lunedì 8 ottobre 2012

Antonio Paladino, un candidato per due in Sicilia

paladino

L'uomo che alle regionali siciliane cambia partito e presidente (da Micciché a Crocetta) sullo stesso suo manifesto.

Le imminenti elezioni regionali in Sicilia sono piene di sorprese. Il lavoro - nemmeno così oscuro - di Lombardo. L'esclusione di Fava. La "marmellata politica" che appoggia Crocetta. Ma ancora non avevamo visto il candidato "double face", che salta da una casacca all'altra in corso d'opera. E'Antonio Paladino e i suoi manifesti stanno invadendo la Rete. 
Il faccione di Paladino, che a molti ricorda un Fiorito senza barba, appariva in un manifesto con il simbolo di Grande Sud e l'apparentamento al candidato presidente Gaetano Micciché. Ma nel giro di una notte, come sottolinea Alfio Sciacca del Corsera, Paladino ha cambiato "ragione sociale" ed eccolo con lo stesso manifesto, ma con il simbolo dell'Udc e l'apparentamento al candidato presidente Rosario Crocetta. Roba che nemmeno (a proposito di Sicilia) il grande Pirandello.
Lo slogan è rimasto lo stesso ("Sosteniamo lo sviluppo ed il lavoro"), nonché l'espressione. E' semplicemente scomparso il "Dott." che precedeva il suo nome e cognome. Paladino è un dottore commercialista di Catania. Pudore, forse, in un paese che dà del dottore soprattutto a chi non lo è. O un semplice refuso.  
E' sempre Alfio Sciacca a scrivere la morale di questa storia: "Le elezioni in Sicilia sono ormai un festival di alleanze che si scompongono e ricompongono rapidamente. E allora può succedere che un candidato cambi casacca dalla sera alla mattina ma restando sui manifesti elettorali con due magliette diverse".
Spostandoci da Palermo a Roma, nella capitale si direbbe: ndo cojo, cojo. Attendiamo supercazzole d'ordinanza sul cambio di casacca del dottor Paladino. 

http://elezioni.myblog.it/archive/2012/10/08/antonio-paladino-candidato-sicilia-regionali-manifesti.html?fb_action_ids=414655561935430%2C414655305268789&fb_action_types=og.likes&fb_source=other_multiline&action_object_map=%7B%22414655561935430%22%3A398372666901560%2C%22414655305268789%22%3A120036388148606%7D&action_type_map=%7B%22414655561935430%22%3A%22og.likes%22%2C%22414655305268789%22%3A%22og.likes%22%7D&action_ref_map=%5B%5D

Niente Imu per la Chiesa ma Grilli non ci sta.

Imu per la Chiesa cattolica, strada complicata

Il Consiglio di Stato ha bocciato il decreto del Tesoro per l'applicazione dell'Imu agli enti non commerciali, compresi quelli di proprieta della Chiesa. Il ministro dell'economia Grilli: l'obiettivo del governo resta quello di assoggettare tutti all'Imu.

Il Consiglio di Stato ha bocciato il decreto del ministero dell'Economia e Finanze per
l'applicazione dell'Imu sugli enti non commerciali, e quindi anche sulla Chiesa. Due le strade percorribili, a questo punto, per rimediare: emanare subito una norma ad hoc che modifichi l'articolo 91-bis del Dl 1/2012 e affidi al ministero dell'Economia la disciplina dell'intera materia attraverso un suo decreto; oppure inserire l'intero regolamento in un disegno di legge. Ma in questo caso i tempi tecnici sarebbero più lunghi.


"Non è demandato al Ministero - scrivono i giudici di Palazzo Spada - di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell'esenzione Imu per gli immobili degli enti non commerciali. Sulla base di tali considerazioni deve essere rilevato che parte dello schema in esame è diretto a definire i requisiti, generali e di settore, per qualificare le diverse attivita' come svolte con modalita' non commerciali. Tale aspetto esula dalla definizione degli elementi rilevanti ai fini dell'individuazione del rapporto proporzionale in caso di utilizzazione dell'immobile mista "c.d. indistinta" e mira a delimitare, o comunque a dare una interpretazione, in ordine al carattere non commerciale di determinate attività".
 
