Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 4 agosto 2012
Vitalizi....
Queste sono le pensioni (o i vitalizi) che percepiscono i parlamentari.
Ma quali lavoratori, quali comuni mortali, dopo 26 anni di contributi, si mettono in tasca quasi 10.000 euro di pensione (o di vitalizio) al mese?
P.S.: intanto noi, per colpa di questa consorteria di privilegiati (e di una giudice che è arrivata a stuprare la legge, pur di salvare questa consorteria di privilegiati), la pensione ce la sogniamo.
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"Pussy Riot", la punk band che spacca in due la Russia. - Mark Franchetti*
Oggi inizia il processo contro le tre ragazze che dal palco attaccarono il presidente Putin.
MOSCA
In un tribunale di Mosca comincia oggi uno dei più attesi processi degli ultimi tempi. Pochi casi legali hanno tanto diviso la società russa e allo stesso tempo rivelato così tanto sullo stato del Paese.
Sul banco degli imputati ci sono tre giovani donne, Maria Alyokhina, Nadezhda Tolokonnikova ed Ekaterina Samutsevitch. Fanno parte di Pussy Riot, una punk band d’opposizione tutta al femminile che fino all’anno scorso era praticamente sconosciuta, ma ora è diventata il gruppo musicale più famoso della Russia.
Le tre giovani donne, due delle quali sono madri di bambini piccoli, sono in prigione da cinque mesi. Sono state arrestate dopo che le Pussy Riot hanno messo in scena una performance molto controversa all’interno della cattedrale di Cristo Salvatore, la più grande chiesa ortodossa della Russia, dove il presidente russo Vladimir Putin assiste alle messe di Natale e di Pasqua. Un filmato dell’evento mostra quattro componenti della band, volti coperti da passamontagna a colori vivaci, che ballano e cantano presso l’altare della chiesa mentre gli addetti della chiesa e della sicurezza, choccati, cercano di fermarle.
La «preghiera punk» della band era diretta contro Putin e gli stretti legami politici della Chiesa ortodossa con il Cremlino. «Il capo del Kgb», un riferimento alla carriera di Putin nella polizia segreta sovietica, «è il loro santo capo, conduce i manifestanti in carcere in convoglio», recita uno dei testi cantati dalla band. «O Madre di Dio», canta il coro delle ragazze in un appello alla Vergine Maria, «sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin». Le tre ragazze sono imputate per atti di teppismo. Se condannate, un verdetto atteso da molti, rischiano fino a sette anni di carcere, anche se la maggior parte degli esperti legali concorda sul fatto che non abbiano violato alcuna legge. Ma tutte le richieste per il loro rilascio su cauzione sono state respinte.
Il caso ha scatenato aspre dispute sulla libertà di parola e sulla stretta relazione tra la Chiesa ortodossa russa e il Cremlino. Ha anche diviso l’opinione pubblica: da una parte le richieste di clemenza, dall’altra di severe punizioni. Molti fedeli, pur condannando la prodezza davanti all’altare, ritengono che le tre donne dovrebbero essere liberate. Altri, come il Patriarca Kyrill, il capo della Chiesa che, prima delle elezioni presidenziali aveva definito i 12 anni al potere di Putin come «un miracolo divino», hanno dimostrato poca pietà. Kyrill ha etichettato la prodezza delle Pussy Riot come un sacrilegio e severamente criticato i fedeli che hanno invocato il perdono. «Il mio cuore si spezza per l’amarezza pensando che tra queste persone c’è chi si definisce ortodosso», ha detto il Patriarca.
Il Cremlino sembra determinato a fare delle ragazze un caso esemplare. Gli appelli di alcune tra le celebrità più famose della Russia, inclusi alcuni sostenitori di Putin, finora sono caduti nel vuoto. Nessun altro caso ha polarizzato così duramente l’opinione pubblica russa, come quello delle Pussy Riot. C’è chi pensa che dovrebbero bruciare all’inferno e chi le vede come vittime di uno stato repressivo. Sconosciute pesino in patria fino pochi mesi fa, grazie al processo le Pussy Riot ora stanno diventando famose anche in America. In vista del processo di oggi una campagna d’alto profilo per liberarle sta ottenendo il sostegno di alcune delle più famose popstar del mondo. La settimana scorsa Sting, alla vigilia di due concerti in Russia, ha dato il suo sostegno alla condanna di Amnesty International per la detenzione delle ragazze: «È spaventoso, le musiciste di Pussy Riot rischiano pene detentive fino a sette anni di carcere. Il dissenso è un diritto legittimo e fondamentale in ogni democrazia e i politici moderni devono accettarlo e tollerarlo. Il senso delle proporzioni - e dell’umorismo - è indice di forza, non un segno di debolezza. Spero che le autorità russe lasceranno completamente cadere queste false accuse e permetteranno alle donne, a queste artiste, di tornare alla loro vita e ai loro figli». All’inizio del mese i Red Hot Chili Peppers hanno tenuto un concerto in Russia indossando T-shirt che chiedevano la libertà per le Pussy Riot. Anche la band britannica Franz Ferdinand ha espresso sostegno per la band punk di protesta, i cui membri salgono sempre sul palco con passamontagna colorati.
Gli avvocati delle tre ragazze - che respingono le accuse - vogliono chiedere aiuto a Madonna, che il mese prossimo terrà due concerti in Russia. «Lei potrebbe attirare l’attenzione di persone molto potenti a livello internazionale che potrebbero sollevare la questione con le autorità russe», ha dichiarato Mark Feigin, uno degli avvocati delle Pussy Riot. L’icona del pop americano non si è mai tirata indietro nelle critiche alle autorità russe, promettendo in anticipo di denunciare una legge anti-gay a rischio di arresto durante il suo prossimo concerto a San Pietroburgo.
Feigin dice che Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers aveva già discusso il caso con Madonna, e ha anche scritto a Bono degli U2 sulla sorte delle ragazze. «Quello che hanno fatto le ragazze è stato stupido e provocatorio», ha detto uno dei fan delle Pussy Riot. «Ma la reazione dello Stato è incredibile. A giudicare dal modo draconiano in cui sono trattate si potrebbe pensare che il Cremlino ha un intero reparto che funziona giorno e notte per trovare il modo di sporcare l’immagine della Russia. Se volete capire quanto male stanno andando le cose in Russia guardate questo processo».
