domenica 5 agosto 2012

Pintabona, il “ricattatore di B.” con l’onorificenza del Quirinale. - Giuseppe Lo Bianco


gaetano pintabona interna nuova

La storia dell'ingegnere arrestato con l’accusa di aver provato a ricattare Berlusconi assieme a Lavitola: "Dobbiamo parlare con il nano maggiore". Tra l'altro fu portato in tribunale per aver copiato il nome di un'associazione siciliana. Ma il Colle lo decorò con una stella della solidarietà. Su richiesta del ministro Frattini.


Sogna di sedersi al tavolo con PutinLula e Condoleeza Rice, e fa da autista all’avvocato Fredella per le strade di Buenos Aires. Si dice amico dell’ambasciatore Curcio e della presidente dell’Argentina, che sta per presentare (o ha già presentato) a Berlusconi. Intanto fissa appuntamenti con i dirigenti del Milan per promuovere giovani promesse del pallone; progetta piantagioni di colza da 600mila ettari (!) in Argentina ma riesce a procurare i tabulati dell’utenza di Buenos Aires utilizzata da Lavitola per chiamare Berlusconi il 17 luglio 2011. “Non so – dice l’imprenditore Mauro Velocci – come se li è procurati”.
Viaggia tra l’Italia e il Sudamerica a cavallo tra sogni di grandeur, il millantato credito e probabilmente qualche amicizia inconfessabile l’ingegner Carmelo Pintabonal’uomo che parlando di Berlusconi usa la frase: “Dobbiamo parlare con il nano maggiore, una volta che lui è fuori dobbiamo sederci a tavola per giocare una briscola ed è una briscola che perde di sicuro”, è stato arrestato venerdì dai pm di Napoli con l’accusa di aver ricattato l’ex premier per estorcergli 5 milioni. Pintabona ha sessant’anni, è siciliano di Piraino (Messina), il suo passpartout è la presidenza della Fesisur, la Federazione delle Associazioni Siciliane in Sud America, l’atout è l’amicizia con Valter Lavitola.
In Sicilia lo conoscono bene i dirigenti dell’istituto Fernando Santi, costretti a ricorrere al tribunale di Palermo per proteggere il nome dell’istituto, intestato allo storico cofondatore della Cgil, copiato da Pintabona in Argentina attestando, per registrarlo, che si trattava di una denominazione “innovativa e di fantasia”.
Trucchi da prestigiatore che non hanno impedito alla Regione Siciliana di assegnargli nel 2006 un milione di euro, per lo svolgimento delle “attività indicate dallo stesso Pintabona al periodico Voce d’Italia, connesse all’apertura della sede del Ciapi di Palermo a Buenos Aires”, come ha denunciato il vero istituto Fernando Santi in una nota in cui invita la Regione a vigilare sulla destinazione delle somme ricevute, puntando il dito anche sul percorso politico dell’ingegnere messinese, candidato nel 2008 nelle fila del Pdl nella circoscrizione estera, definito “piroettante” e quindi “inaffidabile sul piano politico”: “L’inclusione nella lista del PdL dell’ing. Carmelo Pintabona – era scritto nella nota – rappresenta l’ulteriore tentativo da parte dello stesso di utilizzare e strumentalizzare le comunità siciliane in Argentina e nel Continente dell’America del Sud a fini personali”.
E non ha impedito neanche al Quirinale di insignirlo nell’ottobre del 2010, su richiesta del ministero degli Esteri (all’epoca era Franco Frattini), dell’ordine della Stella della solidarietà italiana, una delle onorificenze distribuite dallo Stato. Eppure l’istituto presieduto da Luciano Luciani aveva denunciato “la spregiudicata condotta sul piano personale, morale e politico dell’ing. Pintabona, il quale, in più circostanze, ha mostrato odio e ha diffamato dirigenti del mondo associativo siciliano che godono di prestigio presso le Istituzioni e le comunità siciliane” ed è forse anche per questa ragione che il 23 aprile 2008 a Rosario, in provincia di Santa Fe, in Argentina, all’ottavo Convegno nazionale di giovani di origine siciliana l’Usef (Unione Siciliana Emigrati e Famiglie) ha ordinato ai suoi ragazzi di non assistere alla chiusura dell’evento “perché c’era come dissertante il Presidente della Fesisur, Carmelo Pintabona”.
Ma se il salotto di casa Lavitola a Panama con lui e Pintabona che dettano e l’imprenditore Mauro Velocci (“ero più veloce di loro al computer”) che scrive la lettera-ricatto a Berlusconi sembra un remake della scena del film “Totò, Peppino e la malafemmena”: punto, punto e virgola punto e punto e virgola. Quella richiesta di estorsione, assai seria, per il gip, è arrivata a destinazione: “Dalla consegna per conto di Berlusconi dei soldi a Craxi in Tunisia durante la sua latitanza riferita da Velocci Mauro, come origine della speciale vicinanza tra Lavitola e Berlusconi, al ruolo svolto dallo stesso Lavitola nel caso Fini-Montecarlo, al traghettamento verso corrispettivo economico di senatori del centrosinistra nel Pdl (caso De Gregorio ed altri); dalla vicenda delle escort diTarantini fino alle ragioni sotterranee dei finanziamenti all’Avanti! da parte di Forza Italia, non si può escludere che il Lavitola effettivamente ritenga, sulla scorta dei segreti di cui è depositario, di poter ricattare Berlusconi ottenendone le rilevantissime somme riferite”.
Ti potrebbero interessare anche