Per il Consiglio di Stato "l'amministrazione ha compiuto alcune scelte applicative, che
non solo esulano dall'oggetto del potere regolamentare attribuito, ma che sono state effettuate in assenza di criteri o altre indicazione normative atte a specificare la natura non commerciale di una attivita'. Basti fare riferimento - si legge nel provvedimento - al criterio dell'accreditamento o convenzionamento con lo Stato per le attività assistenziali e sanitarie o ai diversi criteri stabiliti per la compatibilità del versamento di rette con la natura non commerciale dell'attività. In alcuni casi - spiegano i giudici - è utilizzato il criterio della gratuita' o del carattere simbolico della retta (attivita' culturali, ricreative e sportive); in altri il criterio dell'importo non superiore alla metà di quello medio previsto per le stesse attivita' svolte nello stesso ambito territoriale con modalita' commerciali (attivita' ricettiva e in parte assistenziali e sanitarie); in altri ancora il criterio della non copertura integrale del costo effettivo del servizio (attivita' didattiche)".

Per i giudici di Palazzo Spada "la diversità e eterogeneita' di ciascuno dei criteri rispetto alla questione dell'utilizzo misto conferma che si e' in presenza di profili, che esulano dal potere regolamentare in concreto attribuito. Tali profili potranno essere oggetto di un diverso tipo di intervento normativo o essere lasciati all'attuazione in sede amministrativa sulla base dei principi generali dell'ordinamento interno e di quello dell'Unione europea in tema di attivita' non commerciali".

Grilli: l'obiettivo a far pagere l'Imu a tutti.
L'obiettivo del governo resta quello di "assoggettare tutti i soggetti" all'Imu. Lo ha detto il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, commentando a Lussemburgo la bocciatura del Consiglio di Stato.

Confindustria, ecco i conti segreti. - Gaia Scacciavillani


I CONTI SEGRETI DI CONFINDUSTRIA

Ilfattoquotidiano.it è entrato in possesso del bilancio che il sindacato padronale tradizionalmente non pubblica. E ha scoperto che mancano all'appello l'8% delle quote associative, con un tasso di morosità dei soci cresciuto in un anno del 57%. Mentre le perdite di tre controllate su sei erodono il patrimonio.