*Corrisponente da Mosca per il Sunday Times di Londra
Traduzione di Carla Reschia
Sul banco degli imputati ci sono tre giovani donne, Maria Alyokhina, Nadezhda Tolokonnikova ed Ekaterina Samutsevitch. Fanno parte di Pussy Riot, una punk band d’opposizione tutta al femminile che fino all’anno scorso era praticamente sconosciuta, ma ora è diventata il gruppo musicale più famoso della Russia.
Le tre giovani donne, due delle quali sono madri di bambini piccoli, sono in prigione da cinque mesi. Sono state arrestate dopo che le Pussy Riot hanno messo in scena una performance molto controversa all’interno della cattedrale di Cristo Salvatore, la più grande chiesa ortodossa della Russia, dove il presidente russo Vladimir Putin assiste alle messe di Natale e di Pasqua. Un filmato dell’evento mostra quattro componenti della band, volti coperti da passamontagna a colori vivaci, che ballano e cantano presso l’altare della chiesa mentre gli addetti della chiesa e della sicurezza, choccati, cercano di fermarle.
La «preghiera punk» della band era diretta contro Putin e gli stretti legami politici della Chiesa ortodossa con il Cremlino. «Il capo del Kgb», un riferimento alla carriera di Putin nella polizia segreta sovietica, «è il loro santo capo, conduce i manifestanti in carcere in convoglio», recita uno dei testi cantati dalla band. «O Madre di Dio», canta il coro delle ragazze in un appello alla Vergine Maria, «sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin». Le tre ragazze sono imputate per atti di teppismo. Se condannate, un verdetto atteso da molti, rischiano fino a sette anni di carcere, anche se la maggior parte degli esperti legali concorda sul fatto che non abbiano violato alcuna legge. Ma tutte le richieste per il loro rilascio su cauzione sono state respinte.
Il caso ha scatenato aspre dispute sulla libertà di parola e sulla stretta relazione tra la Chiesa ortodossa russa e il Cremlino. Ha anche diviso l’opinione pubblica: da una parte le richieste di clemenza, dall’altra di severe punizioni. Molti fedeli, pur condannando la prodezza davanti all’altare, ritengono che le tre donne dovrebbero essere liberate. Altri, come il Patriarca Kyrill, il capo della Chiesa che, prima delle elezioni presidenziali aveva definito i 12 anni al potere di Putin come «un miracolo divino», hanno dimostrato poca pietà. Kyrill ha etichettato la prodezza delle Pussy Riot come un sacrilegio e severamente criticato i fedeli che hanno invocato il perdono. «Il mio cuore si spezza per l’amarezza pensando che tra queste persone c’è chi si definisce ortodosso», ha detto il Patriarca.
Il Cremlino sembra determinato a fare delle ragazze un caso esemplare. Gli appelli di alcune tra le celebrità più famose della Russia, inclusi alcuni sostenitori di Putin, finora sono caduti nel vuoto. Nessun altro caso ha polarizzato così duramente l’opinione pubblica russa, come quello delle Pussy Riot. C’è chi pensa che dovrebbero bruciare all’inferno e chi le vede come vittime di uno stato repressivo. Sconosciute pesino in patria fino pochi mesi fa, grazie al processo le Pussy Riot ora stanno diventando famose anche in America. In vista del processo di oggi una campagna d’alto profilo per liberarle sta ottenendo il sostegno di alcune delle più famose popstar del mondo. La settimana scorsa Sting, alla vigilia di due concerti in Russia, ha dato il suo sostegno alla condanna di Amnesty International per la detenzione delle ragazze: «È spaventoso, le musiciste di Pussy Riot rischiano pene detentive fino a sette anni di carcere. Il dissenso è un diritto legittimo e fondamentale in ogni democrazia e i politici moderni devono accettarlo e tollerarlo. Il senso delle proporzioni - e dell’umorismo - è indice di forza, non un segno di debolezza. Spero che le autorità russe lasceranno completamente cadere queste false accuse e permetteranno alle donne, a queste artiste, di tornare alla loro vita e ai loro figli». All’inizio del mese i Red Hot Chili Peppers hanno tenuto un concerto in Russia indossando T-shirt che chiedevano la libertà per le Pussy Riot. Anche la band britannica Franz Ferdinand ha espresso sostegno per la band punk di protesta, i cui membri salgono sempre sul palco con passamontagna colorati.
Gli avvocati delle tre ragazze - che respingono le accuse - vogliono chiedere aiuto a Madonna, che il mese prossimo terrà due concerti in Russia. «Lei potrebbe attirare l’attenzione di persone molto potenti a livello internazionale che potrebbero sollevare la questione con le autorità russe», ha dichiarato Mark Feigin, uno degli avvocati delle Pussy Riot. L’icona del pop americano non si è mai tirata indietro nelle critiche alle autorità russe, promettendo in anticipo di denunciare una legge anti-gay a rischio di arresto durante il suo prossimo concerto a San Pietroburgo.
Feigin dice che Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers aveva già discusso il caso con Madonna, e ha anche scritto a Bono degli U2 sulla sorte delle ragazze. «Quello che hanno fatto le ragazze è stato stupido e provocatorio», ha detto uno dei fan delle Pussy Riot. «Ma la reazione dello Stato è incredibile. A giudicare dal modo draconiano in cui sono trattate si potrebbe pensare che il Cremlino ha un intero reparto che funziona giorno e notte per trovare il modo di sporcare l’immagine della Russia. Se volete capire quanto male stanno andando le cose in Russia guardate questo processo».
*Corrisponente da Mosca per il Sunday Times di Londra
Traduzione di Carla Reschia
Ritratto di una famiglia borghese “a disposizione ” della ‘ndrangheta. - Davide Milosa
Le parole del pentito Roberto Moio tratteggiano i rapporti dei fratelli Giglio, assieme al cugino magistrato, con i De Stefano-Tegano uno delle cosche più potenti. Ne emerge una fotografia inedita di quella zona grigia che sempre di più rappresenta il vero terreno di conquista della mafia.
