lunedì 6 agosto 2012

Brucia la Sicilia, addio riserva dello Zingaro.


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Caldo e fiamme in tutta l'isola. Il sindaco di San Vito Lo Capo: "E' andato tutto in fumo, abbiamo perso l'area naturale più importante". Orlando in visita alla discarica di Bellolampo: "Dietro gli incendi, interessi criminali".

La morsa del caldo e degli incendi stringe la Sicilia. Sono una quindicina al momento i fronti su cui si lavora per domare le fiamme, divampate su tutto il territorio regionale. Per far fronte all'emergenza sono al lavoro sia squadre di terra che i Canadair.

E' allarme sosprattutto tra le province di Palermo e Trapani. Ed è proprio nel trapanese che è bruciata la riserva naturale dello Zingaro dove è stato necessario evacuare gli ospiti del villaggio Calampiso a scopo precauzionale.

I villeggianti hanno dovuto trascorrere la notte fuori dalla struttura alberghiera prima di rientrare in possesso dei propri alloggi. Le fiamme si sono estese tra le località balneari di San Vito Lo Capo, Castelluzzo, Alcamo e Castellammare.

Gli aerei della Protezione civile e della Forestale, inoltre, sono impegnati a Castronovo di Sicilia, in provincia di Palermo. Così come nei comuni dell'hinterland palermitano. Da Monreale a Castelbuono. In provincia di Messina roghi si registrano a Librizzi, dove un forestale è rimasto ferito precipitando in una scarpata, a Santa Lucia del Mela e a Mistretta.
Incendi poi sono registrati a Modica, in provncia di Ragusa; a Linguaglossa, in provincia di Catania; e ad Avola, nel Siracusano. In provincia di Ragusa, un anziano di 81 anni è rimasto ustionato nel rogo scoppiato vicino Modica.

Dramma "Zingaro" - E' un vero e proprio dramma quello che sta vivendo il comune di San Vito Lo Capo che ha perso il suo gioiello, la riserva dello Zingaro. "E' andato tutto in fumo" il grido disperato del sindaco Matteo Rizzo. "L'incendio di una delle più belle aree naturali della Sicilia si è spento solo perché non c'era più niente da bruciare".
Da qui, la denuncia: "Siamo rimasti soli a fronteggiare l'emergenza con i vigili del fuoco, il personale della Protezione civile e della Forestale cui va il mio plauso - dice il sindaco - Non sono intervenuti i mezzi Canadair, nè i mezzi aerei, gli unici che avrebbero potuto fermare le fiamme. Le nostre richieste sono cadute nel vuoto. Mi rendo conto che domenica in Sicilia c'erano numerosi incendi e che la situazione era piuttosto seria, ma è inconcepibile che una delle più belle riserve della Sicilia, oltre che la più antica, vada in fumo senza che si alzi un dito''.
In fiamme discarica di Bellolampo - L'incendio nella discarica di Bellolampo, che brucia ininterrottamente da quasi nove giorni, finalmente "è quasi domato", come spiega questa mattina il comandante dei vigili del fuoco di Palermo, Gaetano Vallefuoco. Anche oggi, i vigili del fuoco, il corpo forestale, la Protezione civile e l'Amia sono sul luogo per continuare a ricoprire di terra il terreno andato a fuoco, mentre non sono più in azione i canadair che in una settimana hanno effettuato centinaia di lanci d'acqua. Questa mattina, alle 9, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, effettuerà un sopralluogo per verificare di persona la sitiazione. Intanto, oggi pomeriggio si riunirà all'assessorato regionale della Salute un tavolo tecnico con la partecipazione di tutte le componenti coinvolte nella gestione dell'emergenza provocata dal rogo nella discarica palermitana di Bellolampo, a cominciare da Arpa Sicilia, Azienda sanitaria provinciale e Comune. Si attendono infatti tra domani e mercoledì i dati delle analisi eseguite per verificare la presenza di diossina nell'aria. E questa sera, a Borgo Nuovo, si terrà, un incontro pubblico con la cittadinanza preoccupata per l'incendio. (da Palermo Today)

La rabbia di Orlando - "Credo che sia necessario sottolineare come attorno al ciclo dei rifiuti in generale, e attorno all'Amia in particolare, possano esserci interessi criminali volti a mettere in difficoltà la cittadinanza e a produrre sprechi tipici di una economia di emergenza". Lo ha detto il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che stamani ha effettuato un sopralluogo nella discarica di Bellolampo, interessata da otto giorni da un vasto incendio.

