aereo. Le emissioni potrebbero fare impazzire i computer di bordo e causare collisioni e incidenti. Se lo strapotere dei Signori di morte avrà la meglio sulla ragione dei giusti, il Mezzogiorno avrà la sua ennesima cattedrale degli sprechi. Lo scorso 4 aprile oltre 60 associazioni e organizzazioni sociali si sono date appuntamento a Comiso per ricordare la straordinaria stagione di lotte per la pace e contro la militarizzazione che prese il via, lì, trent’anni prima. Il 4 aprile 1981, oltre centomila siciliani, giovani, studenti, disoccupati, impiegati e contadini, sfidarono in corteo l’orrore dell’olocausto nucleare. Tra gli animatori più convinti di quel meeting l’allora segretario regionale del Partito comunista, Pio la Torre. Meno di un mese dopo sarebbe caduto sotto il piombo politico-mafioso, altro omicidio eccellente delle centrali mondiali del terrore. Per contrastare ogni anelito di cambiamento e di speranza nel Sud martoriato dal sottosviluppo, i processi di militarizzazione, il dominio criminale. Quella giornata consacrò Comiso in uno degli epicentri della protesta internazionale contro la follia nucleare. Divenne meta dei giovani di tutta Europa. Per condividere entusiasmi, sogni, presidi, digiuni, blocchi stradali e azioni dirette non-violente. Le mobilitazioni non impedirono l’arrivo dei missili e sino al 1990 le rampe mobili dei Cruise si spostarono impunemente nelle strade e nelle campagne della Sicilia. Ma le campagne antinucleari, alla fine, costrinsero le due superpotenze a smantellare le armi nucleari a medio raggio dal continente europeo. Il movimento pacifista dei primi anni ‘80 era composto da una pluralità di soggetti politici e sociali, comitati di base, militanti dei partiti della sinistra storica e della nuova sinistra, autonomi, comunità cristiane, antimilitaristi, nonviolenti, femministe, anarchici, ambientalisti, ecc.. Le lotte assunsero caratteristiche specifiche ed originali. L’interscambio di esperienze, l’accettazione delle differenze, il superamento di divisioni e frammentazioni ideologiche, il confronto e la dialettica tra realtà sociali e culturali sino ad allora contrapposte, le analisi e l’impegno etico-politico maturato in quegli anni, condizioneranno positivamente le successive lotte per la difesa della pace e per il disarmo, contro le spese militari e la criminalità organizzata, per la salvaguardia dell’ambiente e delle risorse del territorio, per la cooperazione dal basso e l’interposizione nonviolenta tra i belligeranti, in solidarietà con i popoli oppressi dalle ingiustizie. I contenuti, le forme di comunicazione e le pratiche di lotta sarebbero poi divenuti patrimonio dei successivi movimenti contro la globalizzazione dell’economia e/o altermondisti ed il nuovo ordine internazionale di matrice neoliberista. Il movimento contro le guerre non sarebbe però più stato lo stesso soprattutto nel Sud Italia, dove intere aree sono state trasformate in avamposto per le “missioni” nazionali, Nato ed extra-Nato nei Balcani, in Caucaso, nel Golfo Persico e nel continente africano. Subito dopo Comiso ci sarebbero stati gli interventi in Libano e in Somalia, i raid contro Tripoli e Bengasi, la prima Guerra del Golfo, i bombardamenti in ex Jugoslavia, il Kosovo, l’Afghanistan, l’Iraq e, lo scorso anno, l’occupazione della Libia e i respingimenti in mare, manu militari, di migliaia di profughi scampati alle barbarie africane. Tranne che alla vigilia dei sanguinosi conflitti che hanno segnato la fine del secolo scorso e l’inizio del terzo millennio (mai durante, mai dopo), le mobilitazioni sono state intense e vissute come quelle della generazione di Comiso. Deboli e sporadiche, invece, le campagne contro l’insediamento o l’ampliamento delle basi militari. Tra le esperienze da ricordare, nei primi anni ’90, quelle per contrastare l’arrivo dei cacciabombardieri F-16 dell’Aeronautica Usa a Crotone e Gioia del Colle, l’ampliamento della base navale di Taranto e dell’aeroporto di Sigonella in Sicilia. Nulla o quasi nulla di fronte alla crescente nuclearizzazione dei Golfi di Taranto, Napoli e Augusta; contro i pericolosissimi transiti di sottomarini e portaerei a propulsione nucleare dallo Stretto di Messina, l’insediamento a Napoli-Capodichino-Lago di Patria di un gigantesco complesso aeronavale della marina Usa ed Africom, la trasformazione dell’aeroporto di Amendola (Foggia) in piattaforma di lancio dei famigerati aerei senza pilota Predator, ecc. Scandaloso e intollerabile il silenzio, a Gioia del Colle, Trapani, Pantelleria, Sigonella e finanche Catania-Fontanarossa, davanti al via vaia di caccia, velivoli cisterna, aerei killer senza pilota della coalizione multinazionale anti-Gheddafi. In controtendenza, fortunatamente, sorgono in Sardegna comitati popolari contro l’insediamento di selve di antenne radar anti-migranti, mentre in Sicilia irrompe il movimento contro il MUOS di Niscemi, emblema dei crimini della globalizzazione (strumento di guerra planetaria, dilapidatore di ingenti risorse finanziarie, bomba elettromagnetica contro l’ambiente e la salute, opera criminogena). La militarizzazione ha avuto una duplice effetto nel Sud Italia: il rafforzamento del controllo sociale, anti-democratico ed anti-popolare; l’arricchimento del blocco di potere che governa i territori. Due fenomeni che hanno radici antiche. La desecretazione dei documenti conservati negli archivi di Roma e Washington ha permesso di fare luce sul “peccato originale” da cui si è sviluppata la rete di alleanze tra gerarchie militari statunitensi, servizi segreti nazionali e stranieri, estremismo neofascista, ambienti massonici, gruppi economici dominanti e criminalità mafiosa. A partire dalla strage di Portella delle Ginestre, l’1 maggio del 1947, primo eccidio di Stato proprio dopo la vittoria del Blocco del popolo alle elezioni regionali siciliane. Le basi militari originate da accordi bilaterali Italia-Stati Uniti o in ambito alleato sono state funzionali a cementare l’illecita alleanza e limitare la sovranità popolare. La partnership tra i poteri militari e la mafia è proseguita sino ai giorni nostri. Lo confermano l’omicidio di Pio La Torre e le inchieste giudiziarie che hanno provato l’attivismo delle cosche criminali negli appalti nelle basi di Sigonella, Crotone, Napoli e Niscemi. Anche per questo i movimenti anti-mafia, le realtà antirazziste e i soggetti no war devono ri-trovare linguaggi e pratiche comuni, saldare legami ed esperienze. Con l’odierna svolta autoritaria e bellicista è in gioco il futuro del paese. Per questo c’è bisogno di una nuova alleanza dal basso. Per ricostruire democrazia e riaffermare con forza che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. 
ANTONIO MAZZEO - Articolo pubblicato in Mosaico di pace, n. 6, giugno 2012

