Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 1 ottobre 2014
Un’altra specie. - Eugenio Orso
Sappiamo per esperienza di vita vissuta che le differenze generazionali allontanano i giovani dai vecchi, le differenze di genere rendono le donne uniche rispetto agli uomini, le differenze culturali, a parità di età e di genere, dividono gli asiatici dagli europei. E’ questo un mosaico elementare le cui tessere – i giovani e i vecchi, gli uomini e le donne, i bianchi e i neri, gli asiatici e gli europei – compongono l’umanità. Anche se le generazioni successive sono diverse dalle precedenti, le donne sono diverse dagli uomini, gli asiatici sono diversi dagli europei, i neri dai bianchi, la specie è sempre la stessa, non cambia. Qualcuno può esaltare la razza, altri esprimono un razzismo più sottile, culturale e non biologico, o addirittura generazionale, altri possono sentirsi superiori a chi ha un’educazione modesta o un ruolo sociale meramente esecutivo, ma la specie è la stessa per tutti.
Da qualche tempo, nonostante le considerazioni fatte, ho l’impressione che una parte di coloro che vedo intorno a me, per strada, al lavoro, sui mezzi pubblici, nei negozi, appartenga a un’altra specie. Una specie nuova, apparentemente affine alla vecchia umanità (di cui faccio parte), ma con un diverso modo di intendere e di “leggere” la realtà. Un modo che a noi, appartenenti alla vecchia specie, può sembrare fuorviante, distorto, Non si tratta solo di giovani e giovanissimi, nati e cresciuti nello sfacelo della cosiddetta civiltà occidentale e in un habitat neocapitalistico colonizzato. Sono uomini e donne che percepisco come distanti, troppo diversi perché io possa considerarli miei simili.
Non si tratta soltanto del riconoscere la diversità in profonde differenze culturali, come potrebbe accadere se incontrassi un uiguro del Turkestan orientale o un calmucco, ma molto di più, una frattura più grave e forse definitiva. Una frattura che traccia una linea di demarcazione fra ciò che è stato l’uomo del secolo precedente, pur “consumistico”, imborghesito, ideologizzato, comunque prigioniero nella “gabbia di ferro” del capitalismo, e ciò che è ora questa sua caricatura, che annuncia la comparsa di una nuova specie. L’estinzione dello spirito critico e indipendente, della capacità di comprendere il senso delle dinamiche sociopolitiche e talora il funzionamento sistemico complessivo, ancora vive nel secolo precedente, non rientrano nelle caratteristiche di quella che ho provocatoriamente definito “la nuova specie”. Questa si sta affermando in occidente, a partire dal Nord America, e dilaga a macchia d’olio in Europa, dove consolida la sua presenza, non risparmiando però l’est e la Russia.
A volte, con il piglio del “naturalista” d’altri tempi in osservazione delle specie viventi (Linneo, Lamarck), ascoltando i loro discorsi, osservandone la postura e i movimenti, valutando il loro aspetto e cogliendone gli sguardi, m’illudo di capire e credo addirittura d’intuirne i processi mentali. Chi e cosa sono costoro, con i quali difficilmente riesco a sviluppare un dialogo e con i quali, il più delle volte, avvertendo una certa alienità non cerco neppure di comunicare? Mi sono posto la domanda e ho cercato la risposta, non senza provare un senso (non mi vergogno a dirlo) di superiorità antropologica e culturale, perché avverto in loro – è difficile da spiegare, ma ci provo – una grave carenza, quasi una “mutilazione”, che comporta una discesa lungo la scala evolutiva. Riflettono tutta l’inconsistenza e la vacuità del mondo liquido al quale appartengono, per dirla alla Bauman.
Con loro in genere parlo pochissimo, causa incomunicabilità, e solo quando è necessario. Riesco ormai a distinguerli con una certa facilità dai miei simili, che sempre più raramente incontro. Se mi rivolgo a loro, lo faccio per ottenere informazioni banali e quotidiane, scandendo bene le parole. Ad esempio, chiedo << che _ ora _ è? >> non aggiungendo altro, oppure <>, evitando di dare l’impressione di cercare un dialogo. Se devo rispondere a una loro domanda, lo faccio laconicamente, per lo stretto necessario, attenendomi scrupolosamente all’oggetto. Ad esempio, rispondo in estrema sintesi <>, oppure <>, per chiudere in fretta ed evitare discussioni estemporanee.