Confindustria predica bene, ma razzola maluccio. Gli scarni dati sulla confederazione trapelati a fatica sulla stampa e il riservatissimo bilancio dell’associazione alla guida del mostro a 262 teste che costituisce l’intera struttura, che ilFattoquotidiano.it ha potuto visionare, parlano chiaro. E contraddicono in molti punti battaglie e affermazioni di ieri e di oggi della lobby degli imprenditori italiani. Che non a caso nell’ultimo anno ha perso parecchi pezzi, non solo la Fiat: il Lingotto voleva avere mano libera sui contratti dei metalmeccanici, ma ha parlato anche di eccessiva politicizzazione dell’associazione. Ci sono state anche le uscite delle Cartiere Paolo Pigna, dei Tessili di Prato, della Giordano Riello e di Nero Giardini, per citare solo alcuni esempi.
PIU’ TASSE E MENO AIUTI. “Stiamo morendo di tasse”, è stato il grido disperato lanciato sabato 29 settembre dal presidente Giorgio Squinzi che pochi giorni dopo è tornato alla carica sulla questione del carico fiscale sul lavoro. “L’obiettivo di ridurre il costo del lavoro è una delle cose in cui dobbiamo intervenire, anche per dare un segnale. E, visto anche il modesto ammontare degli incentivi, per le imprese non è un problema rinunciarci”, ha detto Mr Vinavil da Bruxelles il 2 ottobre.
Chissà se negli incentivi è implicitamente inclusa anche la quarantina di milioni annui che secondo L’Espresso arrivano complessivamente alla confederazione dalle aziende di Stato associate, che come tutti i soci (secondo i dati ufficiali 149.288 per un totale di 5.516.975 occupati) versano ogni anno al sistema Confindustria una quota contributiva parametrata sul numero e il salario dei dipendenti per potere, come gli altri, “appoggiarsi ad un organismo che rappresenta gli interessi del sistema produttivo locale nei confronti di istituzioni, forze politiche e sociali, enti economici ed organi di informazione”, come recita la reclame di una delle associazioni territoriali.
Prima fra tutte Eni, che sulla designazione di Squinzi alla guida degli industriali, per ammissione dello stesso amministratore delegato del gruppo petrolifero, Paolo Scaroni, ha avuto un ruolo “decisivo”. Ma anche l’Enel, le Poste, le FerrovieFinmeccanica e Terna tutte aziende densamente occupate che in pratica sborsano ogni anno svariati milioni per farsi rappresentare dall’associazione presso il loro azionista nelle sue svariate forme. Obiezione, potrebbe dire qualcuno, c’è anche la presenza all’estero! Peccato che lo Stato possieda una vasta gamma di enti che sostengono le imprese italiane oltreconfine a spese del contribuente: dall’Ice all’Enit passando per le sedi delle missioni all’estero delle Regioni fino alla rete delle Camere di Commercio che sono cofinanziate dal ministero dello Sviluppo economico. Ma tant’è. E forse non è un caso che nel 2011 ben 3,2 milioni di euro, l’8,2% dei 39,341 milioni di euro di contributi associativi che dalla periferia sarebbero dovuti arrivare nelle casse di Viale dell’Astronomia, non sono giunti a destinazione. Un costume che si va affermando sempre più negli anni: anche nel 2010 la quota destinata all’associazione centrale, che viene sottratta dai circa 500 milioni che vengono raccolti annualmente a livello territoriale, è arrivata a destinazione incompleta. Mancavano 2,066 milioni: nell’arco di un anno, quindi, il tasso di crescita della morosità dei soci è stato del 57,34 per cento.
I PAGAMENTI PUNTUALI. “Noi tutti abbiamo difficoltà, e in modo particolare chi è a contatto diretto con la pubblica amministrazione conosce sulla propria pelle una situazione indegna di un Paese civile in cui i ritardi dei pagamenti, nell’ordine dei 90 miliardi, non permettono una vita normale, un’azione equilibrata alle imprese”, ha tuonato Squinzi il 2 luglio scorso facendo sua una vecchia battaglia (sacrosanta, benché persa) del suo predecessore, Emma Marcegaglia. E ha aggiunto che “una pubblica amministrazione più efficiente è una pubblica amministrazione che paga i suoi debiti in tempi ragionevoli”.
Benché il tema sia calzante, bisognerebbe capire meglio cosa si intenda con tempi ragionevoli in Viale dell’Astronomia, dal momento che nel bilancio 2011 l’associazione ha iscritto debiti verso i fornitori per 1 milione di euro, mentre l’anno prima sotto la stessa voce c’erano 1,2 milioni. Sarà per questo che gli appelli al governo restano praticamente inascoltati?
LO SPREAD. “La fase più acuta della crisi sembra alle spalle: l’Italia non è al centro dei problemi del debito e la credibilità migliora come dimostra il calo dello spread, ma ancora non basta perché il livello resta comunque alto e sul lungo periodo non è sostenibile”, disse la Marcegaglia il 7 marzo scorso intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università Luiss Guido Carli. “Lo scenario è migliorato, ma ci sono ancora delle criticità”, concludeva.