"L'avvio di una nuova amministrazione comunale dichiaratamente di rottura rispetto al malgoverno della città e agli sprechi criminali realizzati dalla dirigenza dell'Amia - ha detto Orlando - così come la imminente campagna elettorale regionale possono essere motivi di manovre strumentali da parte delle organizzazioni criminali e occasione per mettere in atto azioni a favore di interessi inconfessabili volti a determinare il tracollo dell'Amia e il passaggio della stessa nelle mani di immancabili gruppi speculativi che sono gli stessi che hanno messo in ginocchio Palermo e la Sicilia".

Durante il sopralluogo, Orlando ha notato "l'assoluta mancanza di elementari condizioni di sicurezza per i lavoratori e di prevenzione degli incendi nella discarica. E' evidente - ha proseguito il sindaco - che la città e l'Amministrazione comunale non possono sopportare una condizione di degrado aggravata dagli ingenti costi necessari per fronteggiare situazioni di emergenza come quella attuale". "

Paura a Messina - Un operaio forestale è precipitato in un burrone mentre tentava di spegnere un incendio che da due giorni interessa la località Pietrasanta, nel comune di Librizzi (Me). Luigi Truglio è stato recuperato da una squadra di forestali, dai carabinieri e dai volontari comunali di protezione civile guidati dal sindaco di Librizzi Renato Cilona; i soccorsi sono durati tre ore. Il ferito è stato trasferito in elicottero del 118 nell'ospedale di Messina.