De Cataldo polemico col Fatto: “Basta coi vaffa a tutti, il Colle va tenuto fuori”.



“Non si può sparare a zero su tutto e su tutti, bisogna tenere fuori il Colle che rappresenta la coesione sociale”. Giancarlo De Cataldo magistrato della Corte D’Assise di Roma e scrittore di celebri opere come “Romanzo Criminale” e “Nelle mani giuste” contesta la scelta editoriale del Fatto quotidiano di pubblicare l’intercettazione tra l’ex ministro degli interni Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza dalla Procura di Palermo che indaga sulla Trattativa Stato-mafia, e il consulente giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio. Per quanto riguarda la Trattativa, De Cataldo è convinto della necessità di arrivare a una verità storica più che giudiziaria. Cosa ha ottenuto la mafia attraverso il biennio stragista del 1992-1993 e sopratutto con l’attentato fallito all’Olimpico? “Bisogna chiedersi come mai oggi la mafia è silente, è stata indebolita o ha più potere? – afferma De Cataldo – storicamente se la mafia fa poco rumore bisogna avere paura, sopratutto a guardare il Pil che tutte le mafie nel loro complesso riescono a muovere oggi, pari a quello dei paesi del G8″. La video-intervista al magistrato-scrittore è stata realizzata a Viterbo dove è in corso il festival culturale Caffeina e dove De Cataldo ieri sera ha parlato di Poesia di Irene Buscemi (guarda l’intervista integrale)

