martedì 31 luglio 2012

Gabanelli: “Sono meschine le accuse alla stampa sul caso di Loris D’Ambrosio”. - Silvia Truzzi

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Intervista alla conduttrice di Report per chiederle cosa ne pensa del brutto clima che si è creato intorno alla libertà di informazione. “Continuerò a fare il mio lavoro come ho sempre fatto... sono anni che ciclicamente tira una brutta aria, non mi impressiona, ma se ci sarà da battersi contro il bavaglio, io ci sarò”.

Si torna a parlare di legge bavaglio, con concordia bipartisan (ammesso che di questi tempi inciucisti il termine abbia ancora un senso), complice la distrazione delle ferie d’agosto: e vale tutto, perfino la scomparsa del consigliere giuridico del QuirinaleMilena Gabanelli, conduttrice di Report su Rai3, ha abituato gli italiani a un giornalismo d’inchiesta che si nutre di fatti, nomi e relazioni. Le abbiamo chiesto cosa pensa dell’aria brutta che tira attorno alla libertà d’informazione. La risposta arriva in un secondo netto: “Continuerò a fare il mio lavoro come ho sempre fatto… sono anni che ciclicamente tira una brutta aria, non mi impressiona, ma se ci sarà da battersi contro il bavaglio, io ci sarò”.
Eugenio Scalfari, a proposito della morte di Loris D’Ambrosio, ha scritto: “Che sia attribuibile alla campagna d’insinuazioni l’infarto che l’ha fulminato è un’ipotesi, ma è certo che quelle insinuazioni e quelle accuse lo avevano ferito”. Più di un dito puntato.
Le insinuazioni feriscono sempre, il magistrato e l’uomo qualunque, e quando si ‘insinua’ occorrono buone ragioni, ma questo non si può certo normare… dipende dalla professionalità e dall’etica del singolo giornalista.
Accadde anche a lei, quando nel 2011 morì Mario Di Carlo, ex assessore della Regione Lazio, che si era dimesso a causa di una puntata di Report. Francesco Rutelli disse: “Report l’ha fatto ammalare”.
Disse che un fuori onda da noi trasmesso era stato la causa del suo tumore: questo riportarono le agenzie. Ho pensato che quando si perde una persona a cui si è molto legati si cerca sempre di trovare una causa. L’emotività del momento fa dire tante cose, sulle quali è anche giusto riflettere, ma strumentalizzare eventi drammatici è meschino e non porta da nessuna parte.
Su questo giornale Barbara Spinelli ricordava che alcuni imputati di Mani Pulite si tolsero la vita perché coinvolti nell’inchiesta: seguendo i ragionamenti di questi giorni, non si sarebbe dovuta fare l’inchiesta. I ragionamenti non sono tutti uguali, un conto è l’accusa diretta, un conto è la riflessione sul mestiere. Io sono andata spesso a dormire con il dubbio di aver usato una parola di troppo. Però mi mette a disagio speculare sulle supposizioni, preferirei vedere maggiori energie investite nel portare il Paese fuori dal pantano, quello che porta imprenditori a suicidarsi perché non sono in grado di sopportare il dolore del licenziamento dei loro operai con i figli da mandare a scuola. Di queste vite perdute sappiamo con certezza le ragioni.
Cosa avrebbero dovuto fare i giornali nel caso delle intercettazioni tra il Quirinale e Mancino? Girarsi dall’altra parte? Dopotutto la trattativa Stato-mafia non è un fatterello da poco, di cui si possa pensare di non dar conto all’opinione pubblica. Della trattativa Stato-mafia non si è chiarito nulla e dubito anche sul fatto che sia possibile… Dopodiché i giornalisti, in tutto il mondo (democratico), danno conto delle informazioni di cui vengono in possesso: questo è il loro, il nostro mestiere.
Si torna a parlare di legge bavaglio: dal Pd, passando per il governo tecnico per finire al Pdl, sembrano tutti d’accordo: persino il Capo dello Stato si è espresso in tal senso. Quando voleva farlo Berlusconi la stampa insorse unita, a colpi di post-it gialli sui giornali…
Quando il politico è coinvolto, è normale che si ribelli e faccia proclami. Finché quella proposta di legge non la vedo scritta però non saprei che dire.
Luciano Violante ha scritto sull’Unità: si potrebbe cominciare dalla messa al bando del “giornalismo di trascrizione”, quello che consiste nel trascrivere ore e ore di telefonate? Si tratta insomma di contribuire a formare un’opinione pubblica che si nutra di notizie e di commenti, non di veleni.
Cosa eliminare dalle trascrizioni prima che diventino accessibili non lo stabilisce il giornalista. Poi occorre valutare caso per caso. Ci sono trascrizioni molto esplicite che l’opinione pubblica è bene conosca, tanto più quando coinvolgono i nostri amministratori. Invece la politica non sta dando un bello spettacolo di sé: questo sì sarebbe da mettere al bando.
Sempre Violante: “Chiediamo responsabilità ai magistrati, ai politici, ai funzionari pubblici, ma quelli che formano la nostra opinione non rispondono?”. Io rispondo in tribunale abbastanza spesso… Se Violante si riferisce alla pubblicazione di atti coperti da segreto, bè su questo esiste già una legge che punisce chi la viola, ma il primo a violarla è il pubblico ufficiale che ha passato le informazioni. La mia posizione in questo caso è molto chiara: non voglio essere complice di chi commette un reato e quindi aspetto che gli atti siano depositati.
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Londra 2012, delusione azzurra nel nuoto: Federica Pellegrini giù dal podio. - Lorenzo Vendemiale

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Non solo il flop dei nuotatori: quella di oggi è stata una giornata avarissima di soddisfazioni per la spedizione italiana, che non ha portato a casa nessuna medaglia. Oltre al fallimento sportivo, ecco la polemica: eliminato in batteria, Filippo Magnini ha sparato a zero contro la federazione.