Quando sono costretto ad avere un contatto più prolungato con un esemplare della nuova specie, mi guardo bene dall’affrontare argomenti complessi, riguardanti la politica, la geopolitica, gli assetti sociali, la moneta e la sovranità degli stati, le responsabilità di questo complessivo impoverimento delle classi subalterne. Meglio evitare anche il classico e apparentemente innocuo <>, oppure sbilanciarsi insinuando qualche dubbio sulla natura e sui veri scopi dell’attuale governo. Mi comporto in tal modo per evitare problemi, nella forma d’inutili ed estenuanti discussioni che non approdano a nulla e alla fine si rivelano controproducenti. Lo faccio perché da qualche tempo mi sono accorto che non esiste una controparte con la quale discutere sensatamente. Non esiste in loro alcuna “sensibilità” per questi temi ed anche le espressioni uomo, stato, governo, economia, non hanno per loro lo stesso significato che hanno per me, ammesso e non concesso che siano in grado di attribuirgli un qualche senso compiuto. Ripeto che non si tratta semplicemente di una questione di differente cultura, perché le basi culturali, i fondamenti dovrebbero essere gli stessi, o di salto generazionale, poiché, nonostante l’appartenenza ad altra generazione, si dovrebbe riconoscere il proprio simile. E’ qualcosa di profondo e di più netto, come se si trattasse della distanza fra specie diverse, per quanto con significativi punti di contatto. Mi viene in mente il mistero che avvolge i primi contatti fra l’homo neanderthalensis e il sapiens sapiens, solo che oggi le parti mi sembrano rovesciate. Infatti, la specie in via di affermazione non è quella con maggiori possibilità evolutive – in termini di linguaggio, elaborazione culturale, autocoscienza, progettazione di sistemi sociali complessi – ma l’altra. La seconda differenza di rilievo è che il neandertaliano apparteneva a una specie naturale, mentre la nuova che osservo ha un’origine manipolatoria, artificiale.
Con loro non discuto, se posso evitare di farlo, perché la particolare “involuzione” che manifestano riguarda il livello di comprensione della realtà storica, sociale e politica in cui vivono, tendente a zero. Inoltre, l’artificialità dell’origine di questa nuova specie è testimoniata dall’accettazione acritica del funzionamento sistemico, la completa sottomissione ai suoi dogmi, l’estrema adattabilità all’habitat creato dal modo di produzione neocapitalistico, che prevede nuove forme di schiavitù per i dominati e differenziali di ricchezza, potere e prestigio sociale destinati a schizzare alle stelle. Davanti alla comparsa di questa nuova “forma di vita intelligente”, nata dalla vecchia specie per volontà degli agenti strategici neocapitalisti, persino la spiegazione di natura classista, che darebbe un senso alla loro estrema “docilità”, mi pare inadeguata.
Costanzo Preve sosteneva che una classe dominata, nata all’interno di uno specifico modo storico di produzione, è sempre in condizioni di minorità e non può guidare la trasformazione intermodale (in termini di passaggio da un modo di produzione all’altro), né liberarsi da sola delle proprie catene. Il proletariato industriale, nel caso del capitalismo del secondo millennio, non ha potuto rivoluzionare il sistema da solo, ma soltanto sotto la guida e il controllo di élite rivoluzionarie appartenenti, in buona misura, alla classe dominante (Ottobre Rosso, partito dei Bolscevichi, nascita dell’Unione sovietica). Nel nostro caso, la situazione è ancora più grave perché alcuni decenni di forte manipolazione antropologica e culturale di massa, in occidente, non solo hanno reso possibile il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al neocapitalismo globale e finanziario, ma hanno diminuito l’uomo fino al punto di creare una nuova specie intelligente, per sua natura e genesi docilissima, totalmente incapace di pensarsi libera, fuori dalla “gabbia di titanio” neocapitalista.