Ritratto di una famiglia “a disposizione” della ‘ndrangheta. Gente di Reggio Calabria. Professionisti di quella buona borghesia che sempre di più si presta a far da sponda agli uomini delle cosche. Per gestire affari e per tirare volate a politici amici.
La famiglia Giglio da Reggio Calabria interpreta alla perfezione il ruolo. Almeno seguendo il racconto del penito Roberto Moio. Il verbale del 9 novembre 2010 è messo agli atti dell’inchiesta Assenzio che solo pochi giorni fa ha sollevato il velo sull’ennesima connivenza tra colletti bianchi e ‘ndrangheta. Al centro c’è la bancarotta della Vally calabria srl, società che per anni è stata leader nel settore della grande distribuzione. Poi la bancarotta, quindi l’ingresso di nuovi soci che hanno agevolato l’infiltrazione e gli interessi della cosca De Stefano. Tra gli indagati per la (sola) bancarotta c’è anche l’avvocato Mario Giglio. Un cognome, il suo, noto alle cronache reggine, ma anche a quelle milanesi. Suo fratello Vincenzo, infatti, assieme al cugino è coinvolto nell’inchiesta coordinata dal procuratore Ilda Boccassini sugli interessi della cosca Valle-Lampada.
Professionisti si diceva. E infatti. Mario Giglio è avvocato. Suo fratello è medico-chirurgo. Mentre il cugino che si chiama sempre Vincenzo Giglio di mestiere, addirittura, fa il giudice e sarà per il suo ruolo che i magistrati lo accusano di aver favorito la ‘ndrangheta, traghettando verso gli uomini dei clan notizie riservate su indagini in corso.
A Milano il medico è accusato di concorso esterno, mentre il magistrato se la dovrà vedere con un’accusa di corruzione aggravata dal metodo mafioso.
La trama è complessa. Le parole di Roberto Moio, oggi pentito, ma un tempo uomo di fiducia di un padrino di rispetto come Giovanni Tegano, aiutano a districare la matassa, lasciando sul tavolo un dato incontrovertibile: oggi la ‘ndrangheta (a Reggio Calabria come a Milano) può contare su famiglie “a disposizione”. I Giglio dunque. “Una famiglia – dice Moio- che ha fatto politica”. Alt un attimo. Conferme? Molte a scorrere l’informativa dell’inchiesta Meta (anno 2010) sui rapporti tra mafia e politica. Si legge di come buona parte degli appalti pubblici del comune di Reggio “venivano affidati alla ditta Minghetti, poiché appoggiata, in ambito comunale, dai fratelli Giglio”.
Riprendiamo. Roberto Moio: “I Giglio? Sono professionisti (…) e parecchie volte si sono portati alle elezioni”. Spiegazione: “Loro hanno avuto sempre una parte politica e di grosse conoscenze, come nostro aiuto”. Il giudice dunque scioglie la sintassi e chiede. “E’ una famiglia quindi da tramite tra le famiglie De Stefano – Tegano e soggetti politici?”. Moio conferma e aggiunge di conoscerli beni e di aver ricevuto da loro richieste di voti “per loro e per altre persone”. In cambio i De Stefano-Tegano facevano affidamento sui loro favori.
Mafia, politica e sanità. Inutile girarci attorno. Il copione è questo. Mario Giglio, ad esempio, vanta, nel suo curriculum, un ruolo di capo-struttura nello staff del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. “Salvo passare – annotano i magistrati – subito dopo l’omicidio (di Fortugno il 16 ottobre 2005) a stringere accordi con l’acerrimo nemico elettorale di Fortugno, Domenico Crea, successivamente arrestato e poi condannato all’esito del primo grado di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa”. Nome dell’inchiesta: Onorata sanità.
E di interessi sulla sanità, si alimenta l’inchiesta milanese a carico dei Lampada. Sì perché, sostengono i pm, il giudice Giglio per dare seguito alle richieste su informazioni riservate, chiede un ruolo importante per la moglie Alessandra Sarlo. La signora, infatti, sarà promossa alla direzione dell’Asl di Vibo Valentia. Uno spostamento finito sotto la lente dei magistrati di Catanzaro che hanno iscritto sul registro degli indagati (accusa di abuso d’ufficio) il governatore Giuseppe Scopelliti e un suo assessore
Nella famiglia Giglio, dunque, la politica è di casa. E così anche Vincenzo, il medico, oltre a intrattenere inquietanti rapporti con i servizi segreti, tenta la scalata elettorale e per farlo si appoggia a Giulio Giuseppe Lampada, mente finanziaria, sostengono i pm milanesi, della cosca Condello. Lampada sta a Milano e sotto la Madonnina Vincenzo Giglio ci viene spesso e volentieri. Obiettivo: consolidare i rapporti con i Lampada. Il motivo lo si scopre nel febbraio 2008 (a pochi mesi dalle elezioni politiche). Il medico Giglio, infatti, sogna una candidatura nel movimento politico (oggi sciolto) de La Rosa Bianca fondata da Bruno Tabacci e Mario Baccini, all’epoca fuoriusciti dall’Udc di Casini. Per questo lo stesso Lampada in quel periodo apparecchia incontri con politici di rilievo anche governativo. E se Giglio sogna, Lampada ci spera e al telefona confida: “Rifletti un attimo ma se per puro caso questi signori calcolano che devono prendere un quattro e questo terzo polo prende il dieci Enzo Giglio diventa deputato a Roma”. In cambio i due fratelli Giglio, nel giugno 2009, si daranno da fare per supportare la candidature a consigliere comunale nel comune di Cologno Monzese di Leonardo Valle.
Ma naturalmente l’appoggio politico ha un prezzo. Spiega Roberto Moio: “La famiglia Giglio è a disposizione dei Tegano De Stefano”. Ribadisce: “Con noi comunque sono state sempre delle persone a disposizione”. Insomma gente vicina alla ‘ndrangheta. “E del resto non l’hanno mai toccati a loro, bruciato macchine, messo bombe, mai!”. Perché i Giglio “erano gente sempre di un certo rispetto. E credo pure, anzi, ne sono convinto, c’era un’amicizia particolare pure con i De Stefano”.