Caro Emanuele, questa non me la bevo. - Giuseppe Casarrubea


Lo storico Giuseppe Casarrubea
Nella recente controversia tra Ingroia e Macaluso sulla trattativa Stato-mafia, ci sono diversi punti non chiariti. Forse vale la pena tentare di renderli meno confusi. Con una pregiudiziale sulla quale non si può discutere: i magistrati facciano il loro dovere, come stanno facendo.  E quelli che si dilettano con la penna in disquisizioni varie, utilizzino come gli pare il loro tempo. Ma senza prendere persone e cose sottogamba o, peggio ancora, a pedate o a scappellotti come facevano i maestrini, quando usavano la bacchetta. E’ troppo comodo farlo. E anche disdicevole per molti pennivendoli che, oggi più che mai, si dànno a delegittimare il prezioso lavoro dei magistrati, fondamentale alla nostra democrazia. Come aveva previsto e scritto Giovanni Falcone.
A Emanuele Macaluso, che conosco dai miei tempi di militanza nel Pci negli anni Settanta, devo dire che i suoi recenti articoli su Ingroia non mi hanno aiutato nella direzione sperata e per questo vengo a interrogarmi e a interrogarlo.
Perchè tentare di sminuire i caratteri e la consistenza della trattativa tra Stato e mafia è irragionevole. Fa a pugni con la storia che è sempre maestra di vita. Così un vecchio militante del Pci come lui, non può alterare il senso delle cose. Dovrebbe dare ad esse il giusto peso, la direzione che hanno avuto, visto, peraltro, che il nostro ex senatore è stato un dirigente nazionale del Pci e direttore de l’Unità.
Per questo non può venirci a raccontare che “il grande compromesso tra mafia e Dc” risale al 1948. A quella data i giochi erano stati già fatti. Bastò un anno, come egli stesso fa notare. Dalle regionali siciliane del 1947, quando il Blocco del popolo ebbe la maggioranza relativa dei voti, alle politiche del 1948, quando la Dc sfiorò la maggioranza assoluta. In Italia. Ma anche in Sicilia, dove si sarebbe dovuto formare, già dall’anno precedente, un governo di centro-sinistra con il contributo del partito di Sturzo, e invece ci furono prima la strage di Portella della Ginestra e, dopo, il governo di centro-destra. La sequenza fu questa: strage, rinvio all’opposizione della sinistra, che aveva vinto le elezioni regionali,  sbarco dei comunisti dal governo di De Gasperi.
Ma ci fu di peggio al momento del trionfo della democrazia cristiana: la completa decapitazione del movimento sindacale siciliano. Dalla strage di Alia (settembre 1946) alle stragi di Messina (marzo 1947) e di Partinico (22 giugno 1947).
Macaluso sa bene che non furono quattro, dunque, i sindacalisti ammazzati, come incredibilmente scrive su l’Unità del 1° agosto scorso. La mafia, con l’accordo della Dc, provvide a una loro decapitazione sistematica. Il che è cosa ben diversa da quella che egli narra. Tanto più se si pensa che per diversi di loro, come Accursio Miraglia di Sciacca e Calogero Cangelosi  di Camporeale, non si arrivò neppure a una fase processuale. Si faceva così allora, nel silenzio generale: socialisti e comunisti venivano ammazzati e i tribunali non arrivavano neanche a istruire un processo. Tutti contenti. Mi sono sempre interrogato su questo punto e sempre mi sono dato una sola risposta. I morti, i caduti venivano richiamati nei comizi. Ma nulla di più. Non servivano per la verità e la giustizia. La prima veniva deviata, la seconda resa impossibile.
Portella è una cartina di tornasole. Macaluso ci dice poco in merito. Dovrebbe ricordare gli articoli di prima pagina de l’Unità del 1947 usciti nel primo semestre di questo fatidico anno di piombo. Non c’era compagno che non sapesse che dietro figure losche come il bandito di Montelepre si annidavano le fecce più nauseabonde della Rsi e del neofascismo dell’epoca. E Macaluso sa bene che il suo dovere di militante storico della sinistra gli impone di dubitare di molte versioni propalate dal sistema di potere come verità indiscusse, specie quando fondate su falsi rapporti, su depistaggi, su conflitti mai avvenuti, sulla distorsione intenzionale della verità. Cosa che fecero ampiamente uomini dell’Arma che nulla avevano da invidiare a Mori o Subranni, come il colonnello Ugo Luca e il capitano Antonio Perenze, un agente segreto attivo già all’epoca del nazifascismo.
E’ strano perciò che egli releghi ancora oggi la vicenda di Portella o gli assalti alle Camere del lavoro all’esclusiva responsabilità di Giuliano. Furono opera di un accordo in cui mafia, Servizi e Stato agirono all’unisono. Come cercò di spiegare Gaspare Pisciotta quando disse al giudice di Viterbo Tiberio Gracco D’Agostino: “Siamo una cosa sola come il padre, il figlio e lo spirito santo”.
Non capisco, quindi, come egli possa scrivere: “Non ci furono trattative: le grandi famiglie mafiose benestanti, notabili rispettati nei grandi paesi della Sicilia occidentale e di Palermo, erano grandi elettori e frequentavano familiarmente i capi della Dc siciliana”.
Questi amici che si incontrano per caso nei salotti dei palazzi nobiliari sono gli stessi che stipulano accordi a Roma, con criminali e banditi, sono l’aristocrazia nera, criminali che si dànno appuntamento nei pressi delle abitazioni del principe Borghese e di Nino Buttazzoni, o del segretario monarchico Covelli, al bar del Traforo (ancora esistente fino a qualche anno fa), a piazza San Silvestro o in via dei Due Macelli e che poi decidono al Viminale o nelle sedi romane della Dc, o in qualche convento, come meglio fare a evitare che l’Italia sia consegnata ai comunisti, alla sinistra.
Come è pensabile che una vecchia volpe come Macaluso non sappia queste cose? E come può egli ritenere che stragi di quelle proporzioni non avessero una copertura internazionale per un Paese strategico della guerra fredda? Eppure il Nostro scrive: “Senza trattative la mafia, che aveva sostenuto i liberali, i separatisti, i monarchici transitò nel partito che ormai deteneva il potere. Con la benedizione del cardinale Ruffini. La rivista di Giuseppe Dossetti ‘Cronache sociali’ documentò il transito guidato dalla mafia di elettori dai collegi di Vittorio Emanuele Orlando, nel palermitano, alla Dc”.
Per questo il vecchio senatore si riferisce al blocco anticomunista del 1948 che vedeva la mafia “parte del sistema, nel ‘quieto vivere’”. E aggiunge che i democristiani di spicco pensavano “di poter ‘governare’ una convivenza con la mafia nella ‘legalità’ consentita dai tempi”. Ma quale metro avevano i comunisti come lui per valutare il superamento del grado di ‘legalità’ consentito dai tempi? Certo è che Macaluso non era Pio La Torre, la cui tolleranza della ‘convivenza con la mafia’ era zero. Pio La Torre che contro i latifondisti e gli agrari aveva combattutto e che per queste lotte aveva fatto la galera, per poi morire ammazzato assieme a Rosario Di Salvo negli anni della guerra contro i missili atomici a Comiso. E il varo della prima legge antimafia, quando l’associazione mafiosa diventa un crimine per lo Stato (1982).
Resta un’altra piccola questione che Macaluso dovrebbe spiegare. Questo ‘quieto vivere’ interessava solo la Dc o faceva parte di una strategia politica generale che investiva anche certi ambienti del Pci? Voglio dire i vertici comunisti. Perché, analogamente a quanto avveniva con i carabinieri, per lo più giovani ragazzi del Nord, mandati al macello in una vera e propria guerra che essi combattevano per un ideale e per un pezzo di pane, allo stesso modo forse si realizzava, a livello territoriale, una carneficina di teste pensanti e oneste del sindacalismo di sinistra, mentre ai piani alti si sognava il processo democratico. La mia non è un’affermazione, né tanto meno una provocazione, ma una domanda che è mio dovere pormi, per saperne un po’ di più di questa nostra storia nazionale in parte retorica e in gran parte a colabrodo. E senza verità.
Come sono certamente i casi di: Moro, Chinnici, Terranova, Mattarella, Boris Giuliano, Costa, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino.
Nel 1993 succede qualcosa di analogo al 1947. La sinistra vince in quasi tutti i grandi Comuni italiani. A Palermo Leoluca Orlando ottiene il 70% dei consensi. Si intravede la vittoria politica delle sinistre sul piano nazionale. Invece arriva  Berlusconi. E’ di nuovo la paura a trionfare, dopo il segnale dell’uccisione di Lima, il pupillo di Andreotti in Sicilia. E così tornano gli anni di piombo che questa volta sono al tritolo. Macaluso stranamente nega la trattativa e dice che manca questa volta la “contropartita”. Ma come si fa a credergli? Non c’è solo il 41 bis. C’è qualcosa di più grave, di pesante. Il potere, la legittimazione al potere che Cosa Nostra aveva sempre avuto. E’ possibile che Macaluso non lo sappia?
Giuseppe Casarrubea