320 magistrati scrivono al Csm: "Giusta la lettera di Scarpinato"





"ANDREBBE DIFFUSA NELLE SCUOLE"

Trecentoventi magistrati si schierano con il procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato (nella foto) e difendono le parole da lui pronunciate durante la commemorazione del giudice Paolo Borsellino nel ventesimo anniversario del suo assassinio.

Non solo non è da censurare o stigmatizzare, ma andrebbe "diffuso, nelle istituzioni e nelle scuole, tra i concittadini onesti ed impegnati. A titolo di merito per chi ha ricordato un pezzo della nostra storia con la credibilità del proprio passato".

Fanno quadrato attorno al procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato e difendono le parole da lui pronunciate durante la commemorazione del giudice Paolo Borsellino nel ventesimo anniversario del suo assassinio. Trecentoventi magistrati italiani hanno firmato un documento diretto al Csm in cui sottoscrivono la lettera ideale a Borsellino scritta da Scarpinato e letta in pubblico il 19 luglio in via D'Amelio per la quale il pg rischia il trasferimento per incompatibilità ambientale e un procedimento disciplinare. Scarpinato aveva parlato di imbarazzo nel partecipare alle cerimonie ufficiali.

'Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorita', - aveva detto tra l'altro - anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite - per usare le tue parole - emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà".

Tra i sottoscrittori del documento, magistrati noti come il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, il procuratore di Torino Giancarlo Caselli, il giudice e giallista Giancarlo De Cataldo, il pm di Milano Fabio De Pasquale e Alfredo Morvillo, procuratore di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Falcone uccisa nella strage di Capaci. Ma anche tante 'toghe' di tutta Italia meno conosciute. Oltre ai 320 magistrati a condividere le parole di Scarpinato sono anche esponenti del mondo delle università e della società civile.

Per tutti il discorso del procuratore generale era da intendersi come un "monito alle tante persone che si stanno formando una coscienza civile o a quelle che possono cedere alla tentazione della disillusione, e come esortazione a tener sempre un comportamento esemplare e onesto nell'interesse dello Stato democratico e costituzionale". "Chi ha memoria storica e consapevolezza culturale sa - scrivono - che la storia del nostro Paese è anche la storia di poteri criminali che ne hanno condizionato lo sviluppo sociale, politico ed economico. Chi ha una coscienza morale e professionale e il coraggio di non rassegnarsi a quello che è accaduto ed accade nel nostro Paese, ha il dovere civico di associare il proprio impegno professionale e culturale alla difesa intransigente dei valori costituzionali e di opporsi al rischio di un progressivo svuotamento dello statuto della cittadinanza che, lasciando spazio al crescere di una rassegnata cultura della sudditanza, determina il degrado del vivere comune a causa del proliferare di sopraffazioni, arroganze e cortigianerie interessate".

"Chi, oltre a possedere quella coscienza e quel coraggio, può spendere la credibilità di una vita passata a combattere i poteri criminali, - spiegano - ha il dovere e il diritto di marcare la differenza tra l'agire autenticamente democratico e quello di chi si adatta alle situazioni e preferisce il vivere mediocre che supporta e stabilizza le ingiustizie e le mistificazioni". "Le parole di Roberto Scarpinato, nell'esaltare la cultura delle istituzioni, - aggiungono - sono state anche esempio di adeguatezza comunicativa: hanno assolto al dovere di comprensibilità verso chi ha meno presidi culturali, senza abbassare il sentimento di autentica giustizia, che troppo volte viene eluso preferendo la comodità del linguaggio autoreferenziale dei pochi, insensibile al desiderio di conoscere e di crescere culturalmente dei molti".