Insomma, per la prima volta dalle carte giudiziarie emerge netto, chiaro e inquietante il ritratto (con ruoli, oneri e onori) di una famiglia della buona borghesia a disposizione di una delle più potenti cosche della ‘ndrangheta.
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La supercazzola presidenziale. - Marco Travaglio.
Ora che il Quirinale (o l’Avvocatura dello Stato) le ha notificato in edicola, sulle pagine di Repubblica, le accuse di cui deve rispondere dinanzi alla Consulta, la Procura di Palermo può finalmente difendersi. Sempreché trovi un avvocato disposto a difenderla, mettendosi contro la Presidenza della Repubblica, il 90% del Parlamento e il 95% dei media.
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Arrestato il “mediatore” Pintabona. A giugno, intercettato sulle escort fornite da Tarantini, diceva: “Giochiamo la partita a briscola con il nano maggiore”. Secondo i pm, Valterino voleva 5 milioni di euro. Tra gli indagati dell'inchiesta compare anche Sammarco uno dei legale dell'ex presidente del Consiglio.
“Torno e ti spacco il culo”, scrive Valter Lavitola a Berlusconi sotto il biglietto di ritorno per l’Italia mostrato all’avvocato Gennaro Fredella. “Dobbiamo parlare con il nano maggiore – gli fa eco Carmelo Pintabona – una volta che lui è fuori dobbiamo sederci a tavola per giocare una briscola, ed è una briscola che perde di sicuro”. Una briscola da cinque milioni di euro, il prezzo dell’estorsione costata ieri un nuovo ordine di custodia cautelare per l’ex direttore de l’Avanti!, già detenuto. Con la stessa accusa è finito in carcere Carmelo Pintabona, faccendiere siciliano con interessi in Argentina legato all’Mpa di Raffaele Lombardo, latore delle richieste estorsive.
Nell’indagine sono coinvolti anche l’avvocato Alessandro Sammarco, pronto a volare in Argentina da Lavitola per interrogarlo nell’interesse di Berlusconi (indagato per induzione alle dichiarazioni mendaci), l’avvocato di Lavitola Eleonora Moiraghi e un amico siciliano di Pintabona, Francesco Altomare. Grazie alle testimonianze della sorella di Lavitola, Maria che ha riferito parole della compagna del fratello, Neire Cassia Pepe Gomez, e numerose intercettazioni telefoniche (tra cui una telefonata-confessione di Pintabona) i pm napoletani Henry Woodcook e Vincenzo Piscitelli hanno ricostruito tutte le tappe della richiesta di cinque milioni di euro partita con una lettera battuta al computer nella casa di Lavitola a Panama, e poi inviata ad una casella di posta elettronica della quale entrambi possedevano la password. I due magistrati sono piombati ieri a Palermo per l’arresto di Pintabona e in mattinata hanno incontrato il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, con il quale hanno avuto uno scambio di informazioni utili alle rispettive inchieste, entrambe per estorsione nei confronti dell’ex premier. Convocato il 26 luglio scorso, Berlusconi ha disertato anche l’appuntamento napoletano.
La sorella Maria e le richieste di soldi
È Maria Lavitola a rivelare ai pm un incontro nel novembre scorso a Roma, alla fermata della metro Anagnina, con Neire Cassia Pepe Gomez, appena giunta dal sudamerica: “Con la Neire andammo nello studio dell’avvocato Fredella, che mi disse che mio fratello Valter aveva spedito una mail o un fax all’on. Berlusconi con il quale mostrava un biglietto aereo di ritorno in Italia con sotto scritto: “Torno e ti spacco il culo’’. Fredella non è d’accordo, considera il suo cliente ‘pazzo’ e rivela a sua volta a Maria Lavitola di avere incontrato l’avvocato di Berlusconi, Alessandro Sammarco.
I problemi del legale
“Mi disse che era andato nello studio della sua collega Nicla Moiraghi credendo di incontrare un investigatore privato, ma invece trovò Sammarco – rivela Maria Lavitola – il quale gli disse che si sarebbe recato egli stesso in Argentina per incontrare Valter ed esporgli i termini dell’accordo che prevedeva, tra l’altro, la garanzia per mio fratello di un’adeguata difesa. Gli disse poi che la possibilità di offrire la salvezza a Valter, perché la salvezza di Valter era la salvezza del suo cliente”.
Italiani d’Argentina
Sammarco appare determinato a partire e in effetti vengono spesi seimila euro per acquistare due biglietti Roma-Buenos Aires per il legale di Berlusconi e l’avvocato Moiraghi. La somma arriva in contanti, e per i pm è il tentativo di non lasciare tracce visibili del viaggio. Ma i due legali di Lavitola considerano l’interrogatorio di Sammarco ‘inopportuno ’ e sconsigliano il loro cliente, invece entusiasta, ad affrontarlo. “Lavitola si mostrò molto contrariato – dice Fredella – ma pretese di incontrarsi almeno con la Moiraghi”. Che, infatti, partì. Sola.
Il riscontro messo a verbale
Interrogato dai pm Fredella ha confermato sostanzialmente l’episodio, negando però di avere ascoltato quest’ultima frase. Che Alessandro Sammarco, sentito dal Fatto, nega di avere pronunciato: “È vero – dice – ho incontrato Fredella, ma era doveroso farlo dovendo sentire un suo cliente. I biglietti sono stati pagati da un’agenzia su incarico del mio cliente, non so nulla del pagamento, ma tenderei a escludere i contanti.E non ho mai parlato di salvezza di Lavitola, l’unica ad interessarmi è quella di Berlusconi”.
Il faccendiere dei due mondi
Carmelo Pintabona? “Un mio amico carissimo”, detta a verbale Lavitola, che poi prosegue nel goffo tentativo di sminuirne il ruolo di “latore dell’estorsione”. Amico, prestanome, sponsor e soprattutto socio “negli affari del pesce”, Pintabona assiste a Panama alla scrittura della lettera a Berlusconi, gli presta centomila euro, gli compra persino il biglietto di ritorno in Italia e poi “confessa” al telefono al suo amico Francesco Altomare: “Mi aveva chiesto di intermediare con il presidente” (Berlusconi, ndr), che lui chiama “nano maggiore”.