L'Italia brucia, in azione elicotteri e canadair.



Almeno 30 incendi hanno richiesto l'intervento aereo.


Sono 30 gli incendi che oggi hanno richiesto l'intervento, in supporto alle squadre di terra, di elicotteri e Canadair della flotta dello Stato. Il maggior numero di richieste al Dipartimento della Protezione Civile è arrivato dalla Sicilia, con nove richieste di intervento, seguita da Campania e Lazio (6), Puglia (3), Abruzzo (2), Basilicata, Calabria, Sardegna e Umbria (1). Al momento risultano spenti o sotto controllo 13 roghi mentre su altri 17 stanno lavorando undici Canadair, otto fire-boss, tre elicotteri S64, un Ab412 e un CH47.
 Un vasto incendio che si è sviluppato a Castelluzzo, frazione di San Vito Lo Capo (Tp), bruciando alberi e macchia mediterranea, ha anche circondato alcuni tratti della strada che porta alla località turistica impedendo per ora i collegamenti. Alcuni automobilisti impauriti hanno lasciato l'auto e si sono allontanati a piedi per paura di finire avvolti dalle fiamme.
 Un incendio è divampato nella riserva naturale dello Zingaro nel Trapanese. E' in corso l'evacuazione del villaggio turistico Calampiso. Alle operazioni antincendio partecipano forestali, vigili del fuoco, polizia, carabinieri. Sono in azione anche mezzi aerei.