Fuori i soldi!

knox.jpg

Quando si afferma che in Italia non ci sono soldi, che non si possono fare tagli, si afferma una colossale balla. Semplicemente, il Sistema non può segare il ramo dove è seduto, un ramo di privilegi, di connivenze, di "roba" dello Stato affidata agli amici, di opere inutili come la Tav affidate alle cooperative rosse, di sperperi colossali senza ritorno occupazionale. Rigor Montis è ridotto alla parte del mendicante, del viandante europeo con il piattino in mano per chiedere agli Stati europei di comprare i nostri titoli per non fallire. Un giorno a Berlino, il giorno seguente a Helsinki e il successivo a Parigi. I premier europei lo scansano come un questuante. Ma i soldi ci sono, bisogna solo andarli a prendere.
Iniziamo oggi con i risparmi dalle pensioni d'oro che gridano vendetta al cospetto di Dio, degli imprenditori suicidi, degli operai in mezzo a una strada, delle devastazione del tessuto produttivo delle PMI, degli esodati presi per i fondelli. Le pensioni d'oro sono 100.000 con un costo annuo di 13 miliardi, se venissero abbassate a 5.000 euro netti al mese, il risparmio ANNUALE sarebbe superiore ai 7 miliardi di euro. In luglio i parlamentari hanno bocciato un emendamento per portare le pensioni d'oro a un minimo di 6.000 euro netti al mese e, se cumulate con altri trattamenti pensionistici, a 10.000. Rigor Montis si è ben guardato da fare un decreto legge. Il Parlamento è come Fort Knox. Gli ex parlamentari percepiscono 2.330 pensioni, pari a 219 milioni di euro all'anno, di cui solo 15 milioni versati da loro. Gli altri 204 li pagano gli italiani con le tasse più alte del mondo. Conoscere i dettagli dei pensionati d'oro fa venire la bava alla bocca. Giuliano Amato prende 31.000 euro lordi AL MESE, 9.000 di vitalizio da ex parlamentare, 22.000 dall'INPDAP da ex professore universitario. Come potrebbero vivere senza un vitalizio gli ex parlamentari? Che mestiere potrebbero fare un D'Alema o un Gasparri dopo decenni di onorato servizio? Il vitalizio è una necessità per non lavorare, a destra come a sinistra. Oliviero Diliberto ha diritto a 7.959 euro dall'età di 51 anni, Franco Giordano a 6.203 euro dall'età di 50 anni, Waterloo Veltroni 9.000 euro da quando aveva 49 anni, che incassò prima di ritornare a prendere lo stipendio da deputato. Come vi sentite adesso? Siete ancora in grado di pagare la cartella di Equitalia con il sorriso sulle labbra e di andare in pensione a 67 anni, se ci arriverete vivi? I vitalizi vanno aboliti e quelli in vigore abbassati a 3.000 euro lordi. L'acqua è frizzante, ripeto: l'acqua è frizzante.



http://www.beppegrillo.it/2012/08/fuori_i_soldi.html

Lavori al call center? Precario per sempre Colpa di un comma del decreto Sviluppo. - Marco Palombi.



callcenter2 interna


Il documento voluto e pensato dal ministro Passera è passato venerdì al Senato. Il testo, però, riserva una brutta sorpresa per gli operatori telefonici destinati possono lavorare col contratto a progetto vita natural durante.

