venerdì 8 maggio 2015

L'attentato. - Giorgio Bongiovanni

Palermo. Surreale. 
E’ questa l’atmosfera che si respira oggi all’aula bunker dell’Ucciardone. 
Ennesima udienza al processo trattativa Stato-mafia. In videoconferenza c’è il collaboratore di giustizia Vito Galatolo. Sugli schermi si intravede l’uomo di spalle con un cappello in testa. Le sue parole colpiscono duro. Il progetto di attentato nei confronti del pm Nino Di Matteo prende forma. Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi lo incalza con domande serrate alle quali il pentito non si sottrae. Di Matteo andava ucciso “perché stava andando troppo oltre” nel suo lavoro, soprattutto per quanto riguarda le indagini “di questo processo”. Galatolo parla di 200 kg di tritolo destinati al magistrato palermitano. Secondo il figlio del boss dell’Acquasanta, Vincenzo Galatolo, lo stragista Matteo Messina Denaro avrebbe messo a disposizione un suo artificiere. “Avevamo l'ordine che non dovevamo presentarci con questa persona – spiega il collaboratore di giustizia –. Ci stupiva il fatto che non dovevamo sapere chi era questo uomo di Messina Denaro... Noi capimmo che era esterno a Cosa Nostra e che poteva essere qualcuno dello Stato che era interessato a fare questa strage”. Galatolo specifica inoltre che, attraverso le missive di cui era venuto a conoscenza, Messina Denaro aveva tranquillizzato i suoi sodali evidenziando che “facendo quell’attentato (a Di Matteo, ndr) non ci dovevamo preoccupare perché questa volta saremmo stati coperti”. Si tratta di quelle “coperture” di cui lo stesso collaboratore di giustizia aveva già sentito parlare in prossimità della strage di via D’Amelio dal boss Filippo Graviano? “Al fondo Pipitone, dove abitavamo, si riuniva il gotha di Cosa Nostra – sottolinea di seguito il figlio di Vincenzo Galatolo –. A volte venivano anche altre persone. Per una famiglia mafiosa, mantenere contatti con uomini dei Servizi segreti, significava ottenere una sorta di 'protezione'. Potevamo ottenere informazioni su eventuali indagini, blitz, arresti prima che venissero compiuti. Chi veniva? Ricordo il questore Arnaldo La Barbera ma anche Bruno Contrada. C’erano uomini con e senza divisa, uomini dei Servizi, del Ros”. A detta del pentito, La Barbera era “a libro paga dei Madonia” in quanto “ci dava informazioni e prendeva soldi”. Galatolo ricorda quindi un uomo “con la faccia sfregiata” che veniva chiamato “il mostro”. “Una volta lo vidi entrare assieme a Bruno Contrada (ex numero 3 del Sisde, ndr). Questa persona l’ho riconosciuta sulle fotografie che mi sono state mostrate”. Il neo pentito continua il suo racconto spiegando che l’ex boss dell’Arenella Gaetano Scotto “era uno che era in contatto con i servizi segreti, che avevano un ufficio al Castello Utveggio, sul Monte Pellegrino che sovrasta il luogo della strage di via D'Amelio. Lo stesso Nino Madonia (ex  reggente del mandamento di Resuttana, ndr) era in contatto con rappresentanti istituzionali”. In aula viene evidenziato che il progetto di attentato nei confronti del pm Di Matteo prevedeva anche una sorta di piano “B” da realizzare a Roma con i kalashnikov. Di Matteo sarebbe dovuto essere “attirato su Roma tramite il pentito Salvatore Cucuzza”, racconta Galatolo. “Avevamo un contatto con lui e sapevamo che stava molto male e che aveva un ristorante vicino alla Cassazione”. Il progetto omicidiario prevedeva di “far appoggiare i kalashnikov” nel locale del pentito. Lo stesso Cucuzza “doveva far venire Di Matteo al suo ristorante per parlare del processo Stato-mafia. Nell’appartamento di fronte uomini di Cosa Nostra avrebbero controllato se Di Matteo sarebbe arrivato. E lì si sarebbe fatto l’agguato”. Salvatore Cucuzza è, però, morto per un tumore maligno poco dopo essere stato coinvolto in questo disegno criminale.
Di Matteo siede accanto ai suoi colleghi del pool e ascolta nuovamente questa storia di stragi annunciate che lo riguarda da vicino. “Le parole hanno un peso!”, pronuncia con forza il pm condannato a morte di fronte al contesto realmente surreale che assume il controesame dell’ex boss. Se si mettono in fila le parole dette e quelle non dette in tutta questa vicenda ci si rende conto dei contorni sempre più grigi. Da una parte ritroviamo la sentenza di morte di Totò Riina, le relative direttive di Matteo Messina Denaro e le rivelazioni dei collaboratori di giustizia; dall’altra si percepisce sempre di più il silenzio – colpevole – dei massimi esponenti delle istituzioni di fronte ad una condanna che è tuttora pendente (a partire dall’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il Premier Matteo Renzi, i Presidenti di Senato e Camera, Piero Grasso e Laura Boldrini, fino a toccare trasversalmente buona parte dei vari schieramenti politici). Che Paese è quello che tenta di sminuire la gravità di ciò che sta accadendo attorno al pm più protetto d’Italia? E cosa si può dire ad una magistratura colpevole di isolarlo attraverso bassezze degne della peggiore casta (si vedano ad esempio gli incarichi “ordinari” dei quali Di Matteo si deve occupare sottraendo tempo prezioso a indagini delicatissime, fino ad arrivare alle bocciature del Csm alle sue domande di avanzamento di carriera che di fatto lo sovraespongono ulteriormente)? Da mesi a Palermo si cerca quel tritolo di cui parla Galatolo, ma il ritmo delle ricerche appare oggi molto più sfumato, quasi impalpabile. Contemporaneamente si assiste alla precisa volontà di smorzare il peso delle dichiarazioni dell’ex boss dell’Acquasanta storcendo il naso di fronte ai suoi riferimenti sul ruolo di Matteo Messina Denaro, mettendo in dubbio la sua attendibilità, o quanto meno evitando di parlarne a livello mediatico. E’ la storia che si ripete. Come se vent’anni, dopo le stragi, non fossero bastati. Il silenzio istituzionale nei confronti di Nino Di Matteo continua, però, ad incrementare il suo volume. Dal Presidente Mattarella non è giunta ancora una parola chiara e netta a proposito. E questo suo silenzio, vista la storia tragica legata alla sua famiglia, appare del tutto incomprensibile e soprattutto grave. Una condanna a morte di Cosa Nostra non va mai in prescrizione. L’integrità morale della maggioranza dei rappresentanti del nostro Stato (in tutte le sue sfaccettature), invece, è già stata archiviata da un pezzo: oggi si chiama collusione.