Fuochi di mafia in Lombardia. - Silvia Truzzi


La civile Lombardia (quanto poi sarà “civile” una Regione al cui governo siedono 14 indagati per una gamma variopinta di reati, dalla corruzione, alla truffa al favoreggiamento della prostituzione?) brucia: dal 2010 sono stati 300 i roghi di automobili, cantieri edili, macchinari. Lo spiega la relazione della Commissione antimafia del Comune di Milano voluta dal sindaco Pisapia. Uno dirà: avranno fatto il conto delle denunce. Invece no, il monitoraggio è frutto del lavoro dei Carabinieri dell’hinterland milanese. Nessuno tra le vittime ha fatto denuncia, perché nessuno ha ricevuto “pressioni, ricatti, minacce”. Niente estorsione, niente denuncia. Tanto che – riporta un articolo del fattoquotidiano.it  – un inquirente così si sfoga: “Sembra di indagare contro le vittime”.
La mafia, anzi la ‘ndrangheta, quassù non spara: lo si sente dire spesso, quasi fosse un vanto. In realtà spara poco perché non ce n’è bisogno. Ma se in due anni 150 cantieri vengono sequestrati per infiltrazioni mafiose nelle imprese e se nel 2009 vengono emesse 110 condanne in capo ad affiliati della ‘ndrangheta dal tribunale di Milano, è la matematica a dirci che non è il caso di girarsi dall’altra parte. Di pensare, non senza uno strisciante razzismo, che non è cosa nostra. Invece è proprio un affare nostro perché in ognuno di quei roghi c’è la fiammella di un sentimento che paralizza la vita. E si chiama paura.
I fuochi non ardono solo in Lombardia. In luglio è toccato ai terreni di Liberaa Isola Capo Rizzuto in Calabria: due incendi hanno distrutto una parte del raccolto ottenuto dalle terre confiscate al clan Arena. In quegli stessi giorni, a molti chilometri di distanza nella sonnecchiosa Mantova, è esplosa una bomba. Alle due di notte il quartiere Dosso del Corso è stato svegliato da un boato, il suono di un ordigno piazzato davanti all’abitazione di un magistrato. Il dottor Giulio Tamburini, che indaga su reati ambientali (processo Montedison) e sulla criminalità organizzata, ha detto ai cronisti: “Non parlo, cercate di capirmi. Questa volta prima della mia professione c’è di mezzo la mia famiglia”. Come si fa a non capirlo? In casa dormivano con lui la moglie e i figli, i vetri rotti hanno invaso le stanze.
La minaccia vuole sempre piegare la coscienza, la dignità del lavoro, delle idee, dei valori, vuole sempre insinuarsi in una decisione: aprire o no un’inchiesta, scrivere o no un nome sul giornale, pagare o no il pizzo. I metodi sono quelli, dai terroristi alla malavita: proiettili nelle buste anonime, telefonate mute nella notte, fiamme alle auto o ai negozi. Non ci sono estintori che possano spegnere l’inquietudine profonda generata da questi “avvisi”: il pericolo è un odore preciso che gli tutti gli animali riconoscono; né basta il disprezzo della ragione per la viltà del gesto. Perché nessun uomo è un’isola e tutti, oltre a se stessi, hanno qualcuno da proteggere. Però si può cercare di essere meno soli: oggi sono molte le associazioni di volontari che lottano contro le mafie, insegnando a dire no. Quali armi contro la paura? La condivisione, la denuncia pubblica, l’isolamento di una cultura criminale che non conosce onore anche se ne fa una biglietto da visita. E quella frase famosa di Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Senza più ceneri sulla strada.
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Scotta il telefono. - Antonio Padellaro