Pintabona arriva a pochi passi da Berlusconi (non si capisce se a palazzo Grazioli o ad Arcore), ma è fermato dalla polizia, che lo avverte:“Non lo sa che è reato incontrare un latitante?”. E nel-l’attesa della scarcerazione dell’amico Valter progetta la costruzione di 400 mila case in Argentina con l’appoggio della Presidente del paese sudamericano e coltiva sogni megalomani: “Io sto aspettando che Valter esca tranquillo, e quando lui uscirà, io mi siederò con Putin, con Lula, Condoleezza Rice, mi siederò con persone che questi manco se lo sognano. Valter (ndr) mi ha scritto una lettera, non a me, l’ha mandata a Caselli (Esteban, senatore eletto nel Pdl in Argentina, (ndr) e mi ha mandato molti saluti anche per altre persone…a Carmelo gli voglio tantissimo, tanto bene, me lo ha detto lui, tu mi hai salvato la vita, come ti ripago?”.
Il mercenario gentiluomo
Un Lavitola molto diverso da come lo ha descritto la sua compagna Neire Gomez nell’incontro con la sorella Maria alla fermata della Metro Anagnina.“Era tornata in Italia in segreto e mi disse che Valter stava sclerando, perché assumeva con frequenza psicofarmaci. Lo aveva sentito poco prima e le aveva detto che era in Argentina dove stava eseguendo lavori come mercenario, lavori che gli stessi argentini rifiutavano di eseguire perchè pericolosi. La Neire – continua Maria – mi disse che temeva per la propria vita perchè in passato aveva lavorato con il fratello per conto dei servizi segreti. Mi disse che per Valter la vita umana non valeva nulla e questo lo aveva dimostrato in tante circostanze anche se non si era mai spinto a commettere omicidi personalmente ma ne aveva commissionati”.
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Bellolampo, cresce la paura In discarica arriva l'Esercito.
Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, invita ad “evitare allarmismi che appaiono oggi ingiustificati, ma la discarica comunale di Bellolampo brucia ancora. Si lavora ininterrottamente da 7 giorni, per lo spegnimento del rogo divampato domenica scorsa. In azione anche oggi canadair, autobotti e ruspe.
Secondo quanto riferito dalla centrale operativa dei vigili del fuoco, da oggi anche l’Esercito è impegnato a supporto dei pompieri. Un rafforzamento di uomini e mezzi in campo per tentate di spegnere, con acqua e terra, il rogo entro domani.
Ma circolano scetticismo e timori. Ieri, il primo cittadino, massima autorità sanitaria della città, ha emesso “in via cautelativa” un’ordinanza per la tutela della saluta pubblica. Il provvedimento ha creato non poca preoccupazione per i palermitani. Sempre nella serata di ieri, il Comune ha diffuso una nota ricevuta dalla Regione siciliana (proprietaria della discarica) giorno 1 agosto, in cui si afferma che i rilievi effettuati a Bellolampo e in altre zone non evidenziano pericoli per la salute umana.
I dati dell’Arpa sull’inquinamento non documenterebbero ancora pericoli ma i cittadini vorrebbero vederci chiaro. Il consigliere comunale Alberto Mangano ha inviato ad Orlando una lettera per chiedere che i dati dell’Arpa vengano resi pubblici. E’ corsa contro il tempo per impedire un preoccupante peggioramento.
Dopo una settimana cresce l’allarme nelle zone e nei paesi circostanti e non viene esclusa l’ipotesi di evacuazione dei comuni di Torretta e Montelepre qualora l’incendio continuasse a divampare e la qualità dell’aria peggiorasse. Programmato per oggi un nuovo sopralluogo, con l’ausilio di un elicottero della polizia, per scattare delle foto e capire meglio la situazione, con la partecipazione del procuratore aggiunto Ignazio De Francisci.
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Intanto, l’Assessorato alla Salute smorza l’allarme. Lunedì, nella sede di Piazza Ziino a Palermo, si riunirà un tavolo tecnico con la partecipazione di tutte le componenti coinvolte nella gestione dell’emergenza provocata dal rogo.
Alla riunione, tra gli altri, prendernano parte Arpa, l’Azienda sanitaria provinciale e il Comune.L’assessore e vicepresidente della Regione Massimo Russo vuole monitorare da vicino la situazione sotto il profilo dell’igiene e della sicurezza alimentare. “La situazione – spiega Lucia Borsellino, dirigente generale del dipartimento Attivita’ sanitarie – e’ sotto controllo ma non intendiamo lasciare nulla al caso. I cittadini, in particolar modo quelli che abitano nelle zone limitrofe, devono ricevere le necessarie garanzie per la loro salute”.
http://palermo.blogsicilia.it/bellolampo-cresce-la-paura-in-discarica-arriva-lesercito/96354/
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I pm : così l’azienda ha tentato di alterare i dati dell’inquinamento ambientale.
TARANTO
Un dirigente dice a un altro: «La stampa dobbiamo pagarla tutta». I pm si presentano con un faldone di intercettazioni. Che compromettono pesantemente le posizioni degli indagati, lo staff dell’Ilva di patron Emilio Riva. Che dimostrano l’inquinamento probatorio, e cioè il tentativo di alterazione dei dati sulla emissione dei veleni prodotti dallo stabilimento. Ci sono intercettazioni in cui l’Ilva chiede conto al direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, dei risultati di una campagna di rilevamenti.
Questo avviene nel giorno in cui l’Ilva si presenta al Riesame (con il suo nuovo presidente Bruno Ferrante) perché vuole contestare le conclusioni a cui è giunta l’accusa. L’udienza fiume iniziata alle 9 del mattino in un clima surreale, con il Tribunale completamente isolato dalle forze dell’ordine, e un corteo “solidale” con gli imputati bloccato dallo stesso presidente Ferrante che non intende più «manovrare» i suoi dipendenti, e si è conclusa alle 9 di sera. I giudici hanno tempo fino al 9 agosto prima di decidere sulla scarcerazione degli indagati e sul dissequestro degli impianti.