Adesso è ufficiale: per la Pellegrini e per tutta l’Italia del nuoto sono Giochi da dimenticare. Non basta la Fede, in due giorni non si fanno miracoli: svanisce l’illusione di una resurrezione generata dalla semifinale di ieri, vinta in apparente scioltezza. L’impresa di Pechino (quando al flop nei 400 stile seguì una medaglia d’oro) è il passato. Nel presente neanche i 200 stile libero, la sua gara preferita, riescono a rivitalizzare Federica.
In affanno, mai in corsa per una medaglia. Chiude ancora quinta, con un modesto 1’ 56’’ 63; tre secondi lontana dalla medaglia d’oro che va alla statunitense Allison Schmitt. Un abisso. E adesso cominciano i processi. E’ l’unica certezza di una giornata che apre più d’un interrogativo nella squadra azzurra. Perché se ti chiami Federica Pellegrini le chiacchiere sullo spirito olimpico e gli aforismi di De Coubertin valgono zero. Puoi solo vincere. E’ il peso di essere la numero uno al mondo e di voler stare sempre sotto i riflettori, tra calendari hot e dichiarazioni shock: i successi finiscono sempre in prima pagina. E ancor di più le sconfitte.
E perché a dare il via alle polemiche è proprio Federica. “Speravo di nuotare più veloce, ma proprio non ne avevo. Non ero da medaglia, purtroppo in queste Olimpiadi non stiamo brillando”. Parole che alludono a quanto detto dal suo allenatore – secondo cui la Pellegrini aveva “nelle braccia” la medaglia – e in cui si sente l’eco della voce di Filippo Magnini. L’altra metà della coppia più chiacchierata dello sport italiano: il “Magno” furioso, senza nulla di epico.
In acqua una doppia, cocente eliminazione in batteria. Di lui si parla solo per le dichiarazioni al veleno a bordo vasca. L’altro giorno se l’era presa con i compagni della staffetta 4×100 che si è fermata al settimo posto: “Non posso fare sempre tutto da solo”, aveva detto. Oggi, dopo la disastrosa eliminazione nelle batterie mattutine della gara individuale (solo il 18° tempo), la colpa è degli allenatori: “Mi sento pesante, è da gennaio che non sto bene. A certi appuntamenti bisogna presentarsi in forma e non è stato così, abbiamo sbagliato qualcosa. Tutta la velocità ha cannato completamente la preparazione olimpica, da settembre ci vuole una rivoluzione”.
E’ un ‘uno contro tutti’ che non giova troppo alla sua immagine di capitano. “Sono uno che va forte, io”, dice Magnini. Ed è vero: ce lo ricordiamo bene ai Mondiali di Montreal del 2005, quando vinse i 100 stile, la gara regina, con la seconda miglior prestazione all-time. Ed è per questo che fa male vederlo fare la figura della comparsa. Discorso che vale anche per Luca Dotto, argento mondiale nei 50 l’anno scorso e oggi solo 22° nei 100; o per la staffetta 4×200, undicesima e fuori dalla finale.
Basta parole. “Quando si perde bisogna unirsi per ripartire”. E’ il tweet con cui Magnini saluta questi Giochi, in parte rettificando le parole roventi pronunciate in mattinata. Ed è quanto spera l’Italia del nuoto. Che Federica e Filippo oggi rappresentano una volta di più, con la loro delusione. Il nostro movimento vive un’involuzione senza fine. Le sei medaglie di Sidney 2000 sono un lontano ricordo, e anche le due di Atene e Pechino: a quattro giorni dalla fine del programma in vasca la possibilità di chiudere a quota zero è sempre più concreta.