Guido Bertolaso non è certo un amico del “Fatto”, che lui ha ricoperto di cause civili con richieste di risarcimenti milionari. Ma, accettando di parlare con Malcom Pagani sulla sua triste istoria di ex potente (per lunghi anni come dominus della Protezione Civile, il più potente dopo Berlusconi) travolto dallo scandalo della cricca, ha voluto chiarire le circostanze di due telefonate avute con il presidente Napolitano nel marzo-aprile 2009, prima e dopo i giorni del terremoto dell’Aquila, finite agli atti dell’inchiesta di Firenze sul G8 alla Maddalena. Bertolaso chiede che quelle intercettazioni siano rese pubbliche, affinché dai dialoghi “con il primo cittadino italiano si capisca chi era davvero il mio referente nei momenti di difficoltà e di emergenza”. Una richiesta più che legittima da parte di un personaggio che, sentendosi ingiustamente dipinto “come lo scherano di Berlusconi e Letta”, vuole dimostrare che altri e più alti erano i suoi interlocutori istituzionali.
 
Ma di quelle telefonate molto si è parlato a proposito di altre, quelle tra Mancino e Napolitano, intercettate dalla Procura di Palermo nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Come mai, ci siamo chiesti pressoché isolati, Napolitano ha sollevato presso la Consulta il conflitto di attribuzioni contro i pm palermitani, ma non contro quelli di Firenze e Perugia (dove il processo passò per competenza e, diversamente da Palermo, le sue intercettazioni indirette furono trascritte e allegate agli atti)? Forse perché le conversazioni con Bertolaso non erano scottanti come quelle con Mancino? A maggior ragione, dopo le affermazioni dell’ex capo della Protezione civile, la questione delle telefonate presidenziali non può essere liquidata dai giuristi di corte come una sorta di sacrilegio contro un potere inviolabile. E in ogni caso, adesso, per il Quirinale sarà più difficile sfuggire alla domanda sul conflitto sollevato in un caso e non nell’altro. Se poi fosse lo stesso inquilino del Colle a rivelarci ciò che si dicevano lui e Bertolaso e che Bertolaso non vuole svelare, sarebbe ancora meglio.

Curiosity è sbarcata su Marte.


curiosity
Tutto secondo previsioni: la sonda Curiosity, il rover-laboratorio della Nasa realizzato nell’ambito della missione Mars science laboratory (Msl) ha toccato il suolo di Marte alle 7.31 italiane. Un viaggio iniziato il 26 novembre scorso dalla base Nasa di Cape Canaveral, in Florida. 570 milioni di chilometri dalla Terra per raggiungere il pianeta rosso.
In realtà, il contatto con il pianeta dove “vivono” i marziani è avvenuto alle 7.17, ma il segnale elettromagnetico inviato dal robot della Nasa impiega 14 minuti per percorrere i 100 milioni di chilometri che separano Marte dalla Terra.
Il robot più pesante (899 kg, compresi 80 kg di strumenti scientifici) e il più complesso mai inviato verso il pianeta rosso è giunto nel cratere Gale, da dove ha iniziato la sua missione di due anni. Obiettivo: stabilire se c’è stata vita su Marte nella sua prima giovinezza, vale a dire 4 miliardi di anni fa. Al momento dell’atterraggio, il tempo era bello sul luogo d’arrivo  e la missione (che costa oltre 2,5 miliardi di dollari), si è svolta secondo il programma.
Tutto a bordo ha funzionato perfettamente. La sequenza finale è iniziata 10 minuti prima dell’atterraggio col distacco dalla sonda del ‘cruise stage’, lo stadio con gli apparati necessari al lungo viaggio Terra-Marte.
Su Curiosity anche un microchip con il Codice del volo degli uccelli, del 1505 di Leonardo da Vinci, custodito alla Biblioteca Reale di Torino, e di cui Charles Eliachi , direttore del Jet Propulsion Laboratory di Nasa che ha realizzato il Curiosity, si è letteralmente innamorato durante una visita alla biblioteca stessa.


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