lunedì 10 settembre 2012

L’Anm a Ingroia: “Basta politica”. La replica: “Rivendico la mia analisi”.


pm palermo raccolta firme interna

Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati durissimo con il procuratore aggiunto di Palermo: "Chi fa indagini delicate non deve offuscare l'immagine di imparzialità". E sul dissenso nei confronti del Capo dello Stato "lui e Di Matteo avrebbero dovuto dissociarsi e allontanarsi". Il pm: "Era una valutazione storica e sociologica".


L’accusa di fare politica, a questo giro, arriva non da un peana del Pdl, ma dal sindacato dei magistrati, l’Associazione Nazionale Magistrati. E’ il massimo esponente dell’Anm, il presidente Rodolfo Sabelli, a lanciarsi contro il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e al suo collega Nino Di Matteo, entrambi componenti del pool che ha indagato sulla presunta trattativa Stato-mafia, presenti ieri alla giornata finale della festa del Fatto Quotidiano. Colpevole, il primo, di aver invitato i cittadini a cambiare la classe dirigente. Colpevole, il secondo, di aver lamentato l’assenza dell’Anm quando i magistrati palermitani venivano attaccati da più fronti. Colpevoli, entrambi, infine, di non essersi dissociati dalle critiche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A Sabelli ha già risposto Ingroia, rivendicando la propria analisi sull’atteggiamento della politica nei confronti della lotta alla criminalità organizzata e precisando che lui e Di Matteo, sui giudizi negativi nei confronti dell’inquilino del Quirinale non hanno mostrato la minima approvazione e che ognuno si prende la responsabilità di quello che dice. Peraltro resta che l’appunto mosso da Sabelli a Ingroia e a Di Matteo non coinvolge il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, che pure era presente e pure aveva partecipato allo stesso dibattito.
Sabelli: “Non offuscare l’immagine di imparzialità”. Il presidente dell’Anm ne fa un problema di immagine, insomma: “Tutti i magistrati, e soprattutto quelli che svolgono indagini delicatissime devono astenersi da comportamenti che possono offuscare la loro immagine di imparzialità, cioè da comportamenti politici”. E con il suo invito a cambiare la classe dirigente del Paese, invece, “Ingroia si è spinto a fare un’affermazione che ha oggettivamente un contenuto politico”; con il rischio così di “appannare” la sua immagine di “imparzialità”. 
Poi la mancata reazione alle critiche al Colle, cioè alla “manifestazione plateale di dissenso nei confronti del capo dello Stato”: “In una situazione così – dichiara Sabelli – un magistrato deve dissociarsi e allontanarsi”, aggiunge Sabelli, che invita tutti i magistrati “a evitare sovraesposizioni” e a “non mostrarsi sensibili al consenso della piazza”. 
Sabelli rifiuta poi la ricostruzione fatta da Di Matteo secondo il quale era stato “assordante” il silenzio dell’Anm e del Csm sugli attacchi ricevuti dai magistrati che conducono l’indagine. ”Non ho difficoltà – prosegue Sabelli – a ribadire la difesa e a manifestare il sostegno ai pm di Palermo. Ma questa non è una novità: l’Anm tutta , la giunta e io ripetutamente abbiamo manifestato solidarietà; non capisco come si possa parlare di mancato sostegno”. 
Ingroia: “Rivendico la mia analisi”. Ma Antonio Ingroia insiste ancora oggi nella sua tesi e corregge Sabelli. “Rivendico la mia analisi storica e sociologica del fenomeno mafioso: il collega Sabelli non conosce il contenuto della mia intervista e si è fidato di una frase estrapolata”. ”Io ho fatto – continua Ingroia – un intervento, sul rapporto tra potere mafioso e politica e ho parlato di un certo modo di essere della classe dirigente che, invece di attuare una politica di annullamento, ha attuato una politica di contenimento della mafia e ho detto che per recidere i legami tra Cosa nostra e certa classe politica occorre rinnovare la classe politica. La mia era una valutazione storica e sociologica che rivendico”. 
Così il procuratore aggiunto siciliano precisa che “il discorso riguardante il cambiamento della classe dirigente va inquadrato in un contesto piu’ ampio, in cui parlavo della necessita’ di recidere i legami dello Stato italiano con la mafia dall’Unità ad oggi. In questo senso ho detto che va cambiata la classe dirigente”. 