E il medagliere piange. Anche nella scherma, con il torneo di fioretto individuale maschile. Andrea Baldini aveva aspettato questo giorno da una vita. Da quando quattro anni fa era stato escluso dai Giochi di Pechino per doping. Il famoso mistero del diuretico assunto sì ma chissà come (il tribunale antidoping di fatto assolse Baldini, comminandogli soltanto sei mesi di squalifica per “negligenza”); e del presunto complotto ordito ai suoi danni per favorire la convocazione di Cassarà (che lo sostituì).
Oggi Cassarà è stato eliminato ai quarti, Baldini si è preso la rivincita di essere il migliore degli azzurri. Magra consolazione, perché la medaglia è sfumata di un soffio. Battuto in semifinale dalle lunghe leve del cinese Lei. E poi nella finalina per il bronzo dal koreano Choi, in una sfida tesissima, condizionata da mille problemi tecnici e da alcune decisioni controverse della giuria, ripresa per i capelli dopo uno svantaggio schiacciante e persa al minuto supplementare.
In una giornata così, ci piace raccontare le emozioni che regala l’Olimpiade. E fa nulla che non riguardino gli azzurri. Chiudiamo col sorriso di un ragazzo egiziano di 21 anni Alaaeldin Mohamed El Sayed Abouelkassem, nome impronunciabile, lungo quanto questo spilungone di un metro e novanta dalla faccia pulita. Oggi ha eliminato il nostro Cassarà, numero 1 al mondo e comunque vada la finale conquisterà la prima medaglia egiziana in queste Olimpiadi e nella storia della scherma. In casa Italia è tempo di processi sommari. Per fortuna lo spettacolo dei Giochi continua, anche senza di noi.
Tiro al volo e arco - Azzurri in chiaroscuro, invece, per quanto riguarda il tiro a volo specialità skeet. Luigi Agostino Lodde, infatti, è arrivato quinto nella finale vinta dal campione olimpico in carica, l’americano Vincent Hancock. Male anche nell’arco: dopo Marco Galiazzo, anche Michele Frangilli eliminato nell’arco individuale. L’azzurro, oro a squadre nella prima giornata olimpica, ha ceduto all’ucraino Dmytro Hrachov per 7-3 ai sedicesimi di finale.
Tennis – Eliminati al primo turno nel torneo di doppio maschile gli azzurri Daniele Bracciali eAndreas Seppi. La coppia italiana è stata battuta, sul campo 15 di Wimbledon, per 4-6, 7-6, 6-4 dai cechi Berdych-Stepanek in due ore e tre minuti. E’ andata meglio alla coppia composta da Sara Errani e Roberta Vinci, che si sono qualificate per i quarti di finale del torneo di doppio femminile. Le azzurre, testa di serie numero due del tabellone olimpico, hanno battuto in tre set le slovene Andreja Klepac e Katarina Srebotnik con il punteggio di 7-5, 4-6, 6-4. 
Flavia Pennetta e Francesca Schiavone hanno invece superato il primo turno del doppio femminile dei Giochi olimpici di Londra. Sull’erba di Wimbledon, le due azzurre hanno battuto, per 7-6 (4) 6-4, le spagnole Anabel Medina Garrigues e Arantxa Parra Santonja.
Canottaggio - Italia qualificata alla finale nel doppio maschile. La coppia formata da Alessio Sartori e Romano Battisti è arrivata terza. A vincere la batteria l’Argentina col tempo di 6’19“40, seconda la Nuova Zelanda con 6’19“79. Terzi gli azzurri con 6’20’68. Non ce la fa invece il quattro senza pesi leggeri maschile con GorettiMianiCaianiello e Danesin. Con un incredibile rush finale il quattro senza pesante acciuffa la semifinale arrivando terzo nel ripescaggio.
Pallavolo maschile - Successo per 3-1 dell’Italvolley sull’Argentina nel secondo turno del Gruppo A. Per gli azzurri di Mauro Berruto i parziali di 25-17, 21-25, 25-17, 25-23. Nel quarto set i gauchos che hanno annullato cinque match-ball. Un successo che rimette in corsa per la qualificazione l’Italia.