Criticità anche qui condivisibili, ma di sicuro il miglioramento non era imputabile alla Confindustria, che tra gennaio e febbraio si è affrettata a ridurre drasticamente la sua esposizione sui titoli di Stato vendendo in anticipo 10 dei 18 milioni di euro di Btp che possedeva, la metà dei quali sarebbero scaduti naturalmente nove mesi dopo. Evidentemente in Confindustria ritenevano più sicuri dei titoli di Stato i bond del Monte dei Paschi di Siena, cioè la banca che sta facendo man bassa di aiuti pubblici e che, vista la drammatica situazione dei conti, avrà presto il Tesoro tra i suoi azionisti: l’investimento nelle obbligazioni di Rocca Salimbeni in scadenza a fine 2013 è di 9,9 milioni. Minore, sembrerebbe, la fiducia della Confindustria in Banca Intesa sui bond della quale ha puntato “solo” 3 milioni. Del resto la maggior parte degli investimenti dell’associazione sono fuori dal cosiddetto sistema: più della metà del totale, 27 milioni di euro, sono infatti stati usati per stipulare una polizza assicurativa con Chiara Vita, compagnia del gruppo svizzero Helvetia.
IL COSTO DELLE LOBBY. Del resto anche le lobby nel loro piccolo costano, ma sono in affanno. Sul fronte delle spese il 2011 registra 1,2 milioni per finanziare 12 mesi di stage presso “le diverse sedi del Sistema di rappresentanza” dei 100 giovani selezionati dal Progetto 100 giovani per 100 anni. Soldi che hanno prosciugato la Riserva Attività Istituzionali. Un milione e ottocentomila euro, poi, se ne sono andati in viaggi e trasferte. E un altro milione è stato utilizzato in attività di rappresentanza e missioni estere. Costi per la normale gestione dell’associazione che ha assistito nel 2011 ad un notevole ridimensionamento delle disponibilità bancarie (-11 milioni) a quota 4,6 milioni. Ma il peso maggiore, direbbe Squinzi, è quello del lavoro: gli stipendi del personale costano all’associazione 12,128 milioni al netto di oneri previdenziali e accantonamenti per il tfr, somma che per le 164 persone che lavorano in viale dell’Astronomia fa uno salario medio di 5700 euro. Ma non basta, ci sono anche i consulenti e i collaboratori, che l’anno scorso tra la crisi e la fine del mandato della Marcegaglia, sono costati 2,166 milioni.
E intanto il patrimonio dell’associazione si erode. Complici le perdite di tre controllate al 100% su sei, infatti, tra il 2010 e il 2011 il patrimonio della Confindustria è diminuito di 807mila euro. Peggio sarebbe andata, però, se la quota di controllo del Sole 24 Ore fosse stata valutata ai valori di Borsa. Il gruppo editoriale che pubblica il primo giornale di economia del Paese e non vede utili da diverso tempo (8,4 milioni il rosso 2011, perdita che è già stata replicata nella sola metà del 2012), è iscritto nel bilancio al valore di 1,47 euro per azione per un totale di 132 milioni di euro. Peccato però che in Borsa il titolo langua intorno ai 60 centesimi che, se utilizzati come valore di riferimento, toglierebbero alla partecipazione quasi 78 milioni di euro con ripercussioni dirette sul patrimonio dell’editore. Ma questo succede solo se si applicano i principi contabili internazionali che usano le società quotate in Borsa. Tuttavia, spiega il documento, sulla base dell’impairment test, un’analisi che verifica se le attività siano iscritte o meno ad un valore superiore rispetto a quello reale sia in termini di uso dell’asset che di eventuale cessione, Confindustria ha ritenuto di non dover procedere alla svalutazione. Intanto al Sole 24 Ore è attivo da mesi un contratto di solidarietà per tagliare il costo del lavoro dei 1874 dipendenti – che in parte è così passato a carico degli enti previdenziali – e le prospettive per il futuro del gruppo, che tra gennaio e giugno si è bruciato 10 milioni di patrimonio, non sono tra le più rosee.
Ma così Confindustria è riuscita ad archiviare il bilancio dello scorso anno con un risultato positivo della gestione operativa e finanziaria da 2,2 milioni di euro, che è stato prontamente utilizzato per rimpinguare gli accantonamenti al Fondo Rischi che serve “per consentire il proseguimento della ristrutturazione organizzativa” e la Riserva attività istituzionali che era stata prosciugata dal progetto 100 giovani per 100 anni. E il cerchio si chiude. Almeno finché le aziende di Stato continueranno a sborsare le quote e non decideranno magari che far lobby presso se stessi non è poi di così vitale importanza.