Quanto alla mancata presa di distanza dalle critiche del Presidente della Repubblica Ingroia ha detto: “In un dibattito ognuno si assume la responsabilità personale delle proprie opinioni. Se si partecipa a un dibattito a più voci ciascuno dice quello che pensa e ne risponde. Nella cronaca cui si riferisce Sabelli è scritto che io e il collega Di Matteo siamo rimasti impassibili, non approvandole in alcun modo”. “Nè io nè i colleghi abbiamo espresso ieri critiche nei confronti del Capo dello Stato – ribadisce – Secondo me sono polemiche fuori luogo. Come in ogni dibattimento ciascuno è responsabile delle proprie opinioni, ma noi siamo rimasti impassibili”.
Il pm aveva detto: “Dovete cambiare la classe dirigente”. Sulla stagione delle stragi mafiose “non è ancora emersa tutta la verità”, aveva detto il magistrato palermitano, ma “a queste condizioni questo è il massimo risultato possibile”. E secondo il pm “queste condizioni” difficilmente potranno cambiare “con questo parlamento che ha approvato leggi ad personam e che è responsabile del disastro legislativo in cui ci siamo trovati”. Da qui un invito – applauditissimo – ai lettori del Fatto Quotidiano, che affollavano (solo posti in piedi) la platea a Marina di Pietrasanta: “Dovete cambiare la classe dirigente e questo ceto politico. Si deve voltare pagina”.
Ingroia incassa anche la difesa da parte della presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli. ”Non crediamo affatto – spiega in una nota – che il pm Antonio Ingroia abbia ‘bestemmiato’ chiedendo ai cittadini di cambiare questa classe politica che non ha versato una sola lacrima sincera per bambini e ragazzi ammazzati al posto di uomini politici”. 
Secondo la presidente “l’Anm avrà le sue buone ragioni” a rimproverare il pm Ingroia, “ma noi abbiamo le nostre” a volere “la verità ad ogni costo, anche cambiando questa classe politica che vuole gettare la verità sulle stragi del 1993 alle ortiche, perché troppo compromettente per tutti”. “Possibile che ogni giorno ci sia un buon motivo per farci pensare che la verità sulle stragi del 1993 non la voglia nessuno?”, si chiede Maggiani Chelli che si dice convinta che “la strage del 27 maggio 1993 è molto più di un ragionevole dubbio sia stata il prezzo pagato dai nostri figli affinchè uomini politici minacciati dalla mafia non morissero”.
Gasparri: “Perché Sabelli si sveglia solo ora?”. Nella polemica si infila anche il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri: “E’ davvero stupefacente e commovente la rapidità con cui il presidente dell’Anm Sabelli ha censurato le esternazioni politiche di Ingroia. Sabelli ne ha contestato l’impropria esortazione a cambiar classe dirigente. Probabilmente nei mesi e negli anni precedenti il dottor Sabelli è stato lontano dal nostro Paese o ha ignorato i comportamenti e le affermazioni di Ingroia, che da tempo si è rivelato militante politico di parte provvisoriamente impegnato in una doppia attività di magistrato e di ideologo”. 
Così, con Gasparri apripista, il dibattito interno alla magistratura diventa tutto politico. “Gasparri ha perso un’occasione per tacere – ribatte Donatella Ferranti (Pd) – La presa di posizione dell’Anm sulla partecipazione di Ingroia e di Matteo alla festa del Fatto Quotidiano non può essere oggetto dell’ennesima rozza strumentalizzazione sulla giustizia che il capogruppo del Pdl continua incessantemente a portare avanti minando la credibilità delle istituzioni e ostacolando ogni qualsiasi forma di confronto politico su temi fondamentali, a partire dal ddl anticorruzione”. 

'Caro direttore...', quando la politica bypassa e scrive ai giornali.



Roma - (Adnkronos) - Ultimi casi le lettere al 'Corsera' di Severino e Gelmini.Morcellini all'Adnkronos: ''Fenomeno in crescita, segna fallimento intermediazione giornalistica''. Appello di Padellaro: ''Non pubblicatele più''. Siddi: ''Patologia se supinamente accettate''. De Bortoli: ''Politici hanno paura delle domande scomode''. Sallusti: ''Non hanno più nulla da dire''. Pionati: ''Lettere comode perché non ci sono domande''.