“Prima il voto, poi gli esami”: scambio politico-mafioso nei corsi di formazione. - Lucio Musolino.

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Un'inchiesta della Dda di Reggio Calabria porta in carcere l'ex consigliere comunale Dominique Suraci, fedelissimo del governatore Scopelliti. I pm: "Minacce di bocciatura per ottenere consensi". Il politico è legato all'avvocato Mafrici, coinvolto nello scandalo Lega-Belisto.


L’amica del politico in odor di mafia: “I voti, i voti, i voti, dammi i voti. Lo capisci che questo è voto di scambio”. Il magistrato: “La ‘ndrangheta è un pericolo per la democrazia”. Reggio trema. L’ex consigliere comunale Dominique Suraci era il referente politico della cosca De Stefano-Tegano di Archi. Un altro fedelissimo del governatore della CalabriaGiuseppe Scopelliti, è finito in manette nell’ambito della inchieste “Sistema” e “Assenzio”, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia.
Concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione elettorale, associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta e truffa allo scopo di ricevere erogazioni pubbliche. C’è tutto nell’indagine condotta dalla Dia, dai carabinieri e dalla guardia di finanza. Dominique Suraci era il dominus di un sistema criminale nel settore della grande distribuzione alimentare. Un sistema che, l’ex consigliere di centrodestra ha sfruttato anche in chiave elettorale. Alle elezioni del 2007, infatti, il politico imprenditore è stato eletto con 1205 voti che gli hanno consentito a Palazzo San Giorgio di ricoprire il ruolo di presidente della seconda Commissione consiliare “Programmazione e servizi generali”. Voti rastrellati grazie all’ex direttore operativo della Multiservizi (la società mista sciolta per mafia), Pino Rechichi, e all’indagata Costanza Ada Riggio, titolare del centro studi “Corrado Alvaro”. Il gip ha concesso gli arresti domiciliari a quest’ultima che, secondo gli inquirenti, ha convogliato su Suraci i “consensi” dei partecipanti ai corsi di formazione, attraverso la minaccia che «altrimenti sarebbero stati bocciati».
Lo scambio di voto è stato accertato attraverso le intercettazioni telefoniche e ambientali eseguite dalla Direzione investigativa antimafia. Raccapriccianti, e allo stesso tempo significativa di come viene “pilotato” il consenso in riva allo Stretto, sono le conversazioni registrate dagli inquirenti. “Voti blindati”. Così Costanza Ada Riggio ha definito il suo sostegno al consigliere Suraci, perfettamente consapevole che, per essere favoriti, i ragazzi dei corsi di formazione venivano sottoposti a un ricatto: “Perché sanno che se io li verifico… a giugno a luglio loro devono fare esami, a giugno, quindi hai capito, l’elezioni vengono prima degli esami (…) io sai che gli dico: questo è un voto di scambio, agli alunni, questo è un voto di scambio, se mi escono i voti, poi usciranno i voti, così faccio che ti pare che gli dici: mi voti? (richiesta ndr). Mi devi votare (perentorio ndr), mi devi dare un voto, dammi la via, dammi il nome e la via, mi deve dare il voto (perentorio ndr.)… è finito il tempo ti do questo bigliettino”.
Tra i grandi elettori di Suraci, c’era l’ex direttore operativo della Multiservizi, Pino Rechichi, già condannato a 16 anni di carcere perché considerato un uomo della cosca Tegano. A lui, Dominique Suraci avrebbe consegnato una serie di nominativi che dovevano rientrare tra le 131 assunzioni che la società mista ha effettuato pochi giorni prima delle elezioni comunali. I favori si ricevono, ma si fanno anche.
E se da una parte le cosche ti danno una mano, dall’altra fai di tutto per restituire la “cortesia”. Voti, soldi, indebite percezioni di fondi pubblici, false fatture e crediti di imposta taroccati. Sullo sfondo la “Reggio bene”, habitat naturale della zona grigia asservita e allo stesso sfruttatrice di certi ambienti criminali. La “Reggio bene” che ha entrature importanti anche a Milano. Non è un caso, infatti, che l’ex consigliere arrestato era intimo amico del fantomatico avvocato Bruno Mafrici, indagato nell’inchiesta sui rapporti tra la ‘ndrangheta e la Lega Nord. In quest’ottica Suraci è stato protagonista di un’azione volta a favorire gli interessi della ‘ndrangheta garantendo ad un ampio numero di operatori economici, legati alle cosche, la possibilità di partecipare alla fornitura dei supermercati a marchio Sma, di proprietà della Sgs Group, intestata alla compagna dell’ex consigliere comunale per quale sono stati disposti gli arresti domiciliari.
L’inchiesta della Dia, guidata dal colonnello Gianfranco Ardizzone, ha svelato i retroscena di una vicenda emblematica per comprendere l’universo Suraci: quella della Vally Calabria Srl, una società che ha gestito per qualche tempo numerosi supermercati fino alla bancarotta fraudolenta avvenuta un attimo dopo la cessione formale dell’azienda dai reali responsabili del fallimento alle “teste di legno” «L’impresa di Suraci – ha sottolineato il procuratore Sferlazza – rappresenta l’espressione della ‘ndrangheta che è un pericolo per la democrazia». L’operazione di oggi, coordinata dal sostituto procuratore Stefano Musolino, ha portato al sequestro di beni per circa 130 milioni di euro. Oltre che per le società coinvolte nelle indagini, sono stati applicati i sigilli a una grossa e lussuosa imbarcazione attraccata nel porto di Napoli.

Caso Margherita, Cassazione annulla conferma arresto per ex tesoriere Lusi.

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Lo ha stabilito la seconda sezione feriale degli ermellini, che ha annullato il provvedimento del Riesame che confermava quello emesso dal gip del tribunale di Roma. "Siamo molto emozionati - hanno detto gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono, difensori di Lusi - per questa decisione in favore del nostro assistito. Abbiamo ottenuto una prima ragione".