L’incendio nel Terminal 3. Coinvolta area di 1000 metri quadrati.


L’aeroporto di Fiumicino è rimasto paralizzato per ore in seguito all’incendio scoppiato stanotte. Anche il traffico in tilt.


Ore di paura all’aeroporto di Fiumicino, dopo che la scorsa notte un violento incendio, scoppiato dopo mezzanotte, ha colpito il Terminal 3. Fortunatamente le fiamme, che non hanno provocato feriti gravi ma solo tre intossicati, sono state domate, ma i disagi alla circolazione sono ancora molti. Da mezzogiorno lo scalo è stato riaperto agli arrivi, mentre le partenze sono riprese gradualmente a partire dalle 14. Ritardi e cancellazioni si sono ripercossi anche su altri scali nazionali, mentre la chiusura dell’Autostrada Roma - Fiumicino ha paralizzato per ore la capitale.

Ritorno alla normalità
È in corso una graduale ripresa della piena attività dello scalo romano, pur rimanendo completamente inagibile il Terminal 3, dove le fiamme hanno interessato l'area commerciale nella zona transiti e, come spiegano i vigili del fuoco, «ci vorranno giorni» per la messa in sicurezza. Dalle 12 alle 14 sono stati operativi 12 voli l'ora, mentre adesso si sta tornando ai ritmi consueti. Ripresi anche i collegamenti ferroviari con Roma e riaperta l'autostrada. Le compagnie aeree si stanno riorganizzando per predisporre, appena possibile, le partenze di tutti i passeggeri, mentre i voli in arrivo atterrano regolarmente. «Il primo volo della giornata, della compagnia Iberia, è appena partito» ha annunciato intorno a mezzogiorno il presidente dell'Enac Vito Riggio, e poco dopo L’Alitalia ha comunicato la ripresa graduale dei voli della compagnia di bandiera; il primo volo decollato è stato l'AZ 110 diretto ad Amsterdam. 
Si indaga per scoprire le cause
Al momento restano da definire con certezza le cause del rogo, probabilmente innescato da un corto circuito. È stata esclusa subito dagli inquirenti l’ipotesi dolosa. Stando alle prime ricostruzioni, le fiamme sarebbero divampate poco dopo la mezzanotte dal bar Gustavo al Terminal 3, all’interno dell’area transito successiva al controllo passaporti e non dal deposito bagagli, come riferito in un primo momento. In poco tempo l’incendio ha invaso completamente il Terminal, provocando una colonna di fumo altissima, visibile anche a chilometri di distanza. Sarebbe stata una dipendente del bar ad accorgersi delle fiamme e lanciare l’allarme «È una testimonianza che stiamo valutando secondo gli elementi che hanno i vigili del fuoco» ha spiegato il vice questore Antonio Del Greco, mentre proseguono le indagini per capire se la struttura fosse dotata di un sistema antincendio adeguato «Bisogna comprendere se quello che è accaduto la notte scorsa è solo un caso accidentale o sia un segnale di problemi da verificare - ha affemato Riggio - bisogna capire cosa è bruciato così velocemente, quale materiale ha fatto propagare le fiamme rapidamente: i materiali usati in aeroporto sono a norma di legge, non so però cosa c'era nei negozi. Questo è un punto che bisognerà capire. Ora vigileremo su tutte le società presenti al Terminal 3, sulle cause aspettiamo gli accertamenti». 

Stanchezza e paura dei passeggeri
Appoggiati ai bagagli, sdraiati sui marciapiedi, seduti per strada o sul pavimento: dopo l'incendio che ha causato la chiusura dello scalo romano, i viaggiatori aspettano notizie sui voli. C’è chi fa la coda al banco informazioni, chi preferisce sedersi al sole e chi si sdraia per strada o sul pavimento, sono migliaia le persone rimaste a terra a causa della chiusura temporanea dello scalo romano. Nella mattina quasi tutti i passeggeri in transito, a parte quelli delle compagnie low cost “dirottato” su Ciampino, sono stati trasferiti in albergo in attesa che riprendessero i voli. A quelli rimasti dentro l'aeroporto era consentito occupare solo "Land side", ovvero il lato check-in, dove venivano distribuite bottigliette d'acqua. 

http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/2015/05/08/incendio_fiumicino_disagi_ritardi_aeroporto_roma.html

Vitalizi condannati, approvata l’abolizione (a metà): fuori M5S e Forza Italia. -

Vitalizi condannati, approvata l’abolizione (a metà): fuori M5S e Forza Italia

Via libera dall'ufficio di presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama. La delibera prevede lo stop per i condannati in via definitiva per mafia, terrorismo e reati contro la PA (ma non l'abuso d'ufficio), nonché quelli con condanne superiori a 6 anni. C'è la possibilità di riabilitazione. M5S non partecipano al voto prima, votano contro poi: "Compromesso al ribasso".

Abolizione (a metà) dei vitalizi ai condannati: dopo mesi di rinvii e ripensamenti con un ritardo forse solo secondo a quello sulla legge anticorruzione c’è il via libera dell’ufficio di presidenza della Camera e del Senato. Restano fuori prima e votano contro poi i 5 Stelle (“Compromesso al ribasso”), mentre Forza Italia ha abbandonato i lavori in entrambi i casi (“Ci voleva una legge ad hoc”). Non ha partecipato al voto Area popolare. Sì di Pd, Lega Nord, Sel e Fdi. La presidente Laura Boldrini: “E’ un forte segnale di moralizzazione”. Il questore M5S Laura Bottici: “Questa non è la delibera originale, né quella mia, né quella di Grasso dello scorso anno, sulle quali abbiamo fatto battaglia per undici lunghi mesi”.
L’abolizione a lungo agognata arriva dopo la campagna di Libera che ha raccolto 500mila firme, ma è comunque zoppa. La delibera approvata infatti, decide lo stop delle pensioni a vita per gli eletti in Parlamento condannati per reati di mafia, terrorismo e contro la Pubblica amministrazione con pene superiori a 2 anni di reclusione. Ma nella versione finale del testo, con il compromesso voluto dal Partito democratico, aumentano le possibilità di farla franca: si esclude l’abuso d’ufficio, si prevede la modifica in senso restrittivo per i delitti non colposi da 4 a 6 anni e si inserisce la riabilitazione.