Udienza drammatica di un’inchiesta giudiziaria dagli esiti imprevedibili, perché il Riesame potrebbe confermare il sequestro degli impianti e far accelerare le procedure di spegnimento degli impianti, rompendo così quell’«armonia» costruita tra Bari e Roma di attiva convergenza tra governo, regione, azienda ed enti locali.Nel giorno in cui Palazzo Chigi nomina un commissario per bonificare Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa rischia la chiusura se la proprietà non rispetterà le prescrizioni stabilite dal gip Todisco.
«Non ci dormo la notte al pensiero che 20.000 persone rischiano di non lavorare più». Francesco Sebastio, procuratore di Taranto, in una pausa del Riesame, risponde alle domande dei giornalisti. Mentre un legale degli imputati commenta amaro: «Dopo sei ore di discussione, le posizioni sono cristallizzate. Non si fanno passi avanti».
I legali dell’Ilva si presentano con le memorie e controperizie da depositare: «Lo stabilimento Ilva di Taranto esercisce nel pieno e indiscusso rispetto di una legittima Autorizzazione integrata ambientale, emessa dalla competente pubblica amministrazione nell’agosto 2011. Anche le contestazioni elevate in passato non hanno mai individuato presunti sfondamenti dei limiti di emissione. Dal 1998 al 2011 lo Stabilimento Ilva di Taranto ha investito, solo in tecnologie finalizzate alla tutela dell’ambiente e della salute, circa un miliardo e centouno milioni e 299 mila euro, pari al 24% degli investimenti totali. Le polveri? I livelli di Taranto sono considerevolmente inferiori a quelli medi annui registrati nelle aree urbane del Nord Italia, e anche a Firenze o Roma».
Insomma, una radicale contrapposizione rispetto ai dati emersi dall’incidente probatorio, i cui esiti, dice il procuratore Sebastio, sono ormai «una prova del processo». Naturalmente il «processo» avviene nell’aula del Tribunale del Riesame. E le affermazioni di accusa e difesa raccolte nei corridoi del Tribunale ne sono una fedele rappresentazione. Sebastio sostiene che la ricostruzione della memoria dell’accusa fatta ai giudici dal pm Buccoliero è molto netta: «L’Ilva sostiene di aver rispettato i parametri indicati dall’Aia, dall’Autorizzazione integrata ambientale. In realtà l’Aia fa riferimento alle emissioni convogliate, cioè quelle che escono dal camino E 312. Ma noi invece abbiamo dimostrato che il problema è rappresentato dalle emissioni diffuse (parchi minerari) e fuggitive. In un anno i controlli effettuati sono stati soltanto tre e preavvisati. Occorrono campionamenti continui. Dove sono stati scaricati i sacchi di diossina presi e caricati a spalle?».
In mattinata il procuratore aggiunto Pietro Argentino aveva presentato un’istanza per spostare a metà settembre la decisione sul sequestro dello stabilimento. Istanza respinta dal Riesame per gli evidenti «rilevanti interessi socio economici» che impongono una decisione immediata.
L’accusa si è rivolta ai giudici del Riesame con un quesito: «A Genova è sorto lo stesso problema di Taranto. Tra il 2002 e il 2005 l’area a caldo è stata sequestrata (ottenendo le conferme del Riesame e della Cassazione) ed è stata trasformata in area a freddo. Perché non si può fare la stessa cosa a Taranto?».
La nuova Ilva di Bruno Ferrante è ottimista. Anche se quelle intercettazioni telefoniche depositate ieri mattina sono compromettenti, l’importante è guardare al futuro, voltare pagina. Che ha deciso di ritirarsi da tutti i contenziosi sollevati, e con la presenza del suo presidente Ferrante nell’aula del Riesame conferma la volontà di difendersi «nel processo e non dal processo».
Questo avviene nel giorno in cui l’Ilva si presenta al Riesame (con il suo nuovo presidente Bruno Ferrante) perché vuole contestare le conclusioni a cui è giunta l’accusa. L’udienza fiume iniziata alle 9 del mattino in un clima surreale, con il Tribunale completamente isolato dalle forze dell’ordine, e un corteo “solidale” con gli imputati bloccato dallo stesso presidente Ferrante che non intende più «manovrare» i suoi dipendenti, e si è conclusa alle 9 di sera. I giudici hanno tempo fino al 9 agosto prima di decidere sulla scarcerazione degli indagati e sul dissequestro degli impianti.
Udienza drammatica di un’inchiesta giudiziaria dagli esiti imprevedibili, perché il Riesame potrebbe confermare il sequestro degli impianti e far accelerare le procedure di spegnimento degli impianti, rompendo così quell’«armonia» costruita tra Bari e Roma di attiva convergenza tra governo, regione, azienda ed enti locali.Nel giorno in cui Palazzo Chigi nomina un commissario per bonificare Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa rischia la chiusura se la proprietà non rispetterà le prescrizioni stabilite dal gip Todisco.
«Non ci dormo la notte al pensiero che 20.000 persone rischiano di non lavorare più». Francesco Sebastio, procuratore di Taranto, in una pausa del Riesame, risponde alle domande dei giornalisti. Mentre un legale degli imputati commenta amaro: «Dopo sei ore di discussione, le posizioni sono cristallizzate. Non si fanno passi avanti».
I legali dell’Ilva si presentano con le memorie e controperizie da depositare: «Lo stabilimento Ilva di Taranto esercisce nel pieno e indiscusso rispetto di una legittima Autorizzazione integrata ambientale, emessa dalla competente pubblica amministrazione nell’agosto 2011. Anche le contestazioni elevate in passato non hanno mai individuato presunti sfondamenti dei limiti di emissione. Dal 1998 al 2011 lo Stabilimento Ilva di Taranto ha investito, solo in tecnologie finalizzate alla tutela dell’ambiente e della salute, circa un miliardo e centouno milioni e 299 mila euro, pari al 24% degli investimenti totali. Le polveri? I livelli di Taranto sono considerevolmente inferiori a quelli medi annui registrati nelle aree urbane del Nord Italia, e anche a Firenze o Roma».