La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame che confermava l’ordinanza emessa dal gip di Roma per l’ex tesoriere della Margerita Luigi Lusi. Ora gli atti sono stati rinviati al Tribunale del Riesame per una nuova valutazione. Lusi comunque rimane in carcere. Lo ha stabilito la seconda sezione feriale degli ermellini, che ha annullato il provvedimento emesso dal gip del tribunale di Roma per carenza di motivazione. “Siamo molto emozionati – hanno detto gli avvocati Luca Petrucci e Renato Archidiacono, difensori di Lusi – per questa decisione in favore del nostro assistito. Abbiamo ottenuto una prima ragione”. I legali chiederanno la scarcerazione. L’ordinanza annullata con è il provvedimento emesso dal tribunale del Riesame di Roma il 24 maggio scorso, che confermò la misura cautelare in carcere per Lusi disposta dal gip Simonetta D’Alessandro il 3 maggio 2012, per l’ipotesi di reato di associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita. 
Il giudice per le indagini preliminari di Roma,Simonetta d’Alessandro nel suo provvedimento aveva parlato di “un‘associazione a delinquere votata alla spoliazione, non solo al saccheggio di soldi pubblici, ma alla delegittimazione di un partito”. Precisamente la misura cautelare era stata disposta per pericolo di inquinamento delle prove, per l’ex tesoriere accusato di aver “rubato” oltre 22 milioni di euro. Per il gip il senatore era stato arrestato non solo perché ha rubato, mentito, ma anche perché ha prodotto un effetto “devastante” sulla democrazia con il suo comportamento, avvantaggiato dalla moglie, dai collaboratori, dai commercialisti. “‘Lo spoglio è stato operato dal Lusi in un quadro associativo, e – argomenta il giudice nell’ordine di cattura – non poteva essere diversamente, attesa l’entità delle somme e l’intuibile necessarietà di complicità interne, anche tecniche. Quadro associativo che non si identifica nel partito, ma che ha operato in danno del partito”. 
Lusi è nel carcere di Rebibbia dal 22 giugno scorso dopo che il Senato aveva dato l’ok al suo arresto. E’ accusato di di associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita di fondi dalle casse del partito del quale era tesoriere. Il 9 luglio scorso la moglie, Giovanna Petricone era stata scarcerata dal gip di Roma. Si trovava agli arresti domiciliari dal 3 maggio. L’ex tesoriere della Margherita non lascerà il carcere: l’annullamento della Cassazione, infatti, non fa venir meno al momento le esigenze cautelari, che dovranno essere vagliate di nuovo dal Riesame. Entro un mese le motivazioni dei giudici della sezione feriale saranno depositate: a quelle il Riesame della capitale dovrà attenersi per rivalutare il caso. ”Dopo l’annullamento da parte della Cassazione dell’ordinanza a carico del senatore Lusi, che ha rilevato una mancanza di motivazioni, solleciteremo presto il gip per rimettere in libertà Lusi” annuncia l’avvocato Luca Petrucci. 

L’Italia civile contro il regime. - Paolo Flores d'Arcais




Il regime continua. Formigoni, governatore berlusconiano, di fronte a indagini che svelano ciclopici “do ut des” con faccendieri in galera dichiara “tutto qua?”, ufficializzando l’indigenza assoluta della fibra morale di un intero ceto politico. Nicolò Zanon, membro berlusconiano del Csm, propone il procedimento disciplinare contro Roberto Scarpinato che ha ricordato una verità nota anche ai sassi: nelle commemorazioni per Borsellino si vedono “talora nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità” per i quali Borsellino ha sacrificato la vita. 

Due gesti impensabili in ogni altro paese europeo, da noi di ordinaria tracotanza partitocratica. Lo spread istituzionale, politico, morale, è tutto in questi due episodi, e nella “banalità del male” con cui ogni giorno le nomenklature ne compiono di analoghi.

La vedova di Paolo Borsellino, Agnese, con i figli Rita e Salvatore, ha reagito facendo propria “ogni parola della lettera emozionante con la quale Roberto Scarpinato si è rivolto a Paolo lo scorso 19 luglio in via D’Amelio”. E’ evidente che di Borsellino si vuole ormai uccidere la memoria. L’Italia civile ha cominciato a reagire, e speriamo che nei prossimi giorni insorga moralmente con i suoi “intellettuali pubblici” di recente troppo spesso afoni. 

Formigoni e Zanon non fanno scandalo. La partitocrazia oscilla tra compiacimento, omertoso silenzio o polemica “specchio per le allodole”. Qualche lettore ci accusa talvolta di non distinguere tra le forze politiche, cadendo nel qualunquismo. Ma se anche in casi del genere non sanno distinguersi tra loro come il bianco dal nero, è colpa nostra? Pd e berlusconiani si stanno accordando su una legge elettorale peggio della “porcata”, e se non ci riusciranno è solo perché l’ometto di Arcore vuole ancora di più e non sa bene cosa.

Ma di fronte alla debacle dei partiti, è ormai acclarato anche il fallimento dei “tecnici” liberisti. Tutte le loro misure (che tolgono ai poveri e impoveriscano i ceti medi, lasciando a evasori, ladri e banchieri ogni privilegio) falliscono, perché solo una redistribuzione delle ricchezze in chiave neo-keynesiana può invertire la deriva. Partitocrazia e “tecnici” di Monti sono ormai la padella e la brace.

Se ne esce solo con una classe dirigente del tutto nuova, da selezionare nella società civile. Il Terzo Stato sarà capace di esprimerla? O subirà il monopolio di un establishment politico-finanziario ammanicato che ci sta portando alla rovina?