Basta osservare intorno a noi, ascoltare i discorsi, analizzare i comportamenti, avere attenzione anche per i dettagli, per capire che non si tratta di un normale, “buon vecchio” condizionamento, al quale ci si può sottrarre riconoscendo la realtà. Si è andati in profondità, agendo sul lavoro, martellando con i media che creano “realtà parallele”, smantellando dalle fondamenta la classe, la comunità, le basi culturali del vecchio mondo, utilizzando tutto il possibile, dall’alimentazione alla diffusione delle droghe e degli psicofarmaci. Non si è ancora arrivati al punto di manipolare gli embrioni prima della nascita, agendo direttamente sulla riproduzione umana, come preconizzato da Aldous Huxley nel celebre romanzo Brave New World (Il mondo nuovo), del lontano 1932, ma certo i risultati fino ad ora ottenuti sono sorprendenti. Qui non centra l’eugenetica e non c’è ancora riproduzione massiva extrauterina.
Se in passato ho scritto qualcosa a riguardo della costruzione sociale dell’uomo precario, in occidente, definendola un gigantesco “esperimento di massa” in dimensioni mai viste prima nella storia dell’umanità, con grande dovizia e impiego di mezzi, tecnologie e scoperte scientifiche, oggi mi sento di andare oltre e di parlare esplicitamente di “nuova specie”. Il processo di “spersonalizzazione” del nuovo capitalismo che ha divorziato dalla borghesia (classe dominate problematica, talora incline essa stessa alla ribellione), non solo ha creato una nuova classe dominante senza problemi di “coscienza infelice”, legata a doppio filo alla riproduzione sistemica, ma una nuova specie, diminuita rispetto alla nostra, che per sua genesi non può mettere in discussione il sistema, o pensarsi al fuori, sia pur limitandosi a un semplice “rivendicazionismo”, per ottenere qualche concessione di natura economica.
Basta guardarsi intorno, qui, in Italia, e notare che nel momento in cui si negano apertamente, con ferocia, la giustizia sociale, i diritti del lavoro e al lavoro, la redistribuzione dei redditi, una pur limitata partecipazione di massa alla decisione politica, vi è un picco di adesioni ai governi elitisti-neocapitalisti e alle politiche contro i dominati che questi esprimono. Una situazione solo apparentemente paradossale e inspiegabile, per la quale in passato, metaforicamente, ho evocato il masochismo e la “sindrome di Stoccolma”. Oggi mi sento di affermare, in modo meno metaforico e meno allegorico, che siamo davanti non tanto a una nuova classe dominata, pauperizzata e ridotta in stati di semi-incoscienza, ma a una “nuova specie”, che il neocapitalismo ha creato da uomo e donna per riprodursi senza scossoni, attraversando indenne tutto il ventunesimo secolo.
Persicaria maculosa.
Il Poligono persicaria (Persicaria maculosa è una pianta di tipo arbustivo della famiglia delle Polygonaceae con piccoli fiori bicolore raccolti a spiga.
La famiglia di questo genere è mediamente numerosa (una cinquantina di generi per circa un migliaio di specie), mentre il genere Persicaria comprende una cinquantina di specie, di cui una dozzina circa sono spontanee della nostra flora.
Il Sistema Cronquist assegna la famiglia delle Polygonaceae all'ordine delle Polygonales mentre la moderna classificazione APG la colloca nell'ordine delle Caryophyllales. Sempre in base alla classificazione APG sono cambiati anche i livelli superiori (vedi tabella a destra).
Il genere di questa pianta è relativamente nuovo in quanto fino a qualche decennio fa questa pianta e altre specie simili facevano parte delgenere Polygonum. Questa ristrutturazione tassonomica non è accettata unanimemente da tutti i botanici, infatti tuttora ci sono ancora diverse classificazioni che non contemplano un'esistenza autonoma per il genere Persicaria.
All'inizio dell'altro secolo il botanico italiano Adriano Fiori (1865 – 1950) aveva sistemato questa pianta nella sezione “PERSICARIA” del genere Polygonum; sezione caratterizzata dall'avere foglie lanceolate, ocree ad angolo retto, fusti ramosi con infiorescenza a spiga ecotiledoni “accombenti”, ossia nel seme le “radicicole” sono piegate sul margine dei cotiledoni, e si sviluppano sulla linea di fenditura di separazione degli stessi[1]. Questa sezione ora è stata convertita in una genere autonomo.
All'interno del genere la specie maculosa appartiene al gruppo Gruppo di Persicaria lapathifolia formato, oltre che dalla specie descritta in questa scheda, dalla specie Persicaria lapathifolia L. (ex Polygonum lapathifolium), e anche da varianti e sottospecie.
Il nome del genere (Persicaria) deriva semplicemente dal fatto che le foglie sono molto simili a quelle del pesco. Il nome specifico (maculosa) deriva invece da una caratteristica macchia scura posta al centro delle foglie.
Il binomio scientifico Persicaria maculosa è stato definito dal botanico britannico Samuel Frederick Gray (1766 – 1828) nella sua opera The Natural Arrangement of British Plants del 1821. In realtà la pianta era stata precedentemente studiata e documentata (oltre che da altri) dal botanico e naturalista svedese Carl von Linné (1707 – 1778) col nome diPolygonum persicaria nella pubblicazione Species Plantarum del 1753.
Gli inglesi chiamano questa pianta Red leg ma anche Redshank; i francesi la chiamano Renouée persicaire oppure Pied rouge; i tedeschi la chiamano Floh-Knöterich.
Farmacia
- Sostanze presenti: questa pianta contiene una notevole quantità di sostanze tanniniche.
- Proprietà curative: secondo la medicina popolare questa pianta ha diverse proprietà curative fra cui la proprietà vulneraria (guarisce le ferite), vermifuga (elimina i vermi intestinali), rubefacente (richiama il sangue in superficie alleggerendo la pressione interna), emostatica (blocca la fuoriuscita del sangue in caso di emorragia – funzione svolta dalla foglie fresche), astringente (limita la secrezione dei liquidi), ediuretica (facilita il rilascio dell'urina). In generale questa pianta viene usata contro le malattie renali, contro la gotta e lo scorbuto; sembra sia valida anche per il mal di denti.
- Parti usate: le foglie sotto forma d'impiastro. In America gli indiani Cherokee, Chippewa, e Iroquois (popolazione originaria del Nord-Est degli Stati Uniti) usano dei decotti di questa pianta per usi dermatologici (infezioni della pelle), gastrointestinali (diarrea) e urinari, ma anche per usi veterinari.
Cucina
Le sue foglie possono essere usate (trattate opportunamente) al posto del pepe (sono aromatiche molto piccanti); se sono giovani si possono usare come insalata. Ma sembra che possano causare danni al fegato per cui è meglio non usarle; possono inoltre contenere minime quantità di acido ossalico (sostanza nociva). In certe zone vengono considerati eduli anche i semi.
Semi
Industria, agricoltura e pascolo
L'industria tessile ricava da queste piante dei coloranti giallo-rossastri soprattutto per la tintura del lino. Per l'agricoltura la specie “Poligono persicaria” è una pianta infestante; comunque il tipo di danno è limitato in quanto si risolve in spazio sottratto a specie più utili. In genere è una pianta non molto appetibile agli animali da pascolo; invece i semi sono molto ricercati dagli uccelli.
Giardinaggio
La “persicaria” una pianta abbastanza facile da coltivare; va messa in luoghi luminosi (la luce del sole deve essere abbastanza diretta); teme il freddo, non sopporta temperature sotto lo zero, quindi se l'inverno è troppo rigido è bene ricoprire gli arbusti con teli o almeno ricoprire la base della pianta con paglia e foglie secche.
Cesare Pavese.
Meravigliosa lettera del 1942 da Pavese a Einaudi.
Tratto da "Cesare Pavese" di Franco Vaccaneo, Gribaudo Editore.
Lucio Perotta Ovviamente sapete che la lettera fa parte di un carteggio-cazzeggio tra i due e che questa è la risposta ironica a una missiva matta inviata da Einaudi, no?
Nicola Nebbia Questa "lettera" dovremmo scriverla anche noi e inviarla ai vari "Spettabile Editore" che ci spremono la vita convincendoci a privarla dei piaceri che la rendono (e ci rendono) VIVI, VITALI… Senza assaporare, o disimparando ad assaporare, quei piaceri, talvolta semplici, ci trasformiamo in esseri sempre più grigi e gretti, tristi e insoddisfatti...
Meravigliosa lettera del 1942 da Pavese a Einaudi.
Tratto da "Cesare Pavese" di Franco Vaccaneo, Gribaudo Editore.
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