Col suo trentaduesimo voto di fiducia, per l’occasione al Senato, il governo fa approvare definitivamente il cosiddetto decreto Sviluppo. I contenuti sono quelli di cui si è parlato nelle settimane scorse: un po’ di semplificazioni, una riformetta degli incentivi alle imprese per anticipare quella proposta da Francesco Giavazzi, l’udienza filtro in appello, il credito d’imposta per la ricerca e poco altro. Corrado Passera, comunque, era contento che la sua creatura vedesse finalmente la luce, un po’ meno lo saranno stati quelli che lavorano nei call center. Colpa di un piccolo comma – per la precisione il settimo dell’articolo 24 bis – introdotto con un emendamento in commissione alla Camera e di cui finora non s’è quasi parlato: quella normetta prevede che chi si occupa di “attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzata attraverso call center outbound”, vale a dire al telefono, può lavorare col contratto a progetto vita natural durante. Fine precarietà mai. In sostanza, governo e Parlamento hanno sancito per legge che chi lavora in un call center è una sorta di figlio di un dio minore e deve essere abbandonato alla necessità di chi lo assume – si fa per dire – di competere con le altre aziende del settore cercando profitto quasi esclusivamente nella compressione del costo del lavoro.
Nel dibattito parlamentare su questo provvedimento però, segnatamente a Montecitorio, è successa una cosa curiosa: un solo deputato s’è alzato, dopo le dichiarazioni dei capigruppo, per annunciare il suo no in dissenso rispetto al partito che l’ha eletto. “Questa norma che consente di non stabilizzare i lavoratori dei call center è inaccettabile”, ha scandito in aula Giacomo Portas, deputato indipendente nel Pd, che in Piemonte ha fondato un suo movimento chiamato “I Moderati” (non proprio un nostalgico del Pci, insomma) arrivato al 9,6 per cento alle ultime comunali. Qual è la cosa strana? Portas nella vita è stato un imprenditore, ed è ancora un manager, proprio nel settore dei call center.
“Qualcuno – racconta al Fatto – m’ha detto che il mio è stato finora l’unico conflitto di disinteresse della legislatura, ma voglio essere chiaro: non sono un santo, mi piace guadagnare, ma nell’azienda che ho contribuito a fondare, di cui sono stato socio per anni e con cui ora continuo a collaborare, di co.co.pro. non ne abbiamo fatti in 12 anni e non li faremo mai”. La società in questione si chiama Contacta, ha diverse sedi in Italia e 2.200 dipendenti, “tutti assunti col contratto nazionale delle telecomunicazioni: rispetto alla proposta del governo, per capirci, si passa da 8-9 euro l’ora a 20”. Il “moderato” Portas, curiosamente, su questo tema pare più a sinistra pure di qualche sindacalista: “Si parla tanto di crescita e io dico che ci sono 2 miliardi di fatturato libero per l’Europa in questo settore che potremmo portare in Italia creando lavoro vero”. Lavoro vero perché, quello che si realizza con questa leggina non lo è, anzi, per contrappasso, finisce per avere l’effetto di tenere nel sottosviluppo le industrie del settore: “Così non si contribuisce a fare dei call center una moderna industria dei servizi, in cui fai l’outbound, ma anche la ricerca, l’inserimento dati, il marketing: per noi, per dire, l’attività di call center nel senso stretto è il 25-30% del fatturato”. Sul mercato, è la tesi del deputato piemontese, si sta meglio così: “Puoi fare margine anche rispettando i diritti delle persone, basta puntare sulla formazione e sulla qualità di gente che non è facilmente sostituibile: avere lavoratori preparati ti fa trovare commesse migliori, pagate meglio. Faccio un esempio: noi curiamo l’on line di Chebanca!, gruppo Mediobanca, e prima di iniziare i nostri hanno dovuto fare tre mesi di corso: non è che li puoi sostituire da un giorno all’altro. E poi noi lavoriamo in Germania, in Finlandia, un po’ dovunque in Europa: per garantire un servizio in 12 lingue devi avere gente preparata, mica la puoi tenere alla fame”. Infine una domandina ai tecnici e ai teorici dei salari che devono adattarsi alle dinamiche del mercato: “Parliamo sempre di crescita e di rilancio dei consumi, ma quanto può consumare uno che guadagna 700 euro al mese?”.
Ti potrebbero interessare anche

Così si sposano i mafiosi. - Lirio Abbate.

L albergo di Mandatoriccio mare, in provincia di Cosenza, spesso sede di matrimoni mafiosi
L'albergo di Mandatoriccio mare, in provincia di Cosenza, spesso sede di matrimoni mafiosi
Castelli in affitto. Banchetti con mille invitati. Sfarzo, spese folli e auto di lusso. I matrimoni dei boss della 'ndrangheta documentati per la prima volta da L'Espresso. 
I matrimoni in Calabria di 'ndranghetisti o figli dei boss si trasformano non solo in strette alleanze fra i clan ma in veri e propri summit mafiosi dove partecipano anche i latitanti. Adesso «l'Espresso» può documentare tutto ciò. Sul numero in edicola venerdì il settimanale pubblica un ampio servizio giornalistico e fotografico dopo che il cronista s'è infiltrato nei banchetti di nozze che spesso si trasformano in veri e propri raduni di mafiosi. Si vedono scene da film, come quelle che abbiamo documentato fotograficamente lo scorso luglio in un ristorante nei pressi di Vibo Valentia, durante il matrimonio di una coppia di rampolli della cosca Bonavota di Sant'Onofrio. Fra i 650 invitati c'erano sicuramente incensurati, ma anche rappresentanti di molte cosche calabresi, i cui uomini hanno individuato gli "intrusi" de "l'Espresso": lì c'erano persone che non potevano essere fotografate.

Sono i matrimoni d'onore i cui banchetti di nozze, anche con mille invitati, si svolgono spesso pure in castelli in affitto realizzati sulla costa ionica o tirrenica e dove lo sfarzo, le spese folli e le auto di lusso sono i punti cardini della festa. Si sposano così i boss della 'ndrangheta e i loro figli.

Tutti indossano capi nuovi di zecca, facendo a gara per sfoggiare firme di stilisti all'ultimo grido. Non importa se il fisico non è da modelli: gli uomini mettono in vista grosse pance e le donne rotoli ai fianchi. Ma è il marchio griffato che conta. Anche in questo caso, il dress code scarseggia in charme e abbonda in sperperi: i maestri della moda inorridirebbero nel vedere le loro creazioni infilate in quel bailamme di signore sovrappeso e picciotti panciuti. Per di più mafiosi. E chi non può permettersi questi capi ricorre a squallide imitazioni. Dalle indagini dei carabinieri del Ros emerge come il nipote di un boss per partecipare al matrimonio di un amico sfoggiasse scarpe in pelle di coccodrillo da tremila euro su consiglio di una boutique di Roma. L'unico obiettivo è stupire, far vedere quale sia la ricchezza del clan che organizza le nozze. E il banchetto nuziale dura anche dodici ore. 