http://temi.repubblica.it/micromega-online/litalia-civile-contro-il-regime/

Autostrade siciliane, Benetton in corsa per la privatizzazione. - Loredana Ales



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L’ultima polemica alla vigilia dell’addio alla presidenza della Regione siciliana di Raffaele Lombardo riguarda il Cas (Consorzio autostrade siciliane) costituito nel 1997 dalla unificazione dei tre distinti Consorzi concessionari Anas operanti in Sicilia per la costruzione e gestione delle autostrade Messina-Catania-Siracusa, Messina-Palermo e Siracusa-Gela.
Ieri, infatti, nell’ultima corsa alle nomine era stata avanzata la proposta di mettere a capo del consorzio Nino Gazzara un fedelissimo del governatore ex Pdl e ora all’Mpa che avrebbe posto fine al commissariamento della società. Che la gestione dell’enorme patrimonio del Cas, pari a 36 milioni di euro, faccia gola è dimostrato dal fatto che anche il gruppo Benetton starebbe trattando per concorrere alla privatizzazione delle autostrade siciliane.
L’azienda veneta, che fa capo ad Alessandro Benetton, avrebbe già pronto un capitale finanziario da investire nel campo delle infrastrutture, con azioni che punterebbero ad aeroporti, porti (per le autostrade del mare) ma anche al sistema stradale. Da qui l’interesse per la rete viaria che appartiene al Consorzio siciliano, dove qualche tempo fa Benetton ha incrementato la presenza della catena Autogrill e dove ora medita di mettere radici anche sull’asfalto.
Sulla privatizzazione del consorzio delle autostrade siciliane è in corso da tempo un dibattito accesso: si cerca di monetizzare il valore del patrimonio autostradale dell’ente a partecipazione regionale che comprende i 181 chilometri della Messina-Palermo, i 76 della Messina-Catania e i 41 della Siracusa-Rosolini che dovrebbe arrivare fino a Gela.
Il Cas succede in tutti i rapporti giuridici posti in essere dai tre diversi Consorzi autostradali Messina-Palermo, Messina-Catania-Siracusa e Siracusa-Gela. Attualmente, la sua natura giuridica è di ente pubblico regionale non economico sottoposto al controllo della Regione Siciliana.

Buio sul gigante. Se l'India va in panne. - Federico Rampini


Buio sul gigante Se l'India va in panne

Milioni di persone sono rimaste al buio a causa della "madre di tutti i blackout". Interruzioni della corrente elettrica affliggono il subcontinente da anni, A far deragliare il miracolo economico nella seconda nazione più popolosa al mondo è l'amministrazione pubblica: inerte e corrotta. Per far fronte al rischio di una crisi, il Paese si affida al premier.
Trecentosessanta milioni immersi nell'oscurità, senz'acqua e senza luce, paralizzati sui treni e sui metrò, negli ingorghi del traffico impazzito senza semafori, nel calore soffocante senza il sollievo di aria condizionata o ventilatori. "La madre di tutti i blackout" ha colpito ieri. Non poteva che accadere in India. Dalla capitale New Delhi agli Stati del Rajasthan, Punjab, Uttar Pradesh, Kashmir e altri ancora: quasi un terzo della popolazione indiana, l'equivalente di tutta l'Unione europea è rimasta senza elettricità. Un evento clamoroso da qualsiasi altra parte del mondo, eppure in India non ha quasi suscitato sorpresa. È dal 1951 che l'India fallisce regolarmente negli obiettivi che si fissa per la produzione di energia. È uno dei paradossi di un Paese che ha compiuto tanti miracoli eppure continua ad arrendersi davanti al suo avversario più feroce e implacabile: la sua stessa amministrazione pubblica.

"La burocrazia indiana: l'unica potenza ad avere sconfitto James Bond". La battuta amara circola a New Delhi da quando la produzione dell'ultimo film di 007 ha dovuto rinunciare alle riprese sui treni.

Un burocrate locale si era incaponito a negare il permesso. Per riuscire (forse) a superare l'ostacolo ci sarebbero voluti dei mesi: troppo per i tempi del cinema. L'agente segreto di Sua Maestà è l'ennesima vittima illustre di un flagello che può far deragliare il miracolo economico nella seconda nazione più popolosa del mondo. Almeno la disavventura di James Bond fa notizia. Invece un miliardo di cittadini indiani "ostaggi" della loro pubblica amministrazione non hanno nemmeno questa piccola compensazione morale. Eppure ci sono fra loro, insieme ai più poveri che subiscono le angherìe peggiori, tante vittime "eccellenti" nelle professioni del ceto medioalto che rappresentano il volto più avanzato della nazione. Per esempio i residenti di Gurgaon: un milione e mezzo di persone, in una "neopoli" o New City sorta alla periferia di Delhi con la vocazione di ospitare multinazionali, centri informatici, colossi del software. A Gurgaon hanno la loro sede indiana Google e American Express.

La città è stata oggetto di una protesta singolare: ancora prima della "madre di tutti i blackout", gli abitanti erano scesi in piazza all'inizio di luglio, "solo" per chiedere la corrente elettrica. Nonostante la sua modernità, Gurgaon è afflitta dalla stessa sventura che in altre aree del paese non fa neppure notizia: i blackout a singhiozzo, a tutte le ore del giorno. A Gurgaon le multinazionali debbono dotarsi di gruppi elettrogeni, per garantire che le loro banche dati non siano paralizzate dai blackout. Ma quando i loro ingegneri informatici rientrano a casa, con 40 gradi all'ombra, vorrebbero trovare il frigo funzionante. "I monsoni sono in ritardo, quindi è basso il corso dei fiumi che alimentano i bacini delle dighe idroelettriche. E poi questa è la stagione della semina, la priorità nell'erogazione di corrente va data ai contadini". Questa è la spiegazione ufficiale, fornita da Sanjiv Chopra che dirige la utility elettrica Dhbvn. Lascia attoniti: una superpotenza economica che è la sede di colossi hi-tech come Infosys e Tata, ancora dipende dai monsoni per accendere la luce. 