A approvata la delibera per agli ex deputati condannati per reati gravi. E' segnale forte di moralizzazione.

I 5 Stelle protestano: “Questa delibera è solo una farsa, che salva la stragrande maggioranza dei politici condannati, tutti i loro amici di tangentopoli, e colpisce solo una piccola cerchia. Ancora una volta la casta si è auto assolta e continuerà a godere di vitalizi pagati dai cittadini italiani”. Queste le 4 modifiche che avevano chiesto per migliorare il provvedimento: “Includere nelle cause di abolizione del vitalizio anche chi è stato condannato per reati punibili con un massimo di pena di 4 anni (e non 6), oltre che per abuso d’ufficio; escludere la riabilitazione come causa di ripristino del vitalizio; escludere la reversibilità del vitalizio in caso di decesso”.
Già in mattinata erano iniziate le prime tensioni: “Non amo lisciare il pelo all’antipolitica”, ha detto il senatore Pd Ugo Sposetti parlando per primo a Palazzo Madama su di un tema non all’ordine del giorno. “Rivolgo una supplica al presidente del Senato: non ci si occupa del tema dell’abolizione dei vitalizi ai condannati durante la campagna elettorale”. Applausi da Lucio Malan dai banchi di Forza Italia: “Bravo!”. Critiche dai 5 Stelle: “Indecenti”. Imbarazzo invece dai colleghi Pd per la sconfessione pubblica di un atto che vogliono a tutti i costi portare a casa. “Ritengo”, ha concluso, “che i membri del consiglio di Presidenza si trovino di fronte ad un diritto inalienabile, un diritto acquisito, un diritto che matura con il versamento dei contributi del lavoratore e dell’azienda, un diritto alla sopravvivenza”. In realtà la situazione è diversa: solo con il governo Monti il sistema è diventato contributivo, mentre prima era retributivo e quindi non si può parlare di “diritto acquisito” in seguito ai contributi versati.
Tra i temi contestati nella bozza della delibera c’è quello dell’inserimento della riabilitazione: nel caso in cui questa venga richiesta dall’interessato (potrà farlo dopo 10 anni dalla fine della condanna per i reati più gravi e dopo 3 anni nei casi meno gravi) e questa venga concessa dal giudice, comportando la cancellazione della condanna dalla fedina penale, il vitalizio potrà essere riassegnato. Essendo la condanna di fatto un requisito negativo e non introducendo la delibera una pena accessoria, spiegano alcuni tecnici, quando la fedina penale torna pulita, “è giusto che il vitalizio venga ridato” perché le misure devono essere “ragionevoli e proporzionate” per non essere contestate. Stop alla pensione anche nel caso di patteggiamento, ma la misura varrà dall’entrata in vigore della legge in poi perché, si sottolinea nella maggioranza, “quando uno decide di patteggiare deve sapere prima a cosa va incontro”.
La delibera entrerà in vigore “il sessantesimo giorno successivo alla data della sua approvazione”, quindi non prima di due mesi a partire da oggi. Si legge nel testo approvato oggi. Le misure saranno applicate, si legge ancora, “ai deputati cessati dal mandato che, alla data di entrata in vigore” della delibera “siano già stati condannati in via definitiva, o che, successivamente a tale data, riportino condanna definitiva per i delitti” previsti dal provvedimento. Pertanto ai deputati non più in carica non verrà chiesto la restituzione del pregresso.

Corruzione, ecco il whistleblower all’italiana. Cantone detta le regole. - Elena Ciccarello

Corruzione, ecco il whistleblower all’italiana. Cantone detta le regole

Una delibera dell'Anac detta le linee guida per gestire le denunce di dipendenti pubblici su casi di malaffare e nepotismo. Al primo punto la tutela del segnalante e le procedure informatiche per garantire riservatezza. In Usa si recuperano così sei miliardi l'anno, mentre in Italia è sempre in agguato il marchio del "delatore".