Roma, 10 set. (Adnkronos) - "Caro direttore", ovvero quando governo e politica si rivolgono direttamente ai media senza passare dalle redazioni. Un ''fenomeno in crescita'', ultimi casi le lettere di questi giorni al 'Corsera' del ministro della Giustizia Paola Severino e dell'ex ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, prima ancora ad esempio la missiva di Silvio Berlusconi al Foglio il 16 settembre dello scorso anno o le lettere del premier Mario Monti al Corriere (30 marzo scorso) e a Repubblica (11 giugno). Un fenomeno, dice all'Adnkronos il massmediologo MARIO MORCELLINI, preside della facoltà di Scienze della comunicazione alla Sapienza di Roma, ''che probabilmente dilagherà nei prossimi anni, e che segna il fallimento dell'intermediazione giornalistica, ormai sorpassata dai nuovi media e dalla generale sfiducia in ogni tipo di istituzione".
"E' una tendenza notevole in atto, quella dei politici che si rivolgono direttamente ai giornali con lettere al direttore -dice Morcellini in una conversazione con l'Adnkronos-. E, brutalmente, devo dire che hanno ragione: gli elementi di insoddisfazione per la rappresentazione giornalistica sono crescenti. Credo sia giunto il momento per i giornalisti di prendere, a turno, un anno sabbatico e immergersi nella realtà".
In sintesi, l'insoddisfazione segnalata da Morcellini è imputabile a due differenti "macrosettori" le cui sinergie stanno assestando un colpo forse letale agli informatori di professione: "anzitutto -elenca Morcellini- l'aumento dei saperi distribuiti socialmente rende più semplice comunicare; in breve, l'uso del web. Mentre prima di questo i giornalisti erano praticamente gli unici a portare informazioni a una vasta generalità di persone". Questo cambiamento, sospetta Morcellini, "non è ancora stato registrato profondamente dalla categoria".
Secondo macrosettore, forse quello più umiliante per la categoria: "in troppi casi, si pensi soprattutto alla comunicazione di notizie sulla salute e ancora di più a quella politica, il giornalismo italiano ha perso troppe occasioni: ha sbagliato spesso e non ha mai fatto autocritica". I due elementi stanno quindi "facendo crescere in fretta un fenomeno, che gli stessi politici hanno ben compreso: il fai da te dell'informazione", sia in ingresso sia - e questa è la novità - in uscita.
Si profila un "futuro fosco per la categoria - prevede Morcellini - se non c'è un ripensamento radicale non se ne esce. Il giornalismo italiano non ha fatto i conti con l'incattivimento palese del pubblico e con la perdita di credibilità di tutte le istituzioni, stampa compresa".
Morcellini mette però in guardia dalla controindicazione: "il rischio vero è che prevalga l'individualismo comunicativo, e la conseguente riduzione della capacità di relazionarsi socialmente e quindi anche politicamente: per qualche tempo può essere salutare, alla lunga è un danno serio".
Soluzioni? "Credo anzitutto che sia il caso per la categoria di considerare l'utilizzo dell'anno sabbatico e vedere la realtà senza la rete di sicurezza del mestiere; poi, di ridurre drasticamente la cronaca nera. Infine - conclude - quando si commette un errore occorre rettificarlo con la stessa identica visibilità dello 'strillo' con cui è stato pubblicato: il giornalista deve rinunciare all'arroganza dell'ultima parola".
Il direttore del 'Corriere della Sera', FERRUCCIO DE BORTOLI, dichiara all'Adnkronos: "Quello delle lettere al direttore da parte dei politici è un fenomeno sicuramente in crescita, e secondo me è una scorciatoia che certe volte i politici amano per sorpassare le professionalità dei giornalisti. In realtà segnala la paura di alcuni di loro nel confrontarsi con domande serie e scomode''.
A proposito del dilagare del fenomeno, il direttore de 'Il Fatto Quotidiano', ANTONIO PADELLARO, osserva: ''Queste lettere sono lunghe, noiose e non si capiscono. Secondo me chi le scrive provoca un danno a se stesso. Trovo che sia spazio rubato alle notizie vere e sarebbe bello fare un accordo tra tutti i giornali e decidere di non pubblicarle più".