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/07/01/trattativa-cataldo-polemizza-fatto-basta-vaffa-tutti-colle-tenuto-fuori/200670/

Europei 2012, fermato l’uomo che ha sparato ferendo bimba di 10 anni a Como

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"Ho sparato alcuni colpi verso un campo e non mi sono assolutamente accorto di aver centrato quell'auto" ha ammesso l'uomo, 50 anni, assicuratore incensurato, portato in carcere al Bassone di Como. IN casa trovato un arsenale, balcone trasformato in poligono di tiro.

“Ho sparato alcuni colpi verso un campo e non mi sono assolutamente accorto di aver centrato quell’auto”. Avrebbe ammesso le sue responsabilità l’assicuratore 50enne, incensurato, portato in carcere al Bassone di Como nella serata di ieri dopo tre ore di interrogatorio nell’ambito delle indagini sul ferimento della piccola, 10 anni, avvenuta poco prima della mezzanotte di giovedì scorso durante i festeggiamenti per la vittoria dell’Italia alla semifinale degli Europei di calcio. Nell’abitazione dell’uomo, che risiede poco lontano dal luogo dell’episodio, i carabinieri hanno trovato diverse armi: sette tra pistole e fucili, tutti con regolari permessi rilasciati dalla Questura di Como. In casa c’erano 13 armi fra pistole, fucili e la carabina calibro 22 utilizzata giovedì scorso, un vero arsenale. E’ stato proprio vagliando i detentori di tali permessi residenti nella zona di Monte Olimpino che gli investigatori coordinati dal pm Mariano Fadda della Procura di Como, sono risaliti all’assicuratore che ora deve rispondere di tentato omicidio.
Il cinquantenne abita in via Canova, una traversa di via Bellinzona che si affaccia su una via parallela al luogo in cui la bimba, a bordo di un’auto con i genitori, era stata colpita. Da quanto è stato possibile ricostruire l’uomo dopo le 23.30 di giovedì era uscito sul balcone di casa e aveva sparato per festeggiare, utilizzando una delle pistole regolarmente dichiarate. Il balcone si trova a un centinaio di metri in linea d’aria dal punto in cui transitava la Volkswagen con a bordo la famigliola di Ponte Chiasso. La bambina, ferita alla spalla, è stata nel frattempo operata l’altro ieri ed è stata dichiarata fuori pericolo.
E’ stata una vera lotta contro il tempo quella condotta dagli inquirenti e dagli investigatori di Como. Il timore era che questa sera in caso di eventuale vittoria l’uomo potesse ripetere il folle gesto. Il fermato, L.Z., è un impiegato 50enne di Como. Il 50enne ha dichiarato in un primo momento di aver mirato verso la montagnola di fronte alla propria abitazione, poi ha ammesso le proprie responsabilità, dichiarando di aver abbassato il tiro verso un palo della segnaletica stradale, proprio a pochissima distanza dalla folla festante, solo al fine di mettere alla prova la propria mira e di fatto rischiando di compiere una strage, visto che a quella notevole distanza, circa 150 metri, anche il più esperto dei tiratori avrebbe difficoltà a centrare un bersaglio così piccolo. Gli uomini del colonnello Giovanni Inghilleri erano giunti subito a una lista di sospettati, passando al setaccio tutti gli abitanti del quartiere in possesso di regolare porto d’armi. Ma è stata la fedele ricostruzione della scena del crimine, utilizzando un laser pointer, cioè un dispositivo di puntamento al laser, a permettere di localizzare con un margine di errore ridottissimo l’abitazione dalla quale è partito il colpo in questione. Fondamentale la testimonianza dei genitori della piccola, grazie alla quale sono stati individuate le esatte posizioni. Al termine dell’interrogatorio l’uomo è stato accompagnato al Bassone di Como. Sia le armi (legalmente detenute) che le munizioni (risultate invece in numero enormemente superiore a quello previsto) sono state poste sotto sequestro. L’indagato pare si esercitasse con una certa frequenza sparando direttamente dalla propria abitazione, trasformata in un poligono di tiro con tanto di bersagli artigianali messi vicino al balcone.