Nel disporre gli invitati, però, si ricorre a grandi accorgimenti. Più che matrimoni, sembrano feste di paese. Ogni banchetto ha una zona separata, dove è vietato fare foto o filmati. Lì i tavoli sono organizzati secondo l'appartenenza alle cosche: al centro il capo, intorno affiliati e consorti, ai lati i guardaspalle. A loro volta, poi, i tavoli di clan sono raggruppati in base alla "provincia" mafiosa a cui fanno riferimento. In pratica, una mappa vivente degli organigrammi criminali. I mafiosi regalano agli sposi somme di denaro. Li infilano in buste bianche che vengono raccolte in un forziere sistemato sul tavolo nuziale. A questi banchetti ogni tanto partecipano anche i latitanti. E per evitare sorprese c'è una rete di sorveglianza, con vedette pronte a dare l'allarme in caso di movimenti sospetti o iniziative delle forze dell'ordine. Trent'anni fa i mafiosi siciliani puntavano anche loro tutto sui banchetti di nozze, mostrando potenza e alleanze e invitati eccellenti. Ma in Calabria, oggi li superano.


Così si sposano i mafiosi

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/cosi-si-sposano-i-mafiosi/2188320

Sbarco su Marte, con sette minuti di terrore. - Paolo Mastrolilli




La sonda della NASA con a bordo il rover curiosity entra nell'orbita marziana: in questa fase tocca una velocità massima di 20 mila chilometri l'ora


Domani mattina il rover Curiosity si poserà sul Pianeta Rosso: sarà la manovra d’atterraggio più complessa mai sperimentata.


INVIATO A NEW YORK
Stavolta andiamo a cercare la vita. Non i marziani o gli omini verdi, e neppure le forme microbiche, perché non abbiamo ancora gli strumenti adatti per analizzarle. Però le condizioni di vità sì: la prova, in sostanza, che su Marte è potuta esistere qualche entità vivente. Dopo i «sette minuti di terrore», come la Nasa ha definito l’atterraggio del rover Curiosity sul Piantea Rosso, previsto lunedì mattina, questa sarà la missione. In attesa che gli uomini, secondo le previsioni del direttore dell’agenzia spaziale americana, Charles Bolden, riescano a metterci piede tra un paio di decenni.

Il viaggio del Mars Science Laboratory, costato 2,5 miliardi di dollari, era cominciato il 26 novembre 2011 da Cape Canaveral. Dopo aver percorso 567 milioni di chilometri, arriverà su Marte all’1,17 di lunedì mattina, minuto più, minuto meno. La Nasa ha definito l’atterraggio come i «sette minuti di terrore», perché sarà la manovra più ardita e difficile mai tentata sul Pianeta Rosso. La sonda entrerà nell’atmosfera ad una velocità di 13.200 miglia orarie, circa 5.900 metri al secondo, protetta da due scudi per evitare che si disintegri. A quel punto si aprirà un paracadute supersonico, che dovrà rallentarla. Se tutto funzionerà, gli scudi si separeranno, consentendo l’uscita della «Sky crane». Una gru stellare, in altre parole, che avrà il compito di poggiare sulla superficie Curiosity, e poi allontanarsi grazie ai suoi razzi. Una persona normale fatica anche ad immaginare un’operazione del genere, condotta a 500 milioni di km di distanza, figuriamoci a farla.

La Nasa, però, ha scelto questo azzardo, perché vuole informazioni più precise di quelle che in passato aveva ottenuto con missioni tipo il mitico Pathfinder o la coppia gemella Spirit e Opportunity. Tanto per cominciare, Curiosity è parecchio più grande dei suoi predecessori: tre metri di lunghezza, per 900 chili di peso. Un po’ come posare una Cinquecento su Marte. Poi la zona di atterraggio è molto più ambiziosa, e questo dovrebbe fare la differenza rispetto al passato. In precedenza, per non correre rischi, la Nasa aveva fatto scendere i suoi rover in luoghi del pianeta abbastanza piatti e lisci. Era la soluzione più logica e facile, ma anche meno interessante, perché queste sono aree che contengono meno informazioni scientifiche. Curiosity invece atterra nel mezzo del Gale Crater, in una zona lunga 20 km per sette, ad un passo dal Mount Sharp. Si tratta di una regione che ha vissuto fenomeni di erosione molto significativi, e le osservazioni fatte dalle missioni orbitanti hanno notato la presenza di minerali che si sono formati in presenza di acqua. Gli strati geologici di questa zona sono una specie di libro che racconta la storia di Marte, e Curiosity cercherà di leggerlo con i suoi strumenti, per dirci se sul pianeta c’erano le condizioni per la vita. La presenza potenziale di materia organica. «Trovarla - ha spiegato Matt Golombek del Mars Exploration Program - non è facile. E resterebbe comunque il dubbio se questa materia ha origine biologica o no. Così, però, si cerca di rispondere alle nostre domande fondamentali: siamo soli nell’universo? La vita si sviluppa ovunque sia presente acqua in forma liquida? Oppure è necessario un atto divino, un incidente che accade una volta su un trilione di casi? C’è stata una seconda Genesi, o noi siamo stati incredibilmente fortunati?». I primi segnali di Curiosity dovrebbero arrivare 14 minuti dopo l’atterraggio, e le prime immagini già lunedì. Poi, se tutto va bene, cominceranno due anni di studio.