Insomma, una radicale contrapposizione rispetto ai dati emersi dall’incidente probatorio, i cui esiti, dice il procuratore Sebastio, sono ormai «una prova del processo». Naturalmente il «processo» avviene nell’aula del Tribunale del Riesame. E le affermazioni di accusa e difesa raccolte nei corridoi del Tribunale ne sono una fedele rappresentazione. Sebastio sostiene che la ricostruzione della memoria dell’accusa fatta ai giudici dal pm Buccoliero è molto netta: «L’Ilva sostiene di aver rispettato i parametri indicati dall’Aia, dall’Autorizzazione integrata ambientale. In realtà l’Aia fa riferimento alle emissioni convogliate, cioè quelle che escono dal camino E 312. Ma noi invece abbiamo dimostrato che il problema è rappresentato dalle emissioni diffuse (parchi minerari) e fuggitive. In un anno i controlli effettuati sono stati soltanto tre e preavvisati. Occorrono campionamenti continui. Dove sono stati scaricati i sacchi di diossina presi e caricati a spalle?».
In mattinata il procuratore aggiunto Pietro Argentino aveva presentato un’istanza per spostare a metà settembre la decisione sul sequestro dello stabilimento. Istanza respinta dal Riesame per gli evidenti «rilevanti interessi socio economici» che impongono una decisione immediata.
L’accusa si è rivolta ai giudici del Riesame con un quesito: «A Genova è sorto lo stesso problema di Taranto. Tra il 2002 e il 2005 l’area a caldo è stata sequestrata (ottenendo le conferme del Riesame e della Cassazione) ed è stata trasformata in area a freddo. Perché non si può fare la stessa cosa a Taranto?».
La nuova Ilva di Bruno Ferrante è ottimista. Anche se quelle intercettazioni telefoniche depositate ieri mattina sono compromettenti, l’importante è guardare al futuro, voltare pagina. Che ha deciso di ritirarsi da tutti i contenziosi sollevati, e con la presenza del suo presidente Ferrante nell’aula del Riesame conferma la volontà di difendersi «nel processo e non dal processo».
Ilva, ecco le intercettazioni che provano la corruzione Quel manager tesseva le trame. - Mimmo Mazza
TARANTO - Descrive un sistema di potere ramificato. Capace di arrivare a chiunque, almeno a parole, per sistemare le faccende dell’Ilva. È ricca di spunti l’informativa redatta dal Gruppo di Taranto della Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta per corruzione in atti giudiziari che vede indagati Fabio Riva, per una fase presidente del siderurgico, Girolamo Archinà, potente pubblic relations man del gruppo Riva, l’ex direttore dello stabilimento siderurgico Luigi Capogrosso e il consulente della Procura ed ex preside del Politecnico di Taranto Lorenzo Liberti. Un lavoro meticoloso, quello compiuto dagli uomini guidati dal capitano Giuseppe Di Noi, confluito ieri mattina negli atti all’attenzione del tribunale del riesame chiamato a decidere se confermare o meno gli arresti di 8 tra proprietari e dirigenti dell’Ilva e il sequestro dell’area a caldo. I pubblici ministeri hanno deciso di depositare una parte di quell’informativa allo scopo di dimostrare la capacità di inquinamento probatorio del gruppo Riva.
All’attenzione dei giudici ma anche della difesa degli indagati sono finite così alcuni stralci di intercettazioni telefoniche e ambientali. La storia principale è quella raccontata ieri dalla Gazzetta, cioè della busta bianca - contenente 10mila euro per l’accusa, la bozza di un protocollo per la difesa - consegnata da Archinà al professor Liberti il 26 marzo del 2010 nel retro della stazione di servizio ubicata ad Acquaviva delle Fonti, sull’autostrada Taranto-Bari. Attorno a quella vicenda - tutta peraltro ancora da definire visto che ieri mattina la difesa del gruppo Riva ha depositato un verbale dell’ex arcivescovo di Taranto Benigno Luigi Papa che sostiene che quei soldi, quei diecimila euro, erano per lui - ruota ben altro. Parte ancora rigorosamente coperta da segreto istruttorio e dunque destinata ad ulteriori analisi da parte dei pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Giovanna Cannalire che un mese fa hanno ereditato il fascicolo dal collega Remo Epifani, parte invece rivelata. Il perno del sistema di potere dell’Ilva sembra Archinà, consulente del gruppo Riva per la comunicazione e le questioni ambientali. Archinà tiene i rapporti con i giornalisti ma anche con politici e organi di controllo. In una telefonata con l’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso discute di un controllo annunciato da Arpa e Asl e senza mezzi termini dice al collega che «quelli, con la sedia legata al culo devono stare, altro che controlli».
Poi parla con Liberti, suo co-indagato, a cui chiede spiegazioni sulla perizia che il docente stava facendo per conto della Procura. Rimprovera brutalmente il direttore dell’Arpa Giorgio Assennato, reo, a suo dire, di aver calcato la mano in una relazione sul micidiale benzo(a)pirene emesso dall’Ilva, con Assennato che cerca di giustificarsi, suggerendo la convocazione di un tavolo per trovare una soluzione. Archinà ha dimestichezza con i dirigenti, vecchi e nuovi, della Regione che si occupano di ambiente. Ma vanta conoscenze anche a Roma. Parlando, nel 2010, con un consulente del gruppo Riva, già funzionario del Cnr, discute dei componenti della commissione ministeriale che sta esaminando l’Autorizzazione integrata ambientale per lo stabilimento siderurgico di Taranto. Il discorso scivola su Corrado Clini, oggi ministro dell’Ambiente, all’epoca dei fatti direttore generale del ministero. Archinà tranquillizza il suo interlocutore, forse vantandosi forse chissà: «Clini è uomo nostro».
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=540657&IDCategoria=1
Gli orsi polari stanno morendo per la distruzione del loro habitat.