Milano: arrestato funzionario comunale per corruzione.

Milano: arrestato funzionario comunale per corruzione

Avrebbe intascato 100 mila euro per aiutare una società.

MILANO - Patrizio Mercadante, funzionario dell'assessorato alla Famiglia del Comune di Milano e responsabile del comitato elettorale dell'ex assessore del Pdl Mariolina Moioli, è stato arrestato oggi su ordine del Gip Anna Vicedomini. Le accuse sono di corruzione e turbativa d'asta. Secondo le accuse, Mercadante avrebbe affidato ad una società la gestione di una serie di case vacanze, per un totale di 38 milioni di euro, nonostante la società non ne avesse i requisiti. In cambio, avrebbe incassato 100 mila euro per consulenze inesistenti.
L'arresto è stato motivato sia dal rischio di inquinamento delle prove, sia da quello di reiterare il reato


http://www.julienews.it/notizia/cronaca/milano-arrestato-funzionario-comunale-per-corruzione/280449_cronaca_3_1.html

Questi non percepiscono più la differenza tra lecito ed illecito.

Lombardia, Pd trasparente a metà. Spese online, ma non si sa chi spende e perché. - Thomas Mackinson


Un dettaglio delle spese del Pd lombardo


Dopo le polemiche per gli scandali nel Lazio e per la gestione opaca dei fondi consiliari, il Partito democratico in Lombardia (a differenza di Pdl e Lega) sceglie di rendere pubbliche le spese del proprio gruppo con una sezione apposita del sito. Ma il risultato ha l'effetto contrario: una lista indistinta di cifre, senza alcuna giustificazione né riferimento a chi le ha commissionate e per cosa.

Una fattura da 21mila euro senza beneficiario. Arredi per 4mila euro senza indicazione del destinatario. Assegni di rappresentanza da 500 euro senza causale. Ma è tutto regolare, giurano, perché “La trasparenza non è uno slogan”. Con queste parole il Pd lombardo ha annunciato di aver messo online il bilancio del proprio gruppo regionale con voci di dettaglio. Dopo tante polemiche, benvenuta trasparenza. Al rendiconto si accede cliccando un bottone sulla sinistra della home page. E bisogna dire che almeno i democratici hanno fatto un tentativo, a differenza di Pdl e Lega. Ma l’entusiasmo finisce presto, al termine della prima riga. Tanto basta per accorgersi che l’elenco delle spese caricato online è stato preventivamente “sbianchettato”. Possibile? Verificate voi stessi.
Cliccando sulla dicitura “dettaglio” compaiono due elenchi, uno per le spese di comunicazione e l’altro per il funzionamento dei gruppi. In entrambi sono riportati gli importi parziali e il totale delle spese, ma non prima di aver accuratamente omesso i nomi dei beneficiari degli acquisti, dei fornitori, le stesse causali sono state rese accuratamente generiche e criptiche. Il rendiconto si presenta come un lungo elenco che dice poco o nulla, anzi, pare fatto proprio per dire tutto senza dire niente. Impossibile, ad esempio, ricavare una qualche informazione utile da diciture come “Taxi, 70 euro”, “pranzi più taxi 442 euro” o “rimborso chilometrico 181 euro”. Per andare dove? Per mangiare in quanti? 
Le ragioni di tanto mistero le ha illustrate al Fatto Quotidiano il consigliere Stefano Tosi. Di fronte al rifiuto a mostrare le fatture – rifiuto che in Lombardia ha accomunato Pd, Lega e Pdl – il consigliere ha invocato ragioni di tutela della privacy degli eletti, il rischio di finire dileggiati nella mani di giornalisti in malafede e (perla tra le perle) il fatto che un prezzo fatto loro da un fornitore, se reso pubblico, potrebbe mettere quest’ultimo in seria difficoltà, qualcuno leggendo potrebbe anche scoprire di aver pagato quello stesso bene/servizio molto di più. Insomma, il prezzo politico è bene che resti segreto.
Per allontanare dubbi e sospetti dal Pd arriva così la promessa di un’operazione trasparenza che ha richiesto circa due settimane di tempo. Forse proprio per decidere cosa rendere trasparente e cosa no. Il risultato è un bilancio organizzato per “progetti” e voci aggregate, ma le omissioni sono tali da produrre l’effetto contrario a quello voluto. L’idea che qualcuno abbia selezionato quali informazioni rendere disponili e quali no alimenta i sospetti. La mezza trasparenza induce proprio a cercare l’omessa-omissione, a indugiare su brandelli di spese discutibili.
Esempi? C’è un corso di comunicazione per consiglieri da 6mila euro. Se non si sa chi ne ha beneficiato, chi lo ha tenuto e per quante lezioni, il cittadino non sarà mai messo in condizioni di dire se sia stato investimento formativo o spreco. C’è un bonifico per tre fatture da 26mila euro per “analisi e assistenza in campo economico”. Se a fare lezione è stato Paul Krugman nessun problema, altrimenti il dubbio che la lezione di economia non sia stata poi così economica può venire. Il cadeau da 940 euro per la festa della donna per 24 dipendenti, più pranzo da 615 euro più cento di mimose: è giusto che il bel pensiero del gruppo del Pd sia pagato con i soldi dei contribuenti? Il risultato finale è un’esibizione più di facciata che di sostanza. La trasparenza, per ora, è rimasta uno slogan.