L’atterraggio arriva qualche giorno dopo l’annuncio che la Cina vuole arrivare sulla Luna l’anno prossimo, a cui Bolden ha risposto rilanciando gli obiettivi della Nasa: mandare un uomo sopra un asteroide entro il 2025, e poi su Marte negli anni Trenta. «Sul piano tecnologico e militare - spiega Jim Lewis, direttore del Technology and Public Policy Program al Center for Strategic and International Studies di Washington - questa corsa allo spazio vuol dire poco. Tutto quello che ci serve per la difesa possiamo realizzarlo con altri mezzi. Questa è politica. Anzi, di più: è l’aspirazione della nostra natura a conoscere. Se l’avessimo persa, però, mi comincerei a preoccupare».

Voi siete qui - Siamo per il rinnovamento, votiamo Pippo Baudo. - Alessandro Robecchi


Alessandro Robecchi, il sito ufficiale: testi, rubriche, giornali, radio, televisione, progetti editoriali e altro


Fare chiarezza e sgombrare il campo da ogni equivoco. 
Ristabilire la verità delle cose. 
Procedere senza indugi sulla strada del rinnovamento della classe politica. 
Diradare le nebbie sulla candidatura di Pippo Baudo a presidente della Regione Sicilia avanzata da esponenti Pd. Il popolare presentatore ha detto alla radio di aver ricevuto una telefonata da Sergio D’Antoni che gli proponeva la candidatura all’ambita carica. E’ una buona notizia. Se ne deduce infatti che D’Antoni è vivo, partecipa attivamente alla vita politica del paese e sa usare il telefono. 
Il segretario del Pd siciliano ha smentito, quindi forse è vero. 
Bersani ha riso di gusto e ha detto di non saperne nulla. 
Quindi è sicuramente vero, tanto più che Baudo ha dichiarato di avergli parlato della cosa, con il che il popolo democratico è ora di fronte all’agghiacciate dilemma se credere a Pippo o al segretario. 
Pippo Baudo ha dichiarato anche che non è la prima volta. 
Prima di D’Antoni gli aveva chiesto di candidarsi in Sicilia Prodi (2005), e prima di lui Nitti (1919), e prima di lui Matilde di Canossa (1079), e prima ancora Odoacre in persona (480, poco prima dell’invasione della Dalmazia). 
A tutti, con coerenza cristallina, Pippo Baudo ha detto un no fermo e cortese, perché lui non ama i compromessi e preferisce fare la tivù, dove rappresenta il rinnovamento da almeno 54 anni. E questo, pur essendo di sinistra dai tempi, appunto, di Odoacre, e pure prima, come si può vedere nelle pitture rupestri di Ukhahlamba-Drakensberg, in Sudafrica (1.000 a.C.), dove un giovane Pippo Baudo mostra a un bisonte la sua tessera del Pd. A nulla sono valse le rassicurazioni del mondo politico che promettevano a Baudo un appoggio ampio della nuova granitica coalizione di centrosinistra – dai Tupamaros alla Binetti – oltre alla garanzia di poter formare liberamente la sua squadra, inclusi Giucas Casella e Sharon Stone. Alla fine, la candidatura pare tramontata, lasciando in tutti la netta sensazione che Pippo Baudo, dicendo “Grazie, non è il mio mestiere”, sia l’unico in questa storia che ci sta con la testa. 


Andreotti...


Giulio Andreotti ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma per accertamenti.
Per poter rispondere meglio alle cure ha subito chiamato il suo avvocato...
(pinziah)



https://www.facebook.com/photo.php?fbid=444736595566122&set=a.212016495504801.55305.212015282171589&type=1&theater

Moglie, cognata, cognato della moglie, nipote e tata della figlia: in Rai è famiglia Comanducci. - Sara Nicoli