Negli ultimi 30 anni, abbiamo perso tre quarti della calotta di ghiaccio che galleggia in cima al mondo. Per oltre 800 mila anni, il ghiaccio è stata una caratteristica costante del Mar Glaciale Artico. Si sta sciogliendo a causa del nostro uso di energia sporca da fonti fossili, e in un prossimo futuro potrebbe essere privo di ghiaccio per la prima volta da quando gli esseri umani sono sulla Terra. Questo sarebbe devastante non solo per le persone, gli orsi polari, i narvali, i trichechi e altre specie che vi abitano - ma per tutti noi. Il ghiaccio in cima al mondo riflette nello spazio molto del calore del sole, contribuendo così a raffreddare il nostro pianeta, stabilizzando il clima da cui dipendiamo per le coltivare il nostro cibo. Proteggere il ghiaccio significa proteggere tutti noi.
Le stesse aziende dell'energia sporca che per prime hanno causato lo scioglimento dei ghiacci artici ora stanno cercando di trarre profitto da quel disastro. Vogliono aprire la nuova frontiera dell'oro nero per raggiungere un potenziale di 90 miliardi di barili di petrolio. Questo vuol dire un sacco di soldi per loro, ma equivale a soli tre anni di consumi petroliferi per il pianeta. Documenti governativi sin qui segreti dicono che contenere fuoriuscite di petrolio nelle acque del Polo è "quasi impossibile" ed ogni errore si rivelerebbe potenzialmente fatale per il fragile ecosistema artico. Per trivellare nella regione artica, le compagnie petrolifere devono trascinare gli iceberg lontano dai loro impianti e utilizzare enormi tubi idraulici per sciogliere il ghiaccio galleggiante con acqua calda. Se li lasciamo fare, una catastrofica fuoriuscita di petrolio è solo una questione di tempo. Abbiamo visto i danni terribili causati dai disastri della Exxon Valdez e della Deepwater Horizon - Non possiamo lasciare che ciò accada nell'Artico.
http://www.savethearctic.org/
Londra 2012, le gare di atletica nello stadio costruito sopra i rifiuti radioattivi. - Luca Pisapia
L’estate scorsa si è venuto a sapere - tramite documenti ufficiali ottenuti attraverso il decreto Freedom of Information - che tra il 2007 e il 2008, durante i lavori di scavo per la costruzione dello Stadio Olimpico, sono emerse 7.500 tonnellate di scorie tossiche. La notizia confermata dalla Olympic Delivery Authority.
Quando domenica sera Bolt, o chi per lui, taglierà per primo il traguardo della gara dei 100 metri all’interno del nuovissimo Stadio Olimpico di Londra, tutti gli aggettivi che saranno utilizzati come ‘deflagrante’, ‘esplosivo’ o ‘atomico’ avranno una ragion d’essere che va ben oltre la semplice impresa sportiva. Ovvero le migliaia di tonnellate di rifiuti tossici e radioattivi che sono stati rinchiusi in tutta fretta in appositi contenitori e poi sotterrati nel Parco Olimpico. In un deposito costruito all’inizio di uno dei tanti bei ponticelli su cui passeggia la gente all’interno del Parco: a 400 metri dalla stazione internazionale di Stratford e a 250 metri dallo Stadio. Come ha confermato laOlympic Delivery Authority dopo le prime smentite.
L’estate scorsa si è infatti venuto a sapere – tramite documenti ufficiali ottenuti attraverso il decretoFreedom of Information – che tra il 2007 e il 2008, durante i lavori di scavo per la costruzione dello Stadio Olimpico, sono emerse diverse tonnellate di rifiuti tossici e radioattivi. Questo materiale, poi risultato essere nell’ordine delle 7,5 mila tonnellate, è stato sotterrato in tutta fretta all’interno del perimetro del parco. Se le autorità assicurano che questi container hanno una resistenza stimata in oltre mille anni, è da notare però come nel prospetto informativo di vendita del centro stampa interno al Parco (di recente acquistato dai reali del Qatar) appare l’avvertenza sulla “presenza di sostanze inquinanti a livello solido, liquido o gassoso (…) materiali pericolosi e nocivi anche nei detriti del terreno circostante”.
E, come spiega Paul Charman, analista del Citizens Intelligence Network, “è evidente che lo stoccaggio sia stato fatto in tutta fretta per evitare ricadute negative d’immagine, mettendo anche a rischio la salute dei lavoratori. E il fatto di sotterrare il tutto in loco è stata l’unica opportunità per evitare numerosi controlli, previsti dalla legge, nel caso avessero cominciato a trasferire il materiale altrove. Una scommessa che non esito a definire rischiosa”. Un ulteriore schiaffo alla tanto sbandierata eco-sostenibilità dei Giochi. Già, a fronte di sponsorizzazioni pericolose e molto poco ambientaliste, il governo aveva risposto solo con ingiustificati arresti nei confronti di chi ha osato contestarle.
Senza degnarsi di spiegare come sia stato possibile appaltare le medaglie di una manifestazione che si vuole ecologista a Rio Tinto – multinazionale mineraria accusata di violazione dei diritti umani dalla Papua Nuova Guinea alla Mongolia - il cui rame utilizzato per le medaglie è estratto dalla miniera di Kennecott (Utah) in spregio alle leggi locali per il controllo delle immissioni nocive nell’atmosfera. O aver ceduto per 7 milioni a Dow Chemical – multinazionale che nel 1999 ha acquistato la Union Carbide responsabile del disastro di Bhopal in India – la possibilità di ricoprire lo Stadio Olimpico con un lenzuolo di plastica recante il suo logo, al posto del lenzuolo in materiali biodegradabili con disegni di artisti locali previsto dal progetto originario di London 2012.
Non può certo bastare che i piatti e le posate utilizzate dal McDonald del Parco Olimpico – il più grande al mondo con oltre 1500 posti a sedere – saranno riciclati in appositi contenitori, o che l’olio utilizzato per friggere le patatine sarà trasformato in combustibile, per rendere le Olimpiadi di Londra 2012 “i Giochi più ecologici della storia”, come ripetono ogni giorno gli organizzatori. L’hanno appena certificato anche WWF e BioRegional, in un documento congiunto nel quale concludono che gli organizzatori “non hanno mantenute le promesse” e “hanno profondamente deluso, mancando tutti gli obiettivi” per le questioni riguardanti energia, rifiuti e consumo delle risorse. Una bocciatura atomica. Come le scorie sepolte in tutta fretta nel Parco Olimpico.
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