"Continuare a pubblicare lettere del genere - aggiunge Padellaro - non interessa a nessuno perché non le legge nessuno, non ho il minimo dubbio, le leggono soltanto gli addetti degli addetti ai lavori...". Il direttore del 'Fatto Quotidiano' fa l'esempio della lettera inviata dal premier portoghese ai cittadini "con la quale li informa che bisogna tagliare del 7% gli stipendi pubblici. Ovviamente è stato subissato di insulti, ma almeno ha scritto una lettera con la quale comunica una notizia. Noi invece leggiamo certe lettere che parlano di bipolarismo, tripolarismo, roba che non interessa a nessuno", conclude.
Secondo il direttore de 'Il Giornale', ALESSANDRO SALLUSTI, il dilagare delle lettere al direttore da parte dei politici "è un fallimento dell'intermediazione giornalistica, e la colpa va divisa equamente tra i politici italiani che non hanno più nulla da dire, e i giornalisti che spesso non sono in grado di far dire loro qualcosa di interessante".
"Ormai - spiega Sallusti - l'intervista, come strumento giornalistico, è depotenziata perché i politici sfuggono alle domande vere e i giornalisti non riescono a tirare fuori una notizia vera e si vergognano di fare interviste insignificanti. Non le vogliono fare. Del resto - aggiunge - mentre in televisione l'intervista senza risposta è efficace, perché mostra fisicamente l'imbarazzo del politico che si rifiuta di rispondere, sulla carta non ha senso".
Sallusti rivela che capitano spesso "dei politici che ci chiedono di essere intervistati, ma per le solite banalità ininfluenti sia per il prestigio del giornale che per il lettore. Le lettere diventano così una scorciatoria, e spesso vengono pubblicate dai direttori solo per rispetto nei confronti della figura istituzionale che le scrive. Ma tecnicamente, giornalisticamente - conclude il direttore de 'Il Giornale' - non fanno notizia".
FRANCO SIDDI, segretario della Federazione Nazionale Stampa Italiana, osserva: "La politica che scrive al direttore di un giornale non è una anomalia in sé se lo fa in circostanze di rilevanza. E' invece un fenomeno che rischia di diventare patologia se le lettere vengono accettate e pubblicate supinamente sotto un malinteso fenomeno di diritto di replica, e se si tratta, come spesso succede, di situazioni di promozione individuale o di scorciatoie".
"Il giornalismo moderno - prosegue Siddi - dovrà sicuramente fare degli aggiustamenti, essere più severo, non dare rilievo al chiacchiericco, ma non va in crisi con le lettere al direttore se i giornali sapranno mantenere la riserva critica e la capacità di informazione dei cittadini. Il surrogato della lettera al direttore - conclude il segretario della Fnsi - rimane sempre un surrogato, anche per il lettore".
"L'analisi di Morcellini è praticamente perfetta, i giornalisti devono rinnovarsi per forza di cose", sottolinea ANDREA SARUBBI, deputato del Pd e fondatore dell'hastag su Twitter #opencamera, una sorta di 'velina' parlamentare del terzo millennio da lui lanciata nel luglio del 2011 e oggi utilizzata da praticamente tutti i suoi colleghi in Parlamento per comunicare e far sapere che succede nel cosiddetto palazzo. Sarubbi, classe 1971, sottolinea come "il giornalismo di oggi abbia perso molto della voglia di far capire le cose alle persone, oggi preferisce seguire le mode, i personaggi che danno 'audience'".
Insomma nel mondo dell'informazione classica "c'è un deficit sia di informazioni sia di analisi. Si seguono filoni preconfezionati, e questo accade già da qualche anno". Nel frattempo l'Italia è cambiata rapidamente, anche grazie ai nuovi media, e "nel momento in cui si aprono molti canali di comunicazione, alla portata di tutti, il giornalista ha un solo dovere: dimostrare di essere il migliore nell'informazione. Quindi basta con le interviste 'sdraiate', a noi lettori servono le interviste con il coltello tra i denti".
Quanto alle lettere al direttore, "quelle sono riservate ai big, noi 'piccoli' abbiamo il web, che però ha regole molto diverse, il giro dei social network è un'altra cosa rispetto al tradizionale. Ma funziona benissimo...".