Non solo Minzolini: nei ruoli chiave della tv pubblica, gli uomini del Cavaliere imperversano ancora. Esemplare il caso del vice direttore generale, che ha visto molti suoi parenti far carriera nell'azienda pubblica con varie qualifiche. Il numero due di viale Mazzini, su ordine di Berlusconi, fece firmare al dg una lettera che rendeva inamovibili i giornalisti fedeli all'ex premier.
Non solo Minzo. Alla vigilia della soluzione del “caso Tg1“, in Rai si fanno nuovamente i conti di quanto i costi della politica abbiano gravato, negli anni, sui bilanci dell’azienda. Minzolini – è noto – resterà in Rai nonostante il “licenziamento” dalla poltrona più alta del Tg1 perché è stato assunto con la qualifica di caporedattore con funzioni di direttore, dunque non può essere allontanato dall’azienda come lo sarebbe stato se avesse avuto, invece, il contratto da direttore e basta. La Rai, quindi, si terrà Minzolini fino alla pensione, a 550 mila euro l’anno più benefit.
Ma il “direttorissimo”, come lo ha sempre chiamato il Cavaliere, in fondo è solo la punta dell’iceberg. Sono anni che i berlusconiani in Rai gravano in modo pesantissimo sui bilanci aziendali. Ce n’è uno che vale più di cento, in particolare, ed è ormai prossimo alla pensione, ma con speranze di rientrare direttamente al settimo piano di viale Mazzini come consigliere del prossimo cda. E’ Gianfranco Comanducci, vice direttore generale per gli acquisti e lo sviluppo commerciale, uomo di Previti in Rai, che nel corso degli anni non solo ha “blindato” contrattualmente ed economicamente i “famigli” del Cavaliere in azienda, ma ha anche provveduto mettere al sicuro se stesso e i suoi affetti più cari, dalla moglie fino alla tata della figlia.
Ebbene, Comanducci (assunto in Rai come annunciatore, più volte sull’orlo del licenziamento per il modo disinvolto con cui ha sempre svolto il suo mestiere fin dagli esordi) ha scalato i vertici Rai solo per meriti politici. Il momento più alto del suo “mandato” è stato durante l’era della direzione generale di Flavio Cattaneo (2003 al 2006) quando, come direttore Risorse Umane, mise a posto un sacco di posizioni di amici. E anche familiari.
Stiamo parlando di una vera “dinasty” Rai che si è dipanata nel corso degli anni, sotto gli occhi di tutti ma senza che nessuno in Rai gridasse allo scandalo. Ora, però, visti i conti sempre più magri dell’azienda, pare che il clima intorno a questi potentati stia cambiando. Comanducci, dunque. Si parte dalla moglie, Anna Maria Callini, nominata dirigente in azienda nonostante il parere contrario dell’allora direttore generale Claudio Cappon. Si passa per la cognata (sorella della moglie, Ida Callini), promossa funzionario proprio dell’uffico Risorse Umane, da pochi mesi in pensione, e per il cognato della moglie (Claudio Callini) assunto come tecnico e poi passato in un batter d’occhio a cineoperatore giornalista a tutti gli effetti; un salto di retribuzione di oltre il 40 per cento. E si arriva alla nipote (figlia della sorella), che per superare una regola Rai che blocca l’assunzione ai figli dei dipendenti, è stata presa nella consociata per la pubblicità Sipra. Dove – e qui si tocca veramente il punto più alto – c’è stata una new entry davvero fenomenale: alla direzione Sipra è stata presa anche una signora di buone speranze (Barbara Palmieri). Che non aveva particolari qualità se non quella di essere stata la “tata” della figlia.
Comanducci, insomma, è un vicedirettore generale Rai che negli anni ha saputo ottimizzare nel modo “migliore” il proprio potere di fonte politica in azienda. Padrone indiscusso anche del “Circolo sportivo dei dipendenti Rai”, un gioiello sul Tevere, che ha trasformato in un luogo quasi esclusivo. Poco prima che Cattaneo lasciasse la Rai, Comanducci provvide a blindare (economicamente) le posizioni di alcuni degli uomini i cui nomi sarebbero poi finiti in un’indagine della magistratura di Milano sul crac Hdc.
Si tratta del gruppo di persone poi ribattezzati dalla stampa “struttura Delta”, che è stata smantellata, ma solo in apparenza. Ebbene, nel 2005 Flavio Cattaneo lasciò viale Mazzini per diventare amministratore delegato di Terna, poco prima della vittoria di Prodi alle elezioni del 2006. Ad un passo dall’uscio della direzione generale Rai, Comanducci fece firmare a Cattaneo una serie di lettere indirizzate a Clemente Mimun, allora direttore del Tg1, Fabrizio Del Noce, Deborah Bergamini, Francesco Pionati e Carlo Nardello. Nelle lettere c’era scritto che, in caso di “cambio di ruolo” all’interno dell’azienda (un passaggio di direzione o altro, per intendersi), quest’ultima avrebbe dovuto pagare a ciascuno di loro, a titolo “di indennizzo”, ben 36 mensilità, tre anni di stipendio. Cifre, ovviamente, molto alte considerati i livelli di stipendio dei dirigenti in