Napolitano: “E’ ora di ricostruire L’Aquila, no alle new town”.


Napolitano: “E’ ora di ricostruire L’Aquila, no alle new town”

''Basta con l'idea di ricostruire l'Aquila all’esterno, adesso si è presa la strada giusta” ha affermato il presidente Napolitano al suo arrivo all’Aquila. Entro fine anno previsti nuovi finanziamenti. Una perizia ha rilevato a luglio che gli isolatori degli edifici costruiti con il Progetto casa della Protezione civile sono stati costruiti in modo diverso da quanto previsto dalla gara d'appalto.

“E’ l’ora di ricostruire L’Aquila dimenticando i progetti di una new town fuori dell’attuale centro”. Lo ha detto Giorgio Napolitano entrando nel nuovo auditorium del capoluogo abruzzese, progettato da Renzo Piano. Quanto alla ricostruzione, ha spiegato il Capo dello Stato, “ho ricevuto dal ministro Barca molti elementi concreti sui lavori in corso e sui finanziamenti decisi” sia privati che pubblici e “dovrebbero scattare nuovi contributi entro fine anno”.
“Mi pare ci siano prospettive serie, è tempo di pensare a ricostruire la città al di là di precedenti esperienze che puntavano piuttosto a costruire fuori. Oggi costruiamo dentro e mi pare la strada giusta”. 
La “new town” sorta nei pressi dell’Aquila per ospitare gli sfollati, secondo una perizia del tribunale, è stata costruita senza rispettare le norme antisismiche. A luglio scorso i consulenti tecnici d’ufficio nell’ambito dell’incidente probatorio disposto dal giudice Marco Billi sul Progetto Case, le abitazioni provvisorie assegnate dalla Protezione civile ai terremotati dell’Aquila, inaugurate in pompa magna dall’allora premier Silvio Berlusconi, avevano scritto che sono stati installati isolatori antisismici (i dispositivi che servono a isolare le parti portanti degli edifici dagli effetti dei terremoti, posti sotto le piastre di cemento armato) costruiti con “materiali diversi da quelli offerti in gara” e delle “criticità ai fini del funzionamento e della sicurezza”.
reati ipotizzati: turbativa d’asta frode nelle pubbliche forniture a sei persone, tra cui Mauro Dolce, responsabile del progetto Case. Le “case di Berlusconi” che si trovano a decine di chilometri dall’Aquila non hanno né bar né negozi né luoghi di ritrovo. Ma numerose mattonelle rotte, e tubature che perdono acqua

ECCO LA MAPPA D'ITALIA DEI BILANCI DISSESTATI, TUTTI I POLITICI CHE RISCHIANO. - Lorenzo Salvia



Sindaci e governatori incandidabili se si dimostra che sono colpevoli.

In ossequio al principio del federalismo, il rischio default scende con metodo per i rami dell'amministrazione. Dallo Stato passa a tutti i livelli della res publica. E così nella mappa del dissesto finanziario ci finiscono proprio tutti. Le Region

i, con le magnifiche otto che hanno i conti in rosso per la sanità, dalla Sicilia al Piemonte. Le Province che quest'estate, dopo gli ultimi tagli, sostenevano di non poter riaprire nemmeno le scuole. E i Comuni naturalmente, la prima linea di quell'esercito di amministratori che il governo vuole richiamare alle sue responsabilità. «Più della metà sono in grande difficoltà di bilancio» dice Graziano Delrio che da sindaco di Reggio Emilia, presidente dell'Associazione dei comuni e - perché no? - da padre di nove figli, i conti è abituato a farli per benino. Una cosa gli sfugge, però. Dice che Parma è in una situazione di «dissesto vero e proprio», provocando la replica piccata del sindaco di quella città, Federico Pizzarotti. E, chi l'avrebbe detto, ma è proprio il botta e risposta tra un renziano (Delrio) e un grillino (Pizzarotti) a offrirci lo spunto per capire cosa intendiamo quando parliamo di dissesto finanziario. E quindi di incandidabilità per i responsabili, come vuole il decreto approvato giovedì dal governo.