Lo spaventoso ritardo nelle infrastrutture (l'energia è solo un esempio, autostrade, ferrovie e aeroporti non stanno meglio) si può ricondurre in buona parte allo stesso problema: una pubblica amministrazione inerte, scassata e corrotta. "La peggiore di tutta l'Asia": così la definisce uno studio autorevole, la classifica redatta dalla Political and Economic Risk Consultancy con sede a Hong Kong, per confrontare le nazionidel"miracolod'Oriente". L'India è ultima: peggio di Vietnam, Indonesia, Filippine, Cina. Riuscirà il mitico Babu  -  come viene chiamato familiarmente lo statale di New Delhi  -  a far deragliare il boom dell'India? I segnali di crisi ci sono. La crescita è rallentata. Dopo un periodo in cui il Pil aumentava regolarmente dell'8% all'anno, l'anno scorso è cresciuto del 6,5% e quest'anno potrebbe chiudersi con un +5%. Sono ritmi di sviluppo irraggiungibili per qualsiasi nazione occidentale; ma per l'elefante indiano rappresentano una frenata. 

A questo si aggiungono altri segnali d'allarme. Standard&Poor's ha minacciato di declassare i titoli di Stato indiani fino al rango infimo di "junkbond", spazzatura. La solvibilità di New Delhi si starebbe deteriorando sotto il duplice impatto del rallentamento nella crescita e dell'aumento del deficit pubblico. Veerapp Moily, ministro dell'Industria, ha definito questi giudizi "inaccettabili". Lo sdegno ha qualche giustificazione: a sinistra, molti sono convinti che il mondo della finanza globale voglia castigare il governo indiano per le sue azioni contro la speculazione. Per esempio la messa al bando dei futures sulle materie prime agricole. Poi un analogo divieto di speculare sui futures della rupia. Infine una proposta di "tassa retroattiva" sulle multinazionali straniere. Tutte decisioni che fanno dell'India una pioniera del "neo-protezionismo progressista", un trend che l'accomuna al Brasile, e certo non piace ai Signori dei Rating né ad altri rappresentanti del capitalismo occidentale.

Il risultato di queste tensioni lo si vede sul fronte monetario. La rupia negli ultimi 12 mesi ha perso il 20% nei confronti del dollaro. L'indebolimento della valuta coincide con una fuga di capitali speculativi. Gli investitori stranieri hanno ritirato 350 milioni di dollari dalla Borsa di Mumbai in tre mesi, mentre nello stesso periodo dell'anno precedente vi avevano investito 1,15 miliardi di dollari. Forse si sta sgonfiando la "bolla" indiana, dopo un decennio di euforìa: tra il 2001 e il 2011 l'aumento dei prezzi immobiliari a Delhi e Mumbai aveva raggiunto il 284%, di che far impallidire anche il boom cinese, russo, brasiliano. "Ora molte imprese multinazionali cominciano ad avere dei ripensamenti  -  dice il banchiere Deepakh Parekh della Hdfc  -  sulla cosiddetta "opportunità da un miliardo" (cioè l'opportunità di conquistare un miliardo di clienti indiani), perché l'India si sta penalizzando da sola". 

Per ora, segnali di una fuga delle multinazionali non ci sono. Ikea e Coca Cola hanno annunciato nuovi progetti d'investimento che da soli valgono 5 miliardi di dollari. Di recente un'indagine Onu ha individuato nell'India la terza destinazione favorita per gli investimenti esteri diretti, dopo Cina e Stati Uniti. E tuttavia proprio quell'indagine, della United Nations Economic and Social Commission for Asia, rivela un paradosso. L'India si piazza terza quando si rilevano le intenzioni d'investimento. Ma nella realtà, fino all'anno scorso gli investimenti erano ben più consistenti negli altri Bric: 124 miliardi di dollari in Cina, 67 in Brasile, 53 in Russia, contro i 32 miliardi affluiti in India. È come se ci fosse un divario permanente tra il sogno indiano, le opportunità potenziali, e ciò che si può fare davvero. La chiave, ancora una volta, sta nella "dittatura dei Babu", la cappa opprimente di divieti, ostacoli, intralci frapposti dai burocrati a chiunque voglia investire.

Di fronte al rischio che arrivi una crisi vera  -  come quella che nel 1991 portò l'India sull'orlo della bancarotta, a corto di valuta per pagare le importazioni di petrolio  -  il paese rivolge le sue speranze allo stesso uomo che la salvò allora. È Manmohan Singh, primo ministro che ha appena assunto ad interim anche il dicastero delle Finanze. Singh  -  all'origine un economista con dottorato a Oxford, un "tecnico" cooptato al potere da Sonia Gandhi che dirige il partito del Congresso  -  fu l'uomo delle grandi riforme che nel 1991 segnarono l'ingresso dell'India nell'economia globale. Fu lui a volere un primo ridimensionamento della burocrazia, smantellando il"raj", una ragnatela di permessi amministrativi che paralizzava l'attività imprenditoriale. Quel cantiere di riforme è incompiuto. Ora Singh ci riprova, ma con 80 anni sulle spalle, e una fama logorata dalla lunga permanenza al governo. Che sia lui il Superman capace di piegare l'esercito dei Babu, non lo crede certo Anna Hazare, il leader del più vasto movimento contro la corruzione che abbia mai agitato l'India, il "nuovo Gandhi" secondo i suoi seguaci. Per Hazare la prepotenza della pubblica amministrazione indiana non sarà piegata da chi fa parte dell'establishment.



http://www.repubblica.it/esteri/2012/07/31/news/rampini-40067490/

Fuoriserie e vacanze in Messico senza un euro di tasse. Arrestato.