questione, che avrebbero reso – questa era l’obiettivo di Comanducci su ordine di Berlusconi – inamovibili gli “uomini Delta” all’interno di strutture chiave come, appunto, il Tg1 oppure la fiction (Del Noce) o il marketing strategico (Bergamini). Con le elezioni, Pionati e Bergamini sono finiti in Parlamento, Del Noce è ancora alla fiction, Nardello è stato nominato solo pochi giorni fa allo Sviluppo Strategico ed è il dirigente più pagato della Rai (la Corte dei Conti ha minacciato di comminare multe all’azienda se non fosse stato ricollocato dopo la chiusura di Raitrade, dove era amministratore delegato). Quanto a Clemente Mimun, prima di lasciare la Rai per Mediaset, il direttore del Tg5 fece valere la lettera firmata da Cattaneo, ma il nuovo direttore generale Cappon si rifiutò di riconoscerla, tanto che è ancora in corso un contenzionso tra Rai e Mimun dove “ballano” più di due milioni di euro.
Tirando le somme, la Rai negli anni ha fatto fronte ad esborsi economici pazzeschi per coprire veri e propri “mandarinati” di stretta osservanza politica, ma soprattutto per pagare dirigenti che mai, neanche per caso, hanno perseguito il bene aziendale ma solo ed esclusivamente il proprio tornaconto personale e del proprio dante causa nel Palazzo. Minzolini, quindi, è solo l’ultimo di una lunga serie. Ma anche lui, come gli altri, resterà in Rai fino alla pensione. A meno non sia la Rai, stavolta, a chiudere i battenti prima di quel tempo.
articolo modificato da redazioneweb alle ore 20
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA PRECISAZIONE DI DEBORAH BERGAMINI
Gentile Direttore,
l’articolo a firma di Sara Nicoli, pubblicato oggi sul sito del Fatto Quotidiano Online, contiene alcune falsità che mi chiamano in causa. La prego pertanto di ospitare queste mie righe affinchè mi sia consentito tornare ancora una volta su questioni relative al mio trascorso rapporto lavorativo con la Rai. Vorrei precisare quanto segue:
1) Non ho mai ricevuto alcuna lettera da parte dell’allora Direttore Generale della Rai Flavio Cattaneo destinata a “blindare (economicamente)” la mia posizione dirigenziale in Rai;
2) Non sono mai stata al centro di alcuna indagine della magistratura di Napoli in cui è stato coinvolto Agostino Saccà;
3) Non è mai esistita alcuna Struttura Delta, che, come per moltissime altre cose, è parto esclusivo della fantasia “investigativa” di uno specifico quotidiano.
Secondo me dovreste verificare le cose che scrivete, lo dico per la qualità della vostra copiosa produzione editoriale. Magari, se vi serve qualche informazione, chiamatemi senza problemi.
Cordiali saluti,
Deborah Bergamini
La replica di Sara Nicoli
Gentile onorevole Bergamini, prendiamo atto volentieri del fatto che lei non ha ricevuto, come altri berlusconiani in Rai, alcuna lettera dal direttore Cattaneo. Probabilmente perché lei è stata la prima della cosiddetta “struttura Delta” (il copyright non è come lei ricorda del Fatto Quotidiano) a lasciare la Rai in seguito allo scandalo intercettazioni Hdc scoppiato nel novembre 2007 – i fatti risalivano al 2005. Il 30 novembre del 2007 infatti la Rai, in attesa di chiarimenti, decise di sospenderla dalla Direzione del Marketing Strategico. Una sospensione contestata, con tanto di minaccia di causa contro, la Rai che si è poi risolta con un divorzio consensuale, sulla base di un accordo di cui si ignorano i contenuti economici . Il nome “struttura Delta”, come lei ricorda, è poi stato per la prima volta utilizzato da Repubblica e poi ripreso da quasi tutti i quotidiani per indicare una sorta di team che all’interno della Rai agiva a volte accordandosi con la concorrenza
Sara Nicoli
La controreplica di Deborah Bergamini
Gentile signora Nicoli,
mi rendo conto che quando, magari per la fretta, si scrivono cose false e non si vuole ammetterlo né tantomeno scusarsi, diventa impervio il cammino per mantenere il punto ed essere allo stesso tempo congruenti. Lei dice che probabilmente non ho ricevuto, come altri, una presunta lettera di Cattaneo nel 2005 perché ho lasciato la Rai dopo lo scandalo intercettazioni avvenuto a fine 2007. Va bene che la posta interna di Viale Mazzini è un pò lenta, ma non le pare di esagerare? E’ ovvia la sua intenzione di richiamare una vicenda che nulla ha a che fare con quella in oggetto, in modo da generare confusione in più. Dopodichè, lei richiama molto correttamente la conclusione del mio rapporto professionale con la Rai, compreso l’accordo di cui si ignorano i contenuti economici, come è giusto che sia (e meglio così perché temo che rimarreste molto molto delusi). Infine preciso che non ho mai attribuito il copyright del nome Struttura Delta al Fatto, ho solo citato “uno specifico quotidiano”, e mi riferivo ovviamente a Repubblica. Legga meglio.
Cordiali saluti, Deborah Bergamini