Le città a rischio
Sono molti i Comuni italiani dove i bilanci faticano a stare in piedi: quello di Napoli si regge grazie a 3 miliardi di residui attivi, in gran parte vecchie multe che non sono state incassate e forse non lo saranno mai. Quello di Palermo è stato sfondato dai debiti delle società controllate. A Reggio Calabria non si capisce nemmeno quanto sia grande il buco mentre problemi seri sono venuti fuori a Foggia e Ancona. Sono tutte città dove le uscite hanno superato le entrate per anni e i nodi stanno venendo al pettine. Ma, tecnicamente, non si può parlare di dissesto finanziario. Sono in difficoltà ma non ancora fallite. E invece il dissesto è proprio quello che per un'azienda si chiama fallimento. Il sindaco si rende conto di non poter più pagare i debiti, alza la mano e chiede aiuto allo Stato.

Chi paga?
Fino a qualche anno fa era proprio lo Stato a coprire direttamente il buco, una procedura che poteva rendere il dissesto addirittura conveniente. Roma paga e via da capo: uno scherzo che negli anni ci è costato un miliardo e mezzo di euro. Capito l'inconveniente le regole sono state cambiate: chi dichiara il dissesto deve rialzarsi con le proprie gambe e se lo Stato concede un aiuto sotto forma di mutuo agevolato i soldi li deve tirare fuori il Comune. O meglio i suoi cittadini pagando nuove tasse. Il giochino non funzionava più. «L'inevitabile innalzamento della pressione fiscale - scrive la Corte dei conti nell'ultima relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali - ha reso sindaci e presidenti di provincia meno propensi a dichiarare lo stato di dissesto, rendendo più difficile un duraturo risanamento». E infatti. Da quando esiste la legge sul dissesto, era il 1989, i Comuni che hanno imboccato questa strada sono stati 461, con Calabria e Campania che coprono da sole la metà della torta. Ma dopo il boom dell'esordio, 125 casi solo il primo anno quando a pagare era Roma ladrona, i numeri sono scesi, crollati anche a un solo dissesto l'anno. E sono tornati a crescere solo con la crisi: 4 nel 2009, 8 nel 2010, 10 nel 2011, per il 2012 il dato è ancora parziale ma siamo fermi a 6.

37 in dissesto
In questo momento sono 37 i Comuni ancora in dissesto. La procedura di rientro, con l'aumento delle tasse locali come compito da fare a casa, dura cinque anni. L'ultima arrivata nel club è Alessandria che quest'estate ha spento l'aria condizionata negli uffici e ritirato i cellulari a tutti i dipendenti. È il secondo capoluogo di Provincia dopo Caserta, zona dove il dissesto si sente nell'aria visto che ci sono due comuni, Casal Di Principe e Roccamonfina, che l'hanno dichiarato due volte. Cosa rischiano tutti questi sindaci?

Incandidabili?
Dice il decreto del governo che non si può ricandidare chi è stato giudicato responsabile per il dissesto finanziario dell'ente che amministrava. In realtà la norma già c'era da un anno, il governo ha aggiunto una «multa» che può arrivare fino a venti volte lo stipendio guadagnato all'epoca dei fatti. E il suo valore si limita al deterrente. Per far scattare l'incandidabilità è necessaria la condanna della Corte dei conti, anche solo in primo grado, per dolo o colpa grave. Finora non è mai successo. Certo, diversi sindaci sono stati condannati a rimborsare un danno causato alle casse pubbliche. Ma il fatto non è mai stato legato al dissesto finanziario come dice il decreto del governo. Un esempio? L'ex sindaco di Catania Umberto Scapagnini è stato condannato dal tribunale in primo grado a due anni e nove mesi per aver truccato i bilanci del suo Comune. Così aveva evitato di dichiarare il dissesto, aspettando che il debito venisse ripianato dal governo Berlusconi con un assegno di 140 milioni. Scapagnini è ricandidabile.