Per FRANCESCO PIONATI, segretario di Alleanza di Centro e in passato volto noto del giornalismo televisivo come notista politico del Tg1, il fenomeno ''non deve stupire. Non è il segno di una perdita di importanza dell'intermediazione giornalistica, è soltanto una questione di opportunità''.
''Con le lettere al direttore -rileva Pionati- il politico diffonde il proprio messaggio su un determinato argomento senza intermediazioni. E poi -osserva- per il politico sono comode, dal momento che non ci sono domande''.
MARIO ADINOLFI, deputato-blogger del Pd, commenta così con l'Adnkronos la nuova consuetudine: ''Accade che i giornalisti non abituati al mondo della rete, cioè al salto dell'intermediazione, stanno deprimendo il loro ruolo. Molti colleghi stanno subendo questa ondata del web senza capire che si tratta di una grande opportunità, con potenzialità enormi per un commento critico. Del resto siamo nel ventunesimo secolo, le cose cambiano...''.
''Sta a noi giornalisti salvare il mestiere e non farlo morire, sfruttando le potenzialità della rete - avverte Adinolfi -. Non pubblicherei nuda la lettera inviata al giornale, ma, come si faceva una volta per le smentite, la darei alle stampe con un articolo di accompagno che dà al cittadino, fruitore del giornale, e al giornalista un motivo per leggere ogni argomento in maniera più critica e conscia. Accompagnerei le lettere ai giornali e i tweet con un articolo che offre una lettura più approfondita''.
Adinolfi dice di essere ''rimasto molto colpito dal fatto che l'uso di twitter e facebook abbia saltato del tutto il meccanismo delle agenzie di stampa. Ormai twitter è diventato una sorta di agenzia monodirezionale, così il deputato non ha più bisogno dell'ufficio stampa, né delle agenzie che riprendono le sue parole. Ci troviamo di fronte ad una autorappresentazione della comunicazione, che rende la lettera uno strumento fondamentale. Oggi -avverte- si fa davvero un abuso di queste lettere: lo ripeto, basterebbe accompagnarle ad un articolo di spiega e approfondimento''.
Per MICHELE SORICE, docente di comunicazione politica alla Luiss, la crescita esponenziale di 'lettere al direttore' "è sicuramente un modo di evitare il confronto e le domande scomode, per paura dei rischi che può creare un dibattito aperto e franco, ma non è la morte dei giornali, anzi è proprio il riconoscimento del ruolo e dell'importanza che le grandi testate hanno ancora oggi".
"Con le loro lettere - sostiene Sorice - i politici testimoniano proprio il fatto che i giornali restano ancora, in epoca di blog, tweet e social forum, il luogo privilegiato deputato alla costruzione della sfera pubblica. E nonostante i quotidiani siano letti da una minoranza della popolazione, restano la legittima cornice per parlare ai lettori, potenziali elettori", aggiunge.
"Certo - ammette - la lettera al direttore non ha nulla a che vedere con ciò che insegniamo nei nostri corsi ai futuri cronisti ovvero il giornalista come 'cane da guardia dell'informazione' o 'strumento di garanzia e controllo della politica", ironizza. "Si tratta sicuramente di un uso strumentale dei giornali, sfruttati come cassa di risonanza - conclude Sorice - ma è altrettanto vero che il media-giornale non perde la sua centralità agli occhi del politico che continua a sceglierlo come vetrina privilegiata".
GIANCARLO MAZZUCA, deputato Pdl già direttore de 'Il Resto del Carlino', afferma: "Ho riscontrato anch'io che molti politici tendono ultimamente a preferire la lettera all'intervista. La spiegazione potrebbe consistere nel fatto che un contributo del genere riduce il rischio delle domande, consente di andare al punto che preme a chi la scrive, presta meno il fianco a titoli non in linea con ciò che si vuol far passare come messaggio".
"Personalmente, ritengo preferibile l'intervista - prosegue - perché lo stile e il criterio giornalistico rendono la comunicazione più leggibile, al contrario dell'approccio freddo e un po' burocratico di una missiva che non espone al contraddittorio. Certo, c'è sempre il rischio della domanda scomoda, ma per un politico - conclude - credo che l'intervista sia lo strumento più giusto. Specie se rilasciata ad un giornalista capace e stimolante".

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