Fermato al volante della sua Ferrari Paolo Sartori, 44enne di Noale. Coordinava una rete veneta di evasori, con fatture false per oltre 40 milioni di euro.

VENEZIA - Faceva una vita da nababbo, al volante di Ferrari F40 cabrio, in hotel di lusso, ma dal 2006 si era «dimenticato» di fare la denuncia dei redditi e dichiarare fatture emesse per 8 milioni di euro: per questo Paolo Sartori, 44 anni, di Noale (Venezia) è stato arrestato.
Paolo Sartori (Pattaro/Vision)Paolo Sartori (Pattaro/Vision)
Oltre che in Ferrari, Sartori viaggiava in Bmw X6, Porsche Cheyenne, viveva in dimore da favola all'interno di ville venete o golf club, portava abiti e scarpe griffate, faceva spesso viaggi in Messico e soggiornava in hotel di lusso o prestigiosi centri termali, trascorreva serate in locali di tendenza del Veneziano o del Padovano con accompagnatrici piacenti ordinando champagne e vini costosi. A tradirlo il suo andirivieni nel Miranese con un'autovettura supersportiva targata Repubblica di San Marino che ha solleticato la curiosità dei finanzieri.
Le Fiamme gialle hanno così appurato che quello che appariva un benestante, era in realtà un accanito evasore totale e che era stato al centro di indagini per aver emesso da un decennio false fatturazioni rivolte a compiacenti e insospettabili imprenditori veneti interessati a diminuire i redditi ed a versare minori imposte, utilizzando a tal fine anche altre quattro imprese intestate ad altrettanti prestanome. Gli accertamenti dei finanzieri, coordinati dal pm veneziano Stefano Ancilotto, hanno permesso di superare anche l'ostacolo derivante dall'occultamento delle fatture emesse e delle scritture contabili di tutte le imprese gestite da tale soggetto.
Sono stati esaminati oltre una novantina di conti correnti per un volume di transazioni di circa 40 milioni di euro, scoprendo un vasto e radicato sistema illecito evasivo e di frode fiscale operati da Sartori. L'uomo è molto noto nel Miranese per essere stato nel passato titolare di una grossa azienda che si occupava della produzione di capi di abbigliamento ora fallita. Almeno una trentina le imprese coinvolte nella maxi evasione con altrettante persone, tra amministratori e titolari di partita Iva, coinvolte nell'inchiesta a vario titolo per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti.
Dall'indagini è emerso l'emissione per 40 milioni di euro di fatture false dal 2002 al 2011, di cui 9,6 milioni di euro già acquisite all'indagine attraverso i controlli incrociati effettuati presso i rispettivi clienti. E ancora 1,6 milioni di euro di Iva evasa, 2 milioni di euro di elementi positivi di reddito non dichiarati quale provento della frode fiscale. Sarebbe stata distrutta tutta la documentazione contabile di 6 aziende riconducibili a Sartori. La Guardia di Finanza ha proposto il sequestro per l'equivalente di quote di immobili e di disponibilità bancarie possedute da Sartori per garantire l'effettivo recupero del credito dovuto all'Erario ed allo Stato. (Ansa)

Spen Ding Reviù. - Massimo Gramellini




Diffidare delle parole inglesi che fioriscono sulla bocca degli italiani, please. C’è stato un tempo, e c’è ancora, in cui per estrometterti da una poltroncina di responsabilità e sostituirti con uno più affidabile, cioè più opaco e obbediente di te, tiravano in ballo problemi di «governance». Questa invece, nei ministeri e negli uffici, è l’estate della spending review. Tagli sanguinosi (bloody cuts) sembrerebbe espressione più sincera, ma suona male. Revisione della spesa è concetto sfumato e dall’esito aperto: una spesa è rivedibile anche al rialzo, volendo e soprattutto potendo. Il guaio è che non si può più. In questa crisi al buio chi non muore si rivede, ma solo al ribasso.

Spen Ding Reviù: la formula magica ha una sua morbidezza di vaselina, indispensabile quando la verità fa paura. Chi osa dire ai cittadini elettori che lo Stato Sociale novecentesco non è più sostenibile e che oltre agli sprechi bisognerà rivedere anche i diritti? Arriva il tempo delle scelte dure, persino etiche: è sano che uno studente fuoricorso non lavoratore si sovvenzioni da solo la propria pigrizia. Ma se la spending review asciuga ingiustizie, ne crea anche di nuove. La si usa indifferentemente per togliere un privilegio e per tagliare un precario. Una cosa è certa: gli italiani assistono a quest’ultima ossessione del potere con aria da esperti. Loro la spending review l’hanno già sperimentata in casa, rinunciando a quasi tutto il rinunciabile. Soltanto l’hanno chiamata in altro modo: tirare la cinghia. Se preferite: tighten your belt.



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