In Italia c’è chi li chiama “delatori” e guarda con sospetto alle loro denunce. Ma negli Usa è grazie ai “whistleblower“, persone che segnalano in modo riservato all’autorità gli illeciti di cui sono testimoni, che il Governo recupera ogni anno l’85% delle somme oggetto di frodi, oltre 55 miliardi di dollari dal 1986 con una media, oggi, di sei miliardi all'anno. Un sistema lontano “anni luce” da quello italiano, secondo il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone che ieri, intervenendo con l’ambasciatore statunitense John R. Philip ad un convegno organizzato dall’Universita’ Luiss Guido Carli, ha presentato il nuovo vademecum sul whistleblowing approvato dall’Anac e sollecitato nuovi “passi in avanti dal punto di vista normativo” per tutelare il dipendente pubblico che decide di esporsi.
Le Linee guida approvate dall’Anticorruzione nascono per “offrire agli enti pubblici italiani una disciplina applicativa delle stringate disposizioni di principio introdotte dalla legge n. 190/2012 (cd. “Legge Severino“)”. Si tratta dunque di regole elaborate, secondo quanto scritto dalla stessa Autorità, a partire da norme troppo “sintetiche” cui si è voluta dare “un’espansione massima possibile”, “nel contempo suggerendo al Legislatore possibili miglioramenti”.
Il vademecum si concentra sul tema della tutela del segnalante, in primis, su cui si chiede un “intervento chiarificatore” da parte della politica, ma anche sull’orizzonte di illeciti che possono essere segnalati, sui soggetti cui rivolgersi per fare la segnalazione e il trattamento da riservare alle segnalazioni anonime (comunque acquisite anche se trattate in modo diverso). Secondo l’Anticorruzione potranno essere segnalati non solo gli illeciti contro la pubblica amministrazione ma anche “l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati”. L’elenco è lungo “sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni, violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro” eccetera.
Le amministrazioni pubbliche non possono rivelare l’identità del whistleblower senza il suo consenso, tranne nei casi in cui chi “è sottoposto al procedimento disciplinare” per effetto della segnalazione abbia bisogno di conoscerla perché “assolutamente indispensabile” per la propria difesa. L’autore della segnalazione non può in ogni caso essere oggetto di provvedimenti disciplinari per effetto della sua denuncia, ma la tutela decade se viene riconosciuto colpevole di un reato di calunnia o diffamazione già in primo grado.
Il primo punto del vademecum resta comunque la tutela del whistleblower, sui cui la normativa attuale, secondo il documento, presenta ancora troppe lacune. Su questo l’Anticorruzione, in attesa di nuove norme, introduce alcune regole per il ricorso a procedure informatiche tali da evitare “la presenza fisica del segnalante”, che vanno indirizzate al responsabile per la prevenzione della corruzione dell’ente a meno che non riguardino proprio quel funzionario. In tali casi la segnalazione andrà invece inviata all’Anac. In ogni caso le amministrazioni dovranno fare di tutto per adottare procedure di tutela. “Al fine di evitare che il dipendente ometta di segnalare condotte illecite per il timore di subire misure discriminatorie, è opportuno che… le amministrazioni si dotino di un sistema che si componga di una parte organizzativa e di una parte tecnologica, tra loro interconnesse”, si legge nel documento.
A fronte di queste disposizioni resta però un problema di fiducia. E di tempi. “A noi tanti scrivono perché non ricevono risposte da parte delle istituzioni o perché hanno bisogno di indicazioni e di incoraggiamento prima di presentare una segnalazione” spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgio Fraschini, responsabile dello sportello per le segnalazioni di Transparency Italia. “Chi decide di fare una segnalazione ha bisogno di fidarsi del suo interlocutore e le fredde procedure burocratiche spesso in questo non sono d’aiuto”. Il modulo offerto dal servizio dell’Anticorruzione, come prima cosa, chiede a chi vuole fare una segnalazione di indicare il suo nome, cognome e posizione lavorativa. E questo, come notato dallo stesso Cantone, può non aiutare quando non si è in grado di garantire il segnalante da ritorsioni. “Chi scrive all’Anticorruzione non riceve una risposta e non riesce a capire a che punto sia la sua segnalazione” continua poi Fraschini. “Ma chi per colpa di quegli illeciti ha perso il lavoro o vive una situazione di disagio non può aspettare dei mesi”. L’America